giovedì 28 gennaio 2010
BUON PRIMO COMPLEANNO, AGATA ZENA!
Sei arrivata senza che ti aspettassi, come un secondo sole, meno cocente ma più luminoso, in una giornata serena. Hai colorato le nuvole, hai dato un nuovo senso al cielo.
Oggi hai un anno, Agata Zena. Hai migliorato la mia vita, hai reso migliore me.
Spero che un domani tu possa ringraziarmi quanto sto ringraziando adesso io te.
Buon primo compleanno, mio piccolo capolavoro.
Papà.
mercoledì 27 gennaio 2010
AFRICA, DOVE IL GIORNO NON HA MEMORIA
Oggi in tutto il mondo è il “Giorno della Memoria”, ma qui nessuno sa cosa sia.
La memoria serve a poco da queste parti e il giorno sopporta a malapena il peso di se stesso.
Ci sono tante feste in Kenya: tutte le ricorrenze cristiane e parecchie di quelle musulmane, c’è il giorno dell’Indipendenza come in America, quello della Repubblica come in Italia, il compleanno del primo presidente della Repubblica come in Papuasia, il compleanno del secondo presidente come solo in Kenya.
Dopo essersi eletto presidente, il 30 dicembre 2007, il signor Mwai Kibaki ha dichiarato il 31 dicembre festa nazionale, “post-election day”. Felice intuizione, la gente ne ha approfittato per iniziare a massacrarsi gioiosamente.
Ha ragione il nostro premier del presente e del futuro Silvio: troppe feste fanno male.
Ma il “Giorno della Memoria” a Malindi è cosa sconosciuta. Qui si vive alla giornata, al massimo alla Memoria si può dedicare un’oretta, si potrebbero istituire i “Quarantacinque minuti della Memoria”, tra mezzogiorno e un quarto e l’una. Poi tutti a mangiare.
“Lei sa cos’è il Memory Day?”
Lo chiedo al proprietario del chiosco di frutta e verdura.
“Vuoi della rucola? E’ arrivata freschissima”
“Memory day?”
“No, non ne ho. Scrivimelo qui che provo ad ordinarlo”.
Provo con l'ambulante delle schede telefoniche.
“Memory day?”
“No, ma ho la tariffa sul week-end, se vuoi”
Ottengo un'alzata di spalle e uno sguardo attonito anche dalla guardia giurata di una banca e dal fintovero masai che ha il banchetto di perline nel mezzo del centro commerciale.
L'Africa non ricorda la Shoah, qualcuno ha sentito parlare di Olocausto, ma è una cosa di tanto tempo fa "che riguardava i tedeschi e gli israeliani", mi dice un indiano kenyan-born che ha studiato a Mombasa.
La memoria a Malindi è cattiva e vicina, molto vicina.
E' la memoria del giorno, di ogni giorno in cui si suda per il pane e si lotta per quel sudore.
In Africa continuano ad uccidersi in maniera barbara, ieri in Kenya, oggi in Congo e da vent’anni in Somalia. Sotto le mentite spoglie di "pulizia etnica" o di “gioco di potere” si scatena la guerra peggiore, quella dei poveri.
Niente docce o fosse collettive, niente camere a gas. Qui girano machete e coltelli, torce e benzina.
Il potere, quello vero che non gioca, non muove un dito, questa è il vero “stato di pulizia”.
Ci hanno provato con la democrazia, con il capitalismo. No, non fa per l'Africa, per il Regno in cui da sempre il leone si batte con la gazzella, il leopardo con il facocero e non c'è battaglia. La democrazia ha insegnato al leone come battersi con il leopardo e, quel che è peggio, alla gazzella come uccidere il facocero.
Perchè? A che serve? A chi serve?
Dal Giorno della Memoria in poi siamo abituati a pensare che dietro ogni eccidio, ogni epurazione, ogni guerra, ci siano motivi economici, politici, sociali. In Vietnam per l’oppio e la Cina, in Iraq per il petrolio e il terrorismo, il Venezuela per la cocaina e Chavez (no, questo non ancora…).
In Kenya sembra assurdo ridurre tutto a due africani ricchi e ubriaconi che vogliono comandare, a due boss di lobby tribali di potere che, dopo essersi sfidati e aver causato migliaia di morti, si sono stretti la mano sorridendo e sono tornati a fare inciuci come nel resto del mondo.
Eppure è così. D’altronde siamo nella Terra del “Non c’è un perché”.
