lunedì 27 dicembre 2010

"MALAIKA" - 1 PUNTATA


21 Dicembre 1999

“Oggi non ho già più voglia di farvi lezione. Cosa ne dite di investire l’ultima mezzora prima delle vacanze parlando di quello che ci aspetta? Vorrei farvi partecipi di come lo sento io e come mi piacerebbe che lo sentiste voi”.
Silenzio.
Prendo un respiro pro forma.
“Tra poco più di una settimana, ragazzi miei, ci metteremo a guardare il nostro decrepito pianeta con cinque occhi a testa. I tre in più saranno gli zeri che accompagnano il due. Due millenni di storia, anche se non credo che l’era moderna sia partita dopo la morte di Gesù. Erano più avanti gli antichi egizi dei signorotti medievali.
Ma lasciamo perdere.
Interroghiamoci piuttosto sul passaggio da un millennio all’altro.
Cosa vuol dire? Pressappoco nulla. Forse soltanto venti secoli di cristianesimo, oppure duecento decenni di calendari identici a quello attuale o, ancora, ventiquattro mila mesi che si ripetono in fila per dodici.
La vera magia sta tutta nella cifra, nel 2000.
Durerà solo un anno, bisogna goderselo! Lo scatto del primo numero, e l’azzeramento degli altri, ci permetteranno di capire cosa è davvero mutato intorno a noi, come sta la nostra vecchia bicicletta dopo la verniciatura a forno, il pallone di cuoio rigonfiato dal benzinaio. La carretta del nonno passerà la revisione?
Vedremo finalmente se i computer attiveranno davvero i programmi che prevedono l’ingresso nel futuro reale, oppure cercheranno di dimenticare le migliaia di corbellerie informatiche che hanno immagazzinato un millennio prima, come potrebbe capitare a qualche essere umano con nozioni, progetti, sentimenti.
Gli storici raccontano che il Novecento fu festeggiato in maniera pirotecnica, era visto come il secolo delle rivoluzioni, del libero pensiero, della velocità. Le invenzioni si susseguivano spasmodiche, ed era soprattutto il cambiamento delle date a galvanizzare scienziati, letterati e governi di tutto il mondo. Furono organizzate crociere ardite, spettacoli di teatro d’avanguardia, feste che nulla avevano da spartire con la pomposa ovvietà ottocentesca. Ed era solo un cambio della guardia, si entrava negli ultimi cent’anni del primo millennio, tanti ne mancavano all'azzeramento, al giro di boa, al simbolo matematico del futuro. Anzi, le eccessive aspettative riposte nel Novecento hanno portato la bellezza di tre guerre mondiali, una ventina di conflitti internazionali e trentacinque sommosse civili. Sarebbe questo un motivo più che plausibile per non festeggiare per niente. Toccate ferro e incrociate le dita, ma immaginatevi cosa sta per accadere, voi che vi ci presentate vergini, recettivi, speranzosi. Annusatene l’aria, felici di potervi assistere! E vi prego, almeno il primo giorno del nuovo millennio, tenete spenti i telefoni cellulari”.
Sorridono, il gioco inizia a piacergli.
“Un antico profeta ci ha mandato le sue maledizioni, ma la iettatura funziona se si manifesta rapidamente, è a scadenza, come le mozzarelle. Non penso che salteremo in aria come fuochi artificiali, la settimana ventura. Invece sono preoccupato di sapere se ci sarà ancora la poesia, nel prossimo millennio, se si darà più spazio alle parole, piuttosto che alla voce. Quante altre cose verranno azzerate, oltre ai numeri?
Con queste considerazioni sul tempo che sarà, vi auguro buone vacanze. Pensate più che altro a vivere intensamente il veglione più importante degli ultimi novecentonovantanove, con una persona cara al fianco. Che poi, tanto, assicurano che il millennio vero inizierà il primo gennaio 2001”.

