mercoledì 25 giugno 2014

I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 4 - Il grande buraco

Chi guarda Natal, sappia che Natal si vede solo dal mare.
Ma chi è nato a Mae Luiza la può guardare anche dal basso del Grande Buraco.
Nessuno ci è finito dentro, al Grande Buraco, ma è come se ci vivessero tutti da sempre.
Costretti a guardare la vita dal basso in alto, a respirare e deglutire gli umori della strada, le deiezioni del progresso, i succhi gastrici dell’umanità.
Nella favela di Mae Luiza, abbarbicata sul promontorio di fango della città, sai quanto gliene fregava di Italia-Uruguay.
Ora al massimo ti sfottono perché hanno capito che Balotelli è un bluff, ti fanno il segno con la mano “tornate a casa” e se la ridono.
Sicuro che non saprebbero riconoscere De Sciglio o Darmian, e rapinerebbero Candreva con lo stesso sussiego che usano per l’ultima delle strappone che indossano bracciali e collane sulla passeggiata di Ponta Negra.
Italia fuori, Svizzera del Sudamerica dentro.
Brasile che rischierà parecchio con il Cile.
Il piccolo Fetfa che forse troverà spazio con il Costarica.
Ma io con loro non parlo dei mondiali.
Sono qui per un altro motivo e per adesso non ho voglia di immischiarmi.
M’imbatto in guappi di sedici anni ebbri di colla e maconha che, appoggiati a muri dall’intonaco vivo e in bassorilievo come pelle tatuata, ti squadrano con occhi freddi di metal detector: orologio, catenina, sagoma del cellulare nel taschino della camicia, rigonfiamento del portafoglio nel culo, eventuale borsello. I più giovani inseguono inermi granchi di fango lanciandogli pietre aguzze con rabbia già adulta, prendendoli per sfinimento e schiacciandoli inesorabilmente.
Una morte innocente e inutile, come inutili sarebbero state le loro vite da innocenti.
Ragazzine dal sorriso di garofano e cannella con lo sbavo di rossetto e l’infanzia affossata nelle occhiaie, ti fanno il segno del pompino con il pugno semichiuso e la lingua a roteare nella guancia.
Spacciatori di crack armeggiano con coltelli a serramanico, anche solo per pulirsi le unghie o sbucciare una maracuja e madri arredano al meglio la loro rassegnazione sull’uscio delle baracche, sfinite dalla fatica di dover sopportare tutto questo male di vivere ai margini di Natal, dove arrivano i charter dei turisti che riempiono le spiagge, le tasche degli spacciatori, le cavità delle ragazzine e le notti brave dei guappi.  
C’è chi preferisce la retorica dei finti buoni sentimenti e continua a indicare l’occidente, quando qui in giro fanno tutto da soli da un bel po’. Missionari laici che si concentrano sugli orfani, missionari laidi che li preferiscono a dieci anni. Tanti appoggiano gente che lucra sugli aiuti e non farà mai niente per cambiare davvero Mae Luiza, se non inviare cartoline illustrate a base di volti emaciati, sguardi persi, cenci strappati, denti marci, immondizia, sangue ed altre miserie.
Io nel Grande Buraco, la voragine che si è aperta non distante dallo stadio, che inghiottirà i mondiali e prima o poi tutto il Brasile, ci vado da solo, senza onlus o delegazioni e non ho con me la digitale.
Osservo la civiltà dal basso e omaggio chiunque di una smorfia schifata e occhiate come dire “non ho niente da offrirti, facciamoci ognuno i cazzi propri”.
Pensate pure che sono qui per i mondiali, che sono il turista che va sulla spiaggia, che ama il calcio e cerca la figa, possibilmente gratis.
Che va a ballare nei locali dei negri, che ascolta musica dal vivo in quelli dei bianchi, che mangia la pizza e i camarao. Questo si fa in Brasile, e non ho intenzione di deludere nessuno.
Ma sono anche genoano, e so bene che questa è la città “Natal” di uno dei nostri idoli, Francelino Matuzalem.  Ecco il vero motivo della mia presenza.
“Se non fosse stato per il calcio, ora sarei in prigione”.
Questa frase di Matuza, letta sul giornale qualche anni fa, mi ha fatto pensare che fosse uno dei guappi che ho incrociato e che sarebbe diventato uno dei tanti malviventi di Natal.
Magari l’avrei conosciuto qui, nel Grande Buraco, all’ombra del faro della città, che è il motivo per cui sessant’anni fa i reietti di queste lande si arroccarono qui, rischiando ogni giorno di scivolare nel ventre della terra per una frana o di finire in una voragine come questa.  Ogni sette secondi arrivava la potente luce del faro ed era l’unica illuminazione della vita intermittente di Mae Luiza.