Oggi, “Giorno della Memoria” 2010, altre centinaia di innocenti a poche migliaia di chilometri da casa mia sono stati ammazzati e siamo in così pochi, quaggiù, a portare addosso il peso di così tanti giorni da vivi.
venerdì 22 gennaio 2010
A MALINDI MANCA (versione 2010)
Dedicata a tutti quegli italiani che vengono ad investire a Malindi, convinti di portare un’idea unica e straordinaria, un progetto mai osato prima o un business di cui c’era veramente bisogno…
A Malindi manca
Un motel a cinque stelle
Un maneggio con le stalle
Un negozio di abbigliamento in pelle (contrabbando, per le signore leopardate…s’intende)
Una fabbrica di caramelle (da vendere ai turisti che poi le regalano ai bambini così gli cariano tutti i pochi denti sani che hanno, tanto poi arrivano i dentisti volontari italiani che li curano)
Una fabbrica di dentiere
Una ditta di giarrettiere
Il buon formaggio con le pere
E il contadino che lo vuol sapere
A Malindi manca un ristorante cinese
Un ristorante thailandese
Un ristorante malese
Un ristorante maltese (corto)
Un ristorante esquimese (non so…i prodotti surgelati non vanno tanto a Malindi…)
Un ristorante aperto una volta al mese
Un ristorante che stia nelle spese
Una pescheria di lusso
Una pasticceria anche del casso
Un negozio con specialità gastronomiche friulane
Un bordello con specialità astronomiche ghiriame
Un negozio di computer
Un computer per ogni negozio
Una gioielleria come a Via Condotti
Un condotto che porti alla gioielleria (per svaligiarla)
Un mercatino equo-solidale
Ma anche un mercatino iniquo-bastardo
Un sarto antico
Un antiquario moderno
Un autolavaggio elettronico
Un autolavaggio di coscienza
Una lavanderia a gettoni
Una lavasoldi automatica (no, forse quella c’è…)
Una yogurteria biologica
Un esperto di analisi logica
Una torrefazione
Un produttore di torrone
Un ippodromo
Un bocciodromo
Un salsodromo
Un rincoglionitodromo (anche quello, forse…)
Un minigolf
Un maxipareo
Un maxischermo
Un drive-in con le cameriere sui pattini
Un buon reparto di rianimazione per cameriere volate dai pattini
Un’enoteca
Un’emeroteca
Una cineteca
Un’unità cinofila
Un bioparco
Un biopresto (però c’è l’Omo…)
Una stazione della metropolitana
La metropolitana anche senza stazioni
Una fermata dell’autobus
Basterebbe anche solo una circonvallazione…
Il blocco dei camion
Il blockbuster
Il blocco e basta
Benetton
Stefanel
Conbipel
Sua sorel
….
(La lista potrebbe continuare all’infinito, ma la verità è che malindi mancano ancora tante, troppe cose indispensabili a rendere tutto questo superfluo!)
martedì 19 gennaio 2010
GABER, PER FORTUNA O PURTROPPO ERI UN GRANDE ITALIANO
Avendolo eletto personalmente come miglior autore del decennio scorso, per gli album "La mia generazione ha perso" e "Io non mi sento italiano", recupero la recensione dell'album postumo di Giorgio Gaber, scritta a suo tempo per il quotidiano "La Provincia". A sette anni dalla scomparsa, uno come lui mi manca tantissimo, molto più dell'Italia.
Per fortuna Gaber è stato un italiano. Si dice che al giorno d’oggi non servano nuovi slogan, ma gente che sappia urlare. Giorgio Gaberscik in arte Gaber fino all’ultimo è stato uno dei pochi uomini di pensiero del nostro paese che non hanno avuto bisogno di urlare, di apparire in televisione, di legarsi a una corrente o financo a un refolo d’aria per essere ascoltati. Una scelta snobistica? Forse, ma il successo (inaspettato) del penultimo album “La mia generazione ha perso” dimostrava che il cantautore che si è fermato a guardare le macerie umane di una sconfitta (la caduta dei Grandi Ideali) lo ha fatto senza la presunzione di chi da trent’anni ne cantava e recitava le crepe, i primi smottamenti ma con un ritrovato gusto per la poesia e la satira sociale. Da queste basi è nato “Io non mi sento italiano”, un disco forse minore rispetto al precedente ma denso di quella malinconia che Gaber si porta dietro dai tempi di “Dialogo tra un impegnato e un non so”, ma degno di stare in una discoteca intelligente. Contiene canzoni di pura critica ironica alle stupide o atroci abitudini della società (“C’è un’aria” che se la prende con i giornalisti) e afflati di speranza (“Se ci fosse un uomo”, con quel coro addirittura oratoriale) ma soprattutto la rabbia per l’egoismo e la superficialità umana, che supera quella per l’avvicinarsi della morte. L’album