Così mi sono congedato dagli alunni della terza F.
Prima di questo pistolotto, ascoltato in parascolastico mutismo dai ragazzi, indifferenti persino alla vampata d’adrenalina che solitamente provoca il trillo della campanella, avevo tenuto l’ultima lezione del millennio sulla poesia.
L’ultimo grande poeta del secolo, Pierpaolo Pasolini.
Ho chiesto a Corrado di recitare La mistificazione è leggerezza in falsetto.
“Come, prof?”
“In falsetto! Hai presente il soprano Farinelli, o i Cugini di Campagna? O quegli altri, come si chiamano… i Bee Gees?”
“Quelli della Febbre del sabato sera, prof?”
“Proprio loro, Cattaneo”
Ci ha provato, ma gli veniva da ridere. Poi ha capito che non stavo affatto scherzando.
Si è fatto serio, l’ha letta tutta d’un fiato, con una vocina bianca bianca.
A ridere era la classe intera.

La mistificazione è leggerezza
La sincerità pesante e volgare
Con essa è la vita che vince
Deve vincere invece la giovinezza.

Era solo un esperimento.
Non l’hanno preso sul serio, siamo alle solite. Il docente secondo loro è antiquato e pedante, oppure moderno, informatissimo e odioso.
Se ama svariare, stupire, allora è completamente matto.
Lezione archiviata.
Corrado mi ha rincorso per il corridoio, ha dribblato un crocicchio di compagni, un bidello con la scopa e suor Matilde appoggiata alla finestra che maneggiava un Game boy sequestrato ad un alunno di seconda e trafelato mi ha chiesto dove avrei passato l’ultima notte del millennio.
E’ rimasto di sasso, apprendendo che sarei andato in Africa.
Forse anche lui è uno di quelli che m’immaginano perennemente rinchiuso in una topaia zeppa di libri impolverati, tra scatolette di cibo per gatti e pullover infeltriti, ammonticchiati sulla lavatrice; assorto in elucubrazioni che annullano il concetto di tempo, e quindi anche di vacanza natalizia, ed illuminano di polvere la scrivania su cui i gomiti hanno scavato solchi. Forse avverte l’odore di naftalina e carote lesse della mia casa, l’umidità delle pareti scrostate del bagno, la solitudine che tenta d’ingiallire i capelli grigio cenere. Misura la mia insonnia dalla profondità delle occhiaie, la misantropia dallo spessore delle lenti bifocali. Probabilmente mi considera uno strano animale intellettuale pleistocenico, combattuto tra l'astrattismo di concetti immortali ed il problema della sopravvivenza della specie.
A volte sono così.
“In Africa, professore? Ma a Sharm o proprio in Africa?”
Proprio in Africa.
Quello che non ho detto a Corrado è che non è stata una mia scelta.
Beh, non proprio.
Sono rimasto sorpreso anch’io, il giorno in cui Beatrice mi ha chiamato.
Non la sentivo da parecchio tempo. In realtà non mi ero mai fatto sentire, si era ricordata lei di un paio di miei compleanni, squarci d'ironia nei giorni più tristi della vita, che di solito amo trascorrere a letto, con l'amico di sempre che si materializza dalle pagine di un libro che di tanto in tanto riapro fin da quando ero adolescente. E’ Bernardo Soares, che mi rassicura dal suo ufficio di Lisbona.
Alla fine di un'estate incolore mi era arrivata, come un presentimento, una cartolina dalla Corsica firmata Beatrice: veduta dal’alto di una spiaggia incastrata nella roccia in cui eravamo stati con Lorenzo a diciotto anni.
Non è possibile, Roccapina!
Il bungalow che vibrava ad ogni raffica di vento, le serate al gusto di mirto, il mare dalle cento diverse sfumature d’azzurro... che nostalgia.
Avevo ricambiato con una veduta dell’Isola Comacina da Ossuccio, durante una gita con la classe. Non fui in grado di fare di meglio, ma era solo una maniera per ringraziarla.
L’ultima volta che avevo incrociato l’ex moglie di Lorenzo era stato alla fiera del mobile di Cantù, cinque o sei anni fa. Sedeva su uno dei suoi divani, nello stand della ditta ereditata dal padre.