Chissà se Francelino ha conosciuto quella luce. Magari, grazie al calcio, lo incontro più tardi e ci sbronziamo di Ypioca Reserva, insieme a quella buona gola di sua mamma.
Per prima cosa, finita la farsa della Corazzata Prandelkin, che ora langue in un oceano di critiche appoggiata sul lato sinistro dell’opinione, vado a Pizza Pazza, il ritrovo della colonia italiana di Natal.
Il gestore Walter aveva preparato pizze tricolori alte come Fetfatzidis per festeggiare, e ora le offre comunque ai connazionali. Pesto mozzarella e pomodorini.
Gli insulti con cadenza portoghese sono condimenti necessari, olio al peperoncino per ravvivare lo scialbo pasto che fa quasi rimpiangere il Ristò di Barberino di Mugello.
Buffon succhiato dalla D’Amico, Barzagli grasso, Bonucci montato, Chiellini sadomaso, Pirlo che gioca da fermo, De Rossi da infermo, Cassano bollito, Verratti acerbo, Immobile come l’Italia e via dicendo.
Al “Balotelli-negro-di-merda” mi sembra definitivamente di essere al Ristò, di Sant’Angelo Lodigiano però. Mi dirigo alla cassa con lo scatto perentorio di Candreva.
“Walter, tu sai dove abita la mamma di Matuzalem?”
“Il Rum?”
“No, il calciatore”
“Ah, quello della Lazio…dovrebbe stare al Pelourinho”
Saluto la varia umanità di puttanieri, coppiette, tifosi, barberini, lodigiani e altri generi di stronzo, e come un ambizioso annusapatte, mi dirigo verso il centro.
Il Pelourinho è uno spettacolo di illusionismo, una fiction storica tra i grattacieli e la merda.
Il corso che scende da una delle colline di Natal ricorda in qualcosa Zena, via Garibaldi, ma ha chiese lusitane e architettura rinascimentale spagnola a far da contorno.
Pullula del Brasile buono, quello della gente che tira a campare a fatica come noi, strozzata da capitalismo e globalizzazione, ma sorride e si tocca il culo a vicenda, mangia e beve quel che capita senza stare a sindacare. Poveri dentro, ma meno inutilmente scassacazzo di noi italiani.
Chiedo a un vigilante, ma mi guarda in tralice come dire “deficiente, siamo in 800 mila a Natal e dovrei conoscere l’indirizzo di ognuno?”, entro in un negozio che vende divise da calcio e ne ha anche una serie degli azzurri.
Il commesso Emerson è indeciso se chiudere bottega o attendere che lo struscio del corso si sia consumato.
La delusione è evidente sul volto abbronzato, i riccioli corvini e il naso camuso.
“E adesso, chi me le compra?”
“Un collezionista di brutte figure? Se hai quella di Perin te la prendo io, tra qualche anno sarà come il Gronchirosa”
“Cassudiji?”
Chiude bottega e andiamo a bere una Ypioca da Vanier, in uno dei vicoli belli in cui si perde la cognizione del tempo.
Alla quinta cachaça l’ho convinto.
Dobbiamo trovare Francelino.
Emerson fa due o tre telefonate. Un’ora è mezzo di “alonji ujenji sao sao joao corcovado desafinado blablablao cassudiji”.
Nel frattempo mi passano davanti otto o dodici tette, quattro o otto chiappone, forse una le aveva addirittura doppie.
Ringrazio alzando la mano come in auto al semaforo, oggi niente figa, niente calcio, niente rock and roll.
“E’ hora de ir” dice il commesso camuso.
Risaliamo una stradina cupa contornata da piante che odora di frutta e spezie, divoriamo venti scalini, circumnavighiamo una fontana, una chiesa e un mercatino di artigianato, per rinfilarci nei vicoli.
Respiro odore di commistione, di incroci di tempi e di modi, di prede e cacciatori, indigeni e conquistatori, razze e corazze, cazzi e controcazzi.
Ad un tratto Emerson si blocca.
Ai bordi del quartiere coloniale c’è un imprevisto.
Un ragazzino alto come una pizza tricolore di Walter, ci affronta armato di un manico di scopa tempestato di lamette da barba.
Mi pare di capire che Emerson gli dica che anche lui è un poveraccio, che ha parenti a Mae Luiza e che da ragazzo usava le Wilkinson perché costano meno e si arrugginiscono più tardi.
Il bimbo non ne vuole sapere, è assetato come un centrocampista costaricano e agguerrito come Alvaro Pereira quando gli dicono che potrebbe tornare all’Inter.
Non cede e inizia a roteare il manico della scopa.
Emerson mi fa segno di tirare fuori 100 reais.
Glieli lancia ai piedi e lui raccoglie con una scarpa, arretra di qualche passo facendo segno di restare sul posto, come avesse spruzzato un’invisibile schiuma da arbitro incontinente.