uscito postumo non è un “testamento”, come qualcuno si è affrettato a scrivere, ma la dimostrazione che il signor G. non ha mai smesso di guardare avanti, anche quando avanti a se avrebbe trovato l’Inevitabile. Ha semplicemente saltato l’ostacolo guardando sotto. E arrivare alla Consapevolezza cantando “Il tutto è falso”, non dev’essere il massimo dell’allegria (“questo è un mondo ti logora di dentro, ma non vedo come fare ad esser contro”), ma nella sua voce, nel minimalismo degli arrangiamenti sembra che sia un’esigenza dello spirito e non un nuovo bollettino Siae. Ma non ci si deve far influenzare dalla scomparsa del più grande attore di canzoni che l’Italia abbia mai avuto, a chi lo ha sempre tacciato di qualunquismo si può ricordare come sia comunque l’unico a fustigare il sistema usando un linguaggio mai banale e frasi che arrivano al cuore passando dal cervello, senza che strizzino l’occhio a qualsivoglia bandiera. Se questo è qualunquismo, come si diceva di lui vent’anni fa, ben venga. Okay, chi acquista un disco vuole anche musica, emozioni da cui farsi cullare. “Io non mi sento italiano” recupera due splendidi brani del passato, l’inno alla vita “Illogica allegria” e “Il dilemma”, attuale come lo è sempre l’amore. Si potrebbe dire che “Il corrotto” è un blues facilotto (ma divertente) e che la title-track risenta dell’amicizia con Celentano e Jannacci più che di quella con Hans Magnus Einzesberger e Beppe Grillo. Le cose più belle dell’album sono l’introspezione: “I mostri che abbiamo dentro” e il mesto consiglio “Non insegnate ai bambini”. Ecco in campo le emozioni tutte della vita: rabbia, allegria, amarezza, fastidio, sogno. E poi se non ci fosse stato Gaber, chi avrebbe cantato un tempo insipido come questo con passaggi come “la televisione... la si dovrebbe trattare in tutte le famiglie con lo stesso rispetto che è giusto avere per una lavastoviglie”. E se ci ostiniamo a cercare il qualunquismo in “Io non mi sento italiano”, troviamo più facilmente in fondo al nero, messaggi di speranza e di vita. Basti pensare a quel “per fortuna sono italiano” che dopo essere andato a braccetto col “purtroppo” per tutta la canzone, alla fine viene ripetuto due volte. O al finale del disco, che poi sono le ultime parole che ci è dato sentire da un grande maestro: “Con la certezza che in un futuro non lontano al centro della vita ci sia di nuovo l’uomo”.
lunedì 18 gennaio 2010
IL SIGNOR TE' E LA CISTERNA DELL'ACQUA
Il dirigente dei servizi educativi del distretto di Malindi si chiama Chai. Mister Chai. Assistant District Education Officer.
Qui in Kenya il suo nome, come in Cina, in India e in tanti altri paesi d'Africa e d'Oriente, vuol dire té. Ma in gergo significa anche "mancetta". Te lo chiedono i poliziotti quando ti fermano a un posto di blocco improvvisato, te lo consiglia l’esattore delle tasse, lo raccomanda il lavamacchine al parcheggio e lo pretende il ragazzino insolente sulla spiaggia.
Il signor Mancetta non mi ha ancora chiesto una tazza del suo nome, per fortuna.
Lo porto in macchina a Gede, una dozzina di chilometri dal centro di Malindi, ad assistere alla posa del cartellone che indica il progetto della scuola calcio "Genoa Club Malindi" davanti alla scuola elementare, sul ciglio della grande strada asfaltata che vede transitare migliaia di turisti ogni anno. Gli racconto di cosa hanno fatto i miei amici rossoblu allo stadio, vendendo il libro che lui ha in mano ma che ancora non è possibile tradurre in inglese. Gli dico che presto anche il Genoa Cricket and Football Club manderà un aiuto concreto e convincerà (no, senza un “chai”) i suoi sponsor a fare lo stesso.
“I ragazzi avranno le divise rossoblu”
“Era meglio blu e azzurre - dice Chai – come quelle della scuola”
“Sì, ma la squadra è rossoblu”
“Capisco”
Stiamo in silenzio, fino a quando si arriva a Gede. Ad attenderci all’ingresso della scuola il preside, Mister Kanundu, che in kiswahili significa proprio Mister Kanundu.
Forse per questo lui si è già preso il “chai”. Mi ha fatto pagare la posa del cartellone un po’ di più del normale, dieci euro invece di sei. Io lo so che ne darà uno a testa ai due operai che hanno mescolato la sabbia col cemento e l’acqua, hanno scavato le buche e stanno posando i pali del cartellone, il resto va per la vanga, il sacco di cemento e qualcosa in tasca a lui.