Era in compagnia di un signore più maturo di lei, e molto distinto.
Sarà stata la vicinanza di quell’uomo o l’accostamento della sua esile figura a un austero sofà “barchetta”, ma la trovai invecchiata più di quanto avrei potuto immaginare.
Si alzò e mi venne incontro e mi volle offrire da bere. Dopo pochi secondi i fluenti capelli biondo platino si adagiavano con grazia sui cuscini di un Pagoda beige. Allora abbandonò i convenevoli e mi sorrise come avesse intravisto uno squarcio dei tempi felici.
Fu un attimo, mi disse semplicemente “Tutto bene, professore?” E si congedò, rapita da un potenziale cliente, togliendomi dall’imbarazzo di presentarmi il suo nuovo compagno che stava per fare capolino.
L’altra sera al telefono, invece, era diversa.
“Scusa l’orario, ho assolutamente bisogno di parlarti.”
La sua voce era grave, sottendeva una tensione emotiva che non le ho mai riconosciuto, lei sempre così distante da tutto: accomodante fino alla soglia dell'imbarazzo altrui, ma mai servile o entusiasta ; spontanea e passionale, ma raramente volubile o istintiva.
Mi sono recato a Villa Orsari pensando al peggio, attraversavo il deserto serale di Cernobbio convinto che riguardasse Lorenzo, che fosse successo qualcosa al nostro Lorenzo.
Era più di tre mesi che non ricevevo notizie da quel figlio di buona donna, ma poteva anche essere normale, ha sempre avuto paura di rivelarmi dove si trovasse ed a quali espedienti fosse costretto per sfuggire alla giustizia ed alle ricerche della prima moglie.
E se non è per Lorenzo, mi chiedevo, cosa vorrà così urgentemente una donna che non ha niente a che spartire con me da una quindicina d’anni?
Il massiccio cancello della villa si era spalancato elettronicamente, attraversai il parco con la mia utilitaria, sporcando il meno possibile con incerta carburazione il silenzio inglese che regnava, scortato da immobili olmi, guardato a vista dalle aiuole ben curate, fino a raggiungere il parcheggio.
I cani non emettevano mezzo latrato, ma nemmeno agitavano la coda; il maggiordomo mi accolse con uno sguardo vitreo da zombie.
"Benvenuto, professor Saveri"
Nel suo tono c'era la volontà di farmi intendere una situazione ben precisa, ma altresì l'obbligo di tacere e rimanere in armonia con la grande casa.
Qualcosa nella polvere dei quadri degli antenati, e nell’odore di medicinale del corridoio, mi mise in preallarme.
Beatrice era nel salone delle feste, sola e accucciata su una poltrona che la faceva piccola piccola, con le ossa protese il più possibile verso il tepore del camino.
Mi avvicinai, lei sorrise e la sua magrezza si estese al volto, pensai che forse era una mia impressione, le tesi le mani e mi chinai per abbracciarla.
Sussurrai un saluto, aspettavo che fosse lei ad esordire.
"Siediti, professore"
Era una voce stanca, che si sforzava di aprire le vocali per essere il più accomodante possibile.
Allora la esaminai meglio: gli zigomi che facevano ombra su quelle che un tempo erano le gote, i tendini del collo incuranti della pelle che durava fatica ad avvolgerli e tenerli insieme, i pochi capelli tenuti cortissimi e vistosamente tinti di rosso.
"Come stai?"
Sapevo bene che era una domanda delle più idiote, mi sforzai di usare il tono di chi ha capito che c'è qualcosa che non va.
Non era Lorenzo il problema, ma lei.
Prese un respiro che produsse come scintille di scossa, attraversandole i polmoni.
Non aveva lo sguardo di compiacente masochismo proprio di chi ha in serbo cattive notizie, e questo fatto mi allarmò ancor di più. Trascorsero due secondi tra il mio nuovo presentimento e la sua voce tremolante.