Poi si gira, sorride e fa segno a Emerson come a volergli stringere la mano.
Il commesso ci pensa un attimo. Si volta verso me che rimango a distanza, e mi strizza l’occhio.
Si avvicina sussurrando qualcosa ma il Fetfa del Grande Buraco gli vibra lo scopone lamato in faccia. Schizzi di sangue sulla pietra del vicolo, Emerson tenta un placcaggio urlando, vedo un dito saltare via e tagli assurdi come diagonali di Chiellini.
Prima che il commesso camuso tenti un’ultima disperata reazione, roba da minuti di recupero con Cassano centravanti, decido che è il momento di scappare. Ora o mai più, abbandonare la scena più velocemente possibile.
Mi sento come un granchio di fango che zigzaga inseguito dai fratelli minori dei guappi
. Sento le pietre aguzze sibilare al mio fianco e piedi enormi che mi cercano dall’alto.
Cuore in gola, stradine del Pelourinho che si fanno sempre più strette e si inerpicano in salita fino a diventare viottoli, passaggi, fessure in mezzo ai tuguri della favela. E poi a scendere ancora verso la città tra carretti, bambini con palloni, gradini colorati, capre, panni stesi, catini, vecchi addormentati, pezzi di lamiera, brandelli d’intonaco, fili scoperti della corrente, venditori di noccioline, biciclette, escrementi d’asino, donne grasse bardate di parei colorati, piante rampicanti. Se è vero che mi sento il protagonista di un videogame in soggettiva, spero di avere almeno tre vite e di guadagnarmi quel cazzo di extratime. C’è un mondo nascosto da fotografare ed evitare in rapida sequenza, se solo fossi un turista.
Ma un turista qui in cima a Natal non sarebbe salito mai.

E non avrebbe mai potuto vedere dall’alto il Grande Buraco.
Devo tornare verso il Pelourinho, prima di guardarmi indietro. Ansimo come Barzagli dopo venti minuti del secondo tempo, o come Thiago Motta dopo cinque dal suo ingresso in campo.
Fermo la mia corsa e le
gimcane, esausto, sotto un portico che si affaccia in un cortile dalle mille grate.  Mi affaccio nel vicolo, a destra e sinistra non c’è nessun manico di scopa.
Dall’interno proviene un buon odore di chiodi di garofano e pollo stufato.  Fuori, due ragazzine vestite bene giocano a pallavolo e un gatto le osserva grattandosi via le pulci fino a scarnificarsi.
Mi siedo
a terra, nel chiaroscuro del portico e prendo il respiro.
Chiudo gli occhi.
Vedo Prandelli che mi viene incontro. Mi mette una mano sulla testa, fa finta di non schifarsi per il sudore dei capelli, e mi prende il collo con l’avambraccio.
“E’ andata così, non piangere” mi dice con un mezzo sorriso averna.
“Non piango, sono miliardario e prenoto domani per due settimane in Polinesia” vorrei rispondergli, ma l’etica mi consiglia: “Non ce lo meritavamo, abbiamo dato tutto”.
So che è una gran menzogna. In realtà ho dato solo 100 reais, e in tasca me ne rimangono 2000.
Più la carta di credito dei GIR.
Qualcosa mi tocca la spalla.
Non sento denti, non è Suarez.
E’ una mano pesante.
Mi viene in mente Carlos Ricardo Badalamenti.
Ho un sussulto verticale, apro gli occhi e mi alzo in piedi.
E’ una donna alta poco più di una pizza cucinata da Fetfatzidis, robusta e rassicurante- 
“Medu nao meu filho”, non temere mi dice.
Mi fa segno di entrare in casa.
Il patio annuncia un grande salone luminoso, pieno di drappi e arazzi.
In fondo si intravvede una cucina ampia con il blocco cottura in mezzo e una grande cappa di alluminio. Mi fa cenno di sedere su un divano morbido, contornato da cuscini cangianti.
Alzo lo sguardo verso un crocifisso d’oro appeso alla parete.
Di fianco una gigantografia di un ragazzo che assomiglia al povero Emerson.
Guardo meglio, il naso non è così camuso.
E’ Francelino Matuzalem!
La signora sorride e fa portare una bottiglia di Demerara 30 anhos.
Stappa, versa e degusta, con eleganza impropria.
Sono già innamorato.
“Esto e melhor de que beve a Natal, no è cachaça”
“Lo so, lo so…grazie. Alla tua, mamma!”.
“Fanculo Italia!”
“Fanculo Italia, forza Genoa!”
“Forse fanculo anche Genoa!”
“Dai mamma…”
“Da me un beijo”
“Ma mamma, hai quasi sessant’anni…”
“Apenas un beijo…”
Okay.
“Allora, Forza Genoa!”
“Forza Genoa sempre, mamma!”

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