Ma che ci vogliamo fare? Anche Mister Kanundu tiene famiglia…
Entriamo nella scuola e costeggiamo il grande campo di calcio che utilizzeremo per insegnare il più bel gioco del mondo ai bambini. Infine arriviamo sul lato sud, dove c’è lo spazio per costruire uno spogliatoio, sei metri per 15, con quattro docce e una toilette, e lo spazio per venticinque armadietti con la chiave e le panche. Di fianco ci sarà l’aula tattica, altri 6 metri per cinque.
Dietro, dove era stato previsto lo spazio per il pozzo, il pozzo non ci sarà.
Faremo una grande cisterna per l’acqua.
“Il tecnico che è venuto sul posto ha detto che qui non è cosa per il pozzo” dice Chai.
“L’acqua è salata e il terreno è duro. Poi ci vuole la corrente, per azionare la pompa che porta su l’acqua. E se non c’è corrente, niente acqua!” conferma Kanundu.
Insomma, mi guardano e mi fanno capire che il pozzo è una “roba da mzungu”, da bianco ricco che vuole fare le cose in grande. Per uno spogliatoio e irrigare il campo da calcio, basta una cisterna da diecimila litri per immagazzinare l’acqua quando arriva, una seconda linea con un meter “dedicato” e niente pompe e corrente.
“Basta costruirla in alto – spiega Chai – così l’acqua verrà giù nelle docce in maniera naturale”
L’acqua però nei nostri piani deve servire anche alla scuola, quando non ce n’è abbastanza…
“Facciamo la cisterna da ventimila litri, allora, e un rubinetto esterno che useremo quando siamo senz’acqua” rilancia Kanundu.
Con loro io non riuscirò a impormi mai. Si possono modificare, migliorare, occidentalizzare un po’ le cose, ma se si sradica la loro convinzione iniziale, si può star certi che andrà tutto a ramengo. Sarebbe come fare un torto all’Africa, alle ancestrali concezioni di questa gente, alla loro anima.
“Vada per la cisterna allora…”
“E con i soldi che avanzano…”
“Niente Chai, mister Kanundu…con i soldi che avanzano faremo qualche lavoro in più nella scuola. Capito?”
“Capito!”
“Mister Chai, ha qualcosa da aggiungere?”
“In effetti sì. Ho un cugino che è in grado di costruire l’appoggio in cemento per la cisterna, dovrà essere alto almeno tre metri e mezzo…gli faccio fare un preventivo?”
L’odore di tè si diffonde sempre più insistente sotto il grande mango, all’altezza dell’area di rigore.
E’ così naturale che mi viene da sorridere e battere una mano sulla spalla del dirigente.
Quante volte mi sono piegato come una giovane palma al vento, facendomi cadere senza rumore le noci di cocco ai piedi. Quante volte ho rinunciato a un affare, a un’opportunità o a un aggancio utile per una questione di principio.
Il principio e la fine sono la stessa cosa qui in Africa: due limiti.
Tutto il resto è qualcosa di sconfinato in cui, oltre al cuore e allo sguardo, si perdono anche i motivi.
“Farò fare un preventivo anch’io, Mr.Chai. Se quello di suo cugino è uguale, prendiamo lui”.
venerdì 15 gennaio 2010
"CAPODANNO A MALINDI, ITALIA": FREDDIE SU VANITY FAIR
L’ufficio di Freddie del Curatolo è a due passi dal cuore italiano di Malindi. Dall’altro lato della strada ci sono gli uffici del consolato italiano, il Bar Bar, tradizionale locale e punto d’incontro dei nostri connazionali, e l’Italian supermarket. In pochi minuti di auto si arriva a Casuarina, area ad alta densità residenziale, sempre targata Italia, e alla zona dove, qualche giorno fa, un incendio ha distrutto alcune ville tra cui quella di Pierino Liana, manager del più noto “malindino” di casa nostra, Flavio Briatore.
Freddie del Curatolo è un ragazzone italiano con i capelli da africano. Suo padre aprì la prima pizzeria di Malindi, qui è cresciuto ed è tornato a vivere da circa cinque anni. Cura l’Ufficio Stampa per conto di un gruppo di hotel e ristoranti di Malindi. Un compito, a seconda dei casi, invidiabile o molesto. Dipende se in quel momento si sta pensando al clima, alla frutta e al pesce del posto o alle accuse di pedofilia che riguardano gli italiani e ai periodici scontri etnici che riguardano, invece, i kenioti (l’ultimo tra il 2007 e il 2008); cose che fanno male all’immagine turistica di chi, in quel luogo, ha investito.
A Malindi gli italiani possiedono circa tremila case, hanno in mano quasi tutto il business del turismo e delle costruzioni, si parla di circa diecimila connazionali tra residenti fissi e saltuari.