“Sono malata, Riccardo. Non mi resta molto da vivere. Forse riuscirò a vedere il duemila, i medici mi hanno detto che le cure che ho adottato sono tra le più rivoluzionarie, ma che nel mio caso possono solo ritardare... inoltre sono costosissime e molto dolorose. Mi sottopongo alla terapia, non per un morboso attaccamento alla vita, credimi, né per la magra consolazione di finire ai vermi nel nuovo millennio.”
Un altro respiro interminabile.
“Ho un solo desiderio: voglio rivedere mia figlia. Non è giusto che lei non sappia chi era sua madre, cosa ha lasciato per lei... Perché ogni giorno della mia esistenza ho pensato ad Alice. Nel corso di questi anni ho assoldato investigatori, ho pagato governi di almeno venti paesi, utilizzato gli appoggi politici di mio padre, ma non sono riuscita a localizzare il mio ex marito. Tu sei l’unico che ce la possa fare.”
Avevo inteso e, nonostante l’imbarazzo di assistere ad un dramma non mio ed il dispiacere di vederla in quello stato, mi sforzai di non chiedere cosa avrei dovuto fare. Mi limitai a mettermi a disposizione.
“Tu sei il solo amico che Lorenzo abbia conservato, puoi riuscire a scoprire dove si trovino, lui e nostra figlia. Ti pagherò il biglietto, ho già pronta una carta di credito da cui potrai attingere per ogni bisogno durante il viaggio, è illimitata. Ti chiedo di provare, di fare il possibile per riportare qui la ragazza. Solo per vederla, per parlarle, specchiarmi nella sua gioventù e regalarle uno sguardo di amore materno. Lei ne ha bisogno, ed io potrò andarmene serena.”
Cosa avrei potuto fare, se non annuire in silenzio e stringere le sue fragili mani, era già tanto che non mi fossi messo a frignare come un ragazzino, come la volta in cui scoprii che era stata a letto con Lorenzo, e non capivo per chi dei due stessi piangendo, di chi fossi più geloso.
“Va bene, Bea. Le mie ferie partono dal 22” le dissi.
“Lo so. L’aereo per Zanzibar è già stato prenotato. Non so in quale maledetta isola dell’Oceano Indiano o staterello africano si sia cacciato quel...”
Interruppi la sua invettiva.
“Le isole dell’Oceano Indiano sono tante, l’Africa è immensa. Non sarà facile scovarli”.
Beatrice chinò la testa, ricambiò la stretta di mano e chiese alla domestica una vestaglia più pesante, regalandomi una smorfia rassegnata.
“Ce la farai. Sei l’unico che può farcela.”
Trattenni le frasi di circostanza, i proverbi e le parole di speranza; soffocai quelle tristi, le sentite, sincere ma inutili mezze condoglianze che salivano dall'esofago. Non aveva accennato a eventuali rimorsi che avrei potuto covare.
In fondo avevo contribuito anch’io alla fuga di Lorenzo, indirettamente.
Sudavo, m'imposi di ritenere che fosse la vicinanza del camino.
Pensai soltanto a lei, al suo stato. L'avrei rivista?
Si alternavano nella testa altre mille domande, che vidi passare in un battito di ciglia.
Un migliaio di buste chiuse, come quelle dei quiz, c'erano tutti i quesiti di un'amicizia. Mi hai voluto bene? Sei stata gelosa di me e Lorenzo quando eravate fidanzati? In Grecia, quando vi spiai, ti accorgesti di me? Quella volta a Londra, mentre attendevamo Lorenzo in arrivo da Roma e c’era quella strana atmosfera, in hotel simulasti un attacco di colite perché avevi paura che finissimo a letto? Mi hai maledetto quando hai saputo che tuo marito era scappato con una mia allieva?
Adesso risponderebbe - pensai - a che giova mentire quando si è ad un passo dalla verità più grande di tutte?
Non ci provai nemmeno, la lingua era saldata al palato e sentii che, se avessi tentato di staccarla, l'avrei ingoiata.
Aspettai che fosse lei a congedarmi.
“Ricorda, la carta di credito è illimitata” le sue ultime parole.

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