All’inizio di dicembre gli aerei erano già pieni da un pezzo. A Natale, qui, ci sono 30 gradi e la notte dell’ultimo dell’anno si festeggia al mare o a bordo piscina. Tutti ovviamente parlano italiano. Persino l’autista keniota del tuk-tuk (taxi a tre ruote) che mi sta compromettendo un paio di vertebre, inveisce nella nostra lingua contro un pedone, altrettanto keniota, che attraversa all’improvviso…
…Freddie mi consiglia di fare un salto al Jabreen Cafè, fast food locale dove servono ugali, piatto base keniota simile alla polenta, e samosa (frittelle salate ripiene). Sostiene che è uno dei posti migliori in città. Ovviamente la sua versione viene confutata dagli altri italiani con i quali parlo…
(tratto da “Capodanno a Malindi, Italia”, articolo di Enrica Brocardo su Vanity Fair del 13/01/2010)
mercoledì 13 gennaio 2010
CHE VOCE E CHE CLASSE, ILARIA DELLA BIDIA! (live @ Casino Malindi)
Una voce straordinaria e versatile, un'energia coinvolgente e professionalità da vendere. E' troppo facile descrivere Ilaria, la bionda cantante e intrattenitrice toscana esibitasi domenica sera al Casino di Malindi. Troppo banale ergersi a buon profeta e annunciare "questa farà strada", ma in Italia si sa come vanno spesso le cose... Intanto accontentiamoci dell'occasione che Italo Mariani, proprietario del Cocoà, uno dei locali più esclusivi della Versilia, ha dato a Malindi di poter assistere a uno spettacolo raffinato e divertente al tempo stesso, portando questa giovane vocalist e animatrice che ha emozionato e poi fatto ballare un ristorante La Griglia gremito e reattivo. Ilaria ha attaccato con l'intro "a cappella" di "I will always love you" di Witney Houston, mettendo subito le carte in tavola. Poi la classe di una "I will survive" in versione jazzy e via scorrendo gioielli del repertorio di Mina, Aretha Franklin, Tina Turner, Laura Pausini, fino a una sbalorditiva versione di "Listen" di Beyonce. Per chiudere toccando le corde del cuore in coppia con lo stesso Mariani, in versione "crooner" di classe, con "All the way", "Cu 'mme" di Murolo e "Unforgettable" di Nat King Cole. Poi il momento del ritmo, ed è subito fiesta con balli latini e il pubblico del casino a ballare con lei tra i tavoli, in un vertiginoso excursus tra gli anni sessanta e il terzo millennio. Una serata come a Malindi se ne vedono e sentono davvero poche, a dimostrazione che tutto è possibile, nel segno della qualità e dell'unione di intenti. L'anno solare si apre con una serata davvero "Unforgettable".
da www.malindikenya.net
martedì 12 gennaio 2010
CITAZIONE DEL GIORNO
Freddie ha scelto l'Africa perchè l'Italia gli stava stretta e Malindi perchè il Kenya gli stava troppo largo." (Fedele Turci L'Odoardo)
lunedì 11 gennaio 2010
ASANTE SANA NDUGU!
Cinquecento libri venduti allo stadio dai Grifoni in Rete per un piccolo sogno rossoblu in Kenya.
Nonno Kazungu sa che ogni uomo non camminerà mai solo.
Sarà che, come molti quaggiù, lui è nato nella dimensione giusta.
Non la grande metropoli, non la cittadina commerciale.
Il piccolo villaggio.
Il microcosmo dove quasi tutti sono parenti ma dove ognuno vive nel terreno dell’altro, dove se Katana ha il mais e Mwachiro i pomodori, è assodato che le famiglie per sempre mangeranno polenta e sugo di pomodoro insieme. Dove se uno è bastardo, decide di andarsene prima che siano gli altri a spedirlo via a calci.
Sì, certo, Kazungu sa anche che è la povertà a tenerli insieme, le radici umili e la poca volontà di cambiare le cose in meglio. La mancanza di individualismo, di ambizioni.
Nonno Kazungu sa.
Quindi preferisco raccontare a Kitsao la storia dei fratelli che vivono a ottomila chilometri di distanza da qui, che se ci si vuole andare a piedi, è come fare per trentasette anni tutti i giorni Kakoneni-Malindi andata e ritorno, più attraversare a nuoto per altri sei anni il creek di Kilifi.
I fratelli rossoblu non sanno quasi niente del Kenya. Sì, certo, hanno letto tante storie, conoscono la geografia, hanno visto filmati alla tivù, specialmente sulla Savana e gli animali, ma anche sulle baraccopoli di Nairobi e sugli scontri etnici, sui masai e sulle bianche spiagge di Malindi e Watamu.
Però alcuni di loro conoscono il Kenya perché un ex ragazzo che ha la medesima passione e, senza che nessuno gliel’abbia insegnato, sa soffrire e godere nella loro stessa maniera, ci è andato a vivere e da sempre se lo porta dentro.
Lo vedono raramente, ma seguono spesso le sue storie, e lui fa di tutto per farsi leggere il sangue, non l’inchiostro della penna, le pareti del cuore, non la tappezzeria dell’anima.
Lui arriva a primavera inoltrata, come taluni uccelli tropicali di una volta, che oggi si fermano nelle oasi tunisine. Non ci sono molte parole da dirsi.
L’incontro è tutto nella fisicità di un abbraccio, nel magnetismo di uno sguardo, nel sorso di birra bevuto al reciproco sorriso, nella mai dimenticata sincronia del canto all’unisono.
Questa volta è riuscito a imprimere le sue grandi passioni, quella che lo unisce ai fratelli e quella che lo ha allontanato trentasette anni a piedi da Malindi, in un libro. E ha pensato che con questo libro potrebbe magari insegnare un pezzetto di quell’altra fede a qualche bimbo come Kitsao.
Perché con quell’amore puro, così lontano da certe logiche attuali come l’Africa è ancora distante dalla civiltà occidentale, si può vivere più felici. Perché chi non ha nulla, non solo non ha nulla da perdere, come canta quella canzone di Bob Dylan che Kitsao conosce perché proprio l’ex ragazzo un giorno gliel’ha fatta ascoltare e l’hanno tradotta insieme in swahili, poco per volta con il maccheronismo di un italo-malindino e di un quinto-elementare di savana.
Dylan non lo sa, ma chi non ha nulla, può scegliere il meglio!
“Tra le cose che costano poco” avrebbe aggiunto nonno Kazungu.
Tutto da solo, ha trovato qualcuno che credesse nel suo sogno, gente che è abituata ad aiutare chi soffre in silenzio, con dignità, rispettando le sue origini e la terra che gli garantisce la sopravvivenza quotidiana. Si chiamano Onlus, qualcuna è migliore di altre, così come ci sono fratelli e fratelli.
Allora i fratelli che sono più fratelli di altri hanno preso questo libro e lo hanno portato nel grande tempio dove ci si incontra anche con quelli lontani che arrivano una volta all’anno e hanno chiesto a chi ha la stessa passione di comprarlo, perché con i soldi del libro si può insegnare a Kitsao e ai suoi amici quanto può essere grande un cuore, anche se a volte ha bisogno di una scusa per non vergognarsi della sua grandezza.
Vivere Genoa è la scusa più bella che il cuore potesse trovare.
Ti insegneremo anche questo, piccolo Kitsao.
Dice Kitsao che vuole ringraziare i Grifoni in Rete per la raccolta di fondi attraverso la vendita dei libri di Freddie. Solo ieri allo stadio, nei banchetti approntati in ogni settore del Ferraris, ne sono stati venduti cinquecento.
I lavori per il pozzo che darà acqua alla scuola elementare dove sorgerà la scuola calcio rossoblu, inizieranno a giorni. Vi terremo informati e spediremo foto sull’avanzamento del progetto.
ASANTE SANA NDUGU!
Grazie fratelli.
sabato 9 gennaio 2010
APPENA PRIMA DEL PRESENTE: TUTTO IL CALCIO MINUTO PER MINUTO
"Ascoltare le partite alla radio richiede una buona dose di concentrazione.
Innanzitutto occorre regolare i timpani sulle modulazioni di frequenza del programma Tutto il calcio minuto per minuto, munirsi di foglio bianco e penna a sfera, trascrivere le sfide in ordine alfabetico e aggiungere, a piacere, le gare della seconda serie che non sono state inserite nel pronostico a premi. Gli esperti hanno l’abitudine cerebrale a quelle voci gracchianti: le riconoscono, le interpretano, cercano in tutti i modi di prevederle. Se c’è un’interruzione sul collega che sta facendo la cronaca e, dallo stadio di chi sovrappone il proprio audio, si odono urla e applausi del pubblico, ovviamente ha segnato la squadra di casa. In caso contrario spesso un silenzio da biblioteca precede colui che annuncia un goal della formazione che gioca in trasferta. Poi c’è la cognizione geografica: da Roma, di solito, arriva un avvertimento lucido e tagliente, dal Veneto un veneto, da Napoli un esagitato costretto a coprire le urla assordanti dei beniamini della formazione partenopea. I gargarismi rochi del grande Sandro Ciotti vengono affidati a uno dei campi principali e dagli stadi della serie B si inserisce una nenia soporifera e meridionale. L’esperto riesce a battere il tempo, il risultato, lo stato d’animo che gli altri avvertiranno tre secondi più tardi.
Non crediate che sia poco, è il lampo che annuncia i tuoni, il campione dei quiz che previene la domanda. L’esperto può con fierezza proclamare: “appena prima del presente, ci sono io!"
da "La schedina di Gaetano"
Freddie del Curatolo
Edizioni Il Circo Calante
venerdì 8 gennaio 2010
DOMENICA 10 GENNAIO VENDITA BENEFICA DI "GENOA CLUB MALINDI" AL FERRARIS
ERA STATA ORGANIZZATA IN COINCIDENZA CON LA PARTITA GENOA-BARI E IL NATALE, LA VENDITA BENEFICA DEL LIBRO “GENOA CLUB MALINDI” AVVERRA’ DOMENICA 10 GENNAIO IN OCCASIONE DI GENOA-CATANIA.
IL RICAVATO ANDRA’ ALLA ONLUS KARIBUNI PER UN PROGETTO TUTTO ROSSOBLU DI CALCIO E SOLIDARIETA’ IN KENYA.
LA SOCIETA’ GENOA SOSTIENE IL PROGETTO, NATO DAL BEL LIBRO DI FREDDIE DEL CURATOLO, SCRITTORE GENOANO CHE VIVE A MALINDI E SI OCCUPERA’ PERSONALMENTE DELLA SCUOLA CALCIO
Uno scrittore che vive in Kenya, in mezzo a una realtà povera e piena di problemi, un’associazione Onlus che da anni lavora per migliorare le condizioni di vita a migliaia di bambini, una società calcistica che decide di collaborare per dare una speranza a molti di loro attraverso il giuoco del calcio, che li può educare, togliere dalla strada e invogliare allo studio.
Nasce così il progetto della Scuola Calcio Genoa a Gede, vicino a Malindi.
Un progetto che ha iniziato a sostenersi con la vendita di un libro molto appassionato e decisamente genoano: “Genoa Club Malindi”, in cui si raccontano le vicissitudini dei grifoni d’Africa e la vita di tanta povera gente che si avvicina al calcio e al mondo rossoblu, i cui valori ricordano tanto la storia della squadra più antica d’Italia e il cui amore dei tifosi rimanda a un sentimento profondo ed eterno come il “mal d’Africa”.
Domenica 10 gennaio, in occasione della partita di campionato Genoa-Catania, fuori dallo stadio Luigi Ferraris la Karibuni Onlus, attraverso tanti tifosi che si sono offerti volontari, appronterà banchetti con la vendita del libro, edito dalla casa editrice genovese “Liberodiscrivere”, il cui ricavato andrà interamente a finanziare il progetto, che prevede il rifacimento di un campo da calcio in una scuola elementare vicino a Malindi, la costruzione di uno spogliatoio con docce e servizi, di un’aula per le lezioni di sport, una recinzione e il pozzo per l’acqua. Queste le basi per la scuola calcio, che il Genoa Cfc aiuterà nel suo sviluppo. Per il primo anno saranno scelti 25 bambini tra i nove e i dodici anni, in base anche al rendimento scolastico, e verranno portati alla fine del ciclo scolastico (in Kenya le elementari durano 8 anni) con la possibilità di avere borse di studio grazie anche agli allenamenti e all’inserimento nella scuola calcio. Anche i tifosi potranno interagire, aiutando direttamente i ragazzi con le adozioni a distanza tramite Karibuni Onlus. (informazioni su www.karibuni.org). Si tratta della prima iniziativa “no profit” di questo genere da parte di una società calcistica in Italia.
E come sempre, i primi siamo noi genoani!
giovedì 7 gennaio 2010
NIENTE SESTO...SIAMO INGLESI (Milan-Genoa 5-2)
Muburu è l’esperto malindino di calcio inglese. Il pelo color sabbia del pizzetto rivela che da quando in Kenya c’è la tivù col satellite non si perde una partita. Che sia al bar, dalla staccionata fuori da un hotel o a scrocco a casa di conoscenti conosciuti all’uopo, per lui una partita di premier league vale più della messa del venerdì per un mussulmano. Una volta per assistere al derby Tottenham-Arsenal, ha rischiato il coccige, precipitando da un balcone dov'era appollaiato per sbirciare in una camera e finendo in terra ancora perfettamente seduto.
Muburu dice che ieri abbiamo giocato una partita molto inglese. Di quelle inglesi che da una parte c’è l’Arsenal rimaneggiato, con assenze e qualche problema tattico, dall’altra un Everton, un Aston Villa che l’anno scorso ha fatto la Uefa e quest’anno non si ripeterà, perché ha venduto i pezzi meglio. Quando Muburu accenna al Principe gli offro una tusker e gli dico di non tornarci su.
Comunque la sua visione mi va benissimo, penso, mentre Borriello sale in cielo e uncina un pallone che va dove andava spesso quando giocava con noi, non c’è da stupirsi e non c’è da essere meno ottimisti per questo. Abbiamo preso il quarto, ora prendiamo il quinto, magari niente sesto, siamo inglesi...
Il campionato non cambia se arrivi ottavo o tredicesimo, è comunque un campionato minore ma si rimane nella massima serie. Semmai dovrò dire a Muburu che ha ragione lui anche quando dice che l’allenatore non è importante, te lo dimostra la solita Albione che ha inventato il calcio eppure trovami una squadra che non gioca col 442. Persino Mourinho (e mica hai detto Washington Cacciavillani) faceva finta di giocare col 433 ma in realtà…
Makotsi l’elettricista invece preferisce il calcio italiano e ama il Grifone, anche se adesso butta un occhio all’Inter quando c’è il Principe. Per lui ieri sera è stata una sconfitta che brucia. “Ci avevo anche creduto dopo il gol di Sculli – rivela mentre tenta inutilmente di aggiustare la sua moto cinese Bajaj, che non è elettrica – il rigore parato, sembrava andare tutto bene”.
Secondo Makotsi qualcosa si è rotto nello spogliatoio. Lo dice così tra un bullone e una candela, e non sa dei senatori ligi, del malcontento di alcuni e della dilagante apatia di altri, che può contagiare come un virus il resto della squadra. Non sa quel che l’Africa già sente, che leggo dal cielo, dalla scritta del Safari Bar che si sta arrugginendo con le piogge strane fuori stagione che a Copenhagen non si vogliono spiegare. QUEL progetto è già finito, ma bisogna dirlo con serenità. Gasperson ci porterà verso un onorevole salvezza. Puoi scommetterci le corna di un kudu. Maburu dice che l’allenatore non conta, conta la forma fisica, la motivazione e lo spogliatoio. E qui ci sarebbe da spendere altre pagine e pagine. Ma l’Africa chiama, la figlia anche. L’anno scorso Agata Zena nasceva poche ore prima di un memorabile Milan-Genoa, in cui nel primo tempo avevamo giocato come ieri, pressando un po’ a vuoto e palesando qualche amnesia, finendo sotto giustamente per 1-0, ma nel secondo noi avevamo continuato a correre, loro si erano sorpresi. Ieri è successo il contrario, anche sul 4-0. Maburu e Makotsi su una cosa ha ragione. Ieri sera non è stata affatto una questione tattica-
L’Arsenal di Leonard si schierava con una sola punta di ruolo, e l’Everton di Gasperson pure.
Ma loro facevano salire di continuo i laterali di difesa, noi solo nella prima mezzora. Saliva anche Criscito, terzo di difesa, ha fatto uno slalom pure Biava. Dice Muburu che la partita è finita quando è uscito Moretti. Per me la partita è finita quando sono entrati in campo Milanetto e Juric. Il primo è un buon regista, intendiamoci, ma come tamponatore è meglio nonno Kazungu se gli dai da guidare un Land Cruiser. Il secondo gira a vuoto come il Land Cruiser con cui Kazungu si è impantanato a cinquecento metri da casa. Ieri mi sforzavo anche di capire dove fosse il “progetto”. Con Tomovic e Fatic in panchina e altri cinque o sei che segnano in altre squadre. A parte Criscito, tutti giocatori sopra i 26 anni e ben 5 sopra i 30. Allora forza Everton! Forza Villans! Che quando prendono cinque o sei saracche non fanno una piega, coi tifosi che cantano come noi contro l’Inter. Che bello vedere cinquemila tifosi del Leeds, precipitato in terza divisione, come il fiero Grifone, fare festa nella bolgia di Manchester, dopo aver eliminato in F.A.Cup il grande United. Ecco, teniamoci quello spirito, ma allora piantiamola coi Suazo, i Natali e i Gaby Milito e se progetto deve essere, campus o vivaio, mi sta bene anche essere dov’è l’Udinese, ma con una linea verde che corre e non annaspa, con due centrocampisti che non possono essere saltati come birilli da Ambrosini e Gattuso che se ne arrivano in area, solo perché hanno fatto mezzora di pressing asfissiante all’inizio. E piantiamola anche con la dirigenza, i presidenti, i massaggiatori e gli autisti dei pulman. Quelli del Leeds l’altra sera godevano. E non era una gioia minore.
Ieri sera non ho goduto per nulla, nemmeno per la bontà dei sandwich che hanno stoppato le tante tusker bier. Per fortuna che c’è il Grifone, che c’è la storia, che c’è la Nord, che ci sono questi magici colori…E domenica tutti a tifare dal primo all’ultimo minuto e al diavolo lo spogliatoio, Floccari, il progetto, Menegazzo, Bonucci e Rafa Marquez. Il Genoa siamo noi…o al massimo l’Everton…
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