La quota del
Costarica primo in classifica nel girone D all’inizio del torneo era inferiore
solo a quella dell’Iran nel girone dell’Argentina. Mentre passeggio per la
lunghezza della spiaggia di Boa Viagem, alla ricerca di un Pernambuco, inteso
come ambito traguardo qualificazione in mezzo a due chiappe brasiliane, penso
che era da giocare, anche solo per esorcizzare la partita con l’Italia.
Assaggio l’epidermico piacere dei piedi nudi sulla rena e gioco con le pupille a far coincidere le finestre a vetri dei grattacieli con il bagnasciuga che si perde in altre rive ed altri palazzoni.
L’accelerazione e la frequenza dei movimenti saccadici potrebbero farmi sembrare un epilettico fotosensibile, un consumatore di crack e ketamina o un imitatore di Beppe Grillo quando viene intervistato. Se incrocio tifosi azzurri devo ricordarmi di smettere, per evitare spiacevoli conseguenze.
A poche ore dal match che ci lancerà verso gli ottavi, chissà perché, la mia esigenza più vivida e terrena è quella di possedere un Pernambuco del culo.
Sarà che ne ho ammirati così tanti, in giro per quella che chiamano la Venezia del Brasile solo perché ha una cinquantina di ponti e fiumi e canali che l’attraversano (mi ricorda il tormentone pugliese “se Parigi avesse lu mere, sarebbe una piccola Beri”).
D’altronde, che volete, sono un turista anch’io!
Avete mai sentito parlare della Casa da Cultura di Recife, un ghetto straordinario ricavato dall’enorme carcere portoghese, dove ogni cella è un mondo d’arte, di sogni, scritti e visioni?
Ve l’hanno mai fatta vedere negli speciali su Brasil 2014?
Figurati, media e internet globalizzati ti accecano con samba, culi e calcio. E gli alternativi, i moralisti, gli indignados di ‘sto cazzo ti propinano invece le solite immagini di bambini poveri che sniffano solvente per smalto semipermanente e ragazzine di dodici anni che non la darebbero mai a un coetaneo o al maestro di scuola, ma solo a uno straniero che potrebbe essere il loro nonno.
E’ uno schifo.
Alla Casa da Cultura ho conosciuto l’anima di Nelson Rodriguez, che non è un terzino costaricano ma un grande scrittore di Recife, che aveva la stessa mia passione per le natiche femminee e per il Pernambuco.
Sentite cosa dice, che bellezza: “Sono un bambino che spia l'amore dal buco della serratura. Non sono mai stato diverso da quello. Sono nato bambino, e morirò tale. E il buco della serratura è proprio il mio punto di vista. Scrivo come sono, e sono sempre stato un angelo pornografico”.
Lirico inestimabile, segaiolo sublime. Il Franco Scoglio della letteratura pernambucana.
Assorto nel ricordo di Nelson e della sua vita avventurosa, tutta passata tra Recife e Botafogo, non mi accorgo di una sinuosa mulatta apparentemente senza culo, perché sdraiata di schiena su un miniasciugamano, con un minibikini sulla maxispiaggia.
Ci inciampo sopra come in un video di Huey Lewis and The News e lei fa finta di credere alla mia vera buonafede.
E’ un gioco di sguardi finto dolci di finto broncio e vere scuse e finti non fa niente e finti sorrisini e vero imbarazzo e finte offerte di riparazione e vere occasioni da prendere al volo e finte accettazioni e vero disinteresse e finto piacere. Fino a quando si alza e mostra il Pernambuco leggermente insabbiato.
Da lì in poi sarà tutto meravigliosamente finto, come le conferenze stampa di Prandelkin.
Si parte con due cerveja al guaranà e poi entriamo nel bairro di Espinheiro, passiamo il quartiere olandese, attraversiamo il fiume Beberibe da cui vedi in lontananza le favelas, e approdiamo a Graças.
“Mi chiamo Leyda. Sono ballerina di Frevo”
“Sono Freddie, massaggiatore d’interni”
“Italiano…sei qui per il mondiale?”
“Ho due biglietti per la partita, vieni con me?”
“Prima scopiamo?”
“Per quello hai tu i biglietti?”
Ride, l’ho conquistata.
Terminiamo la corsa in un basso alla napoletana nei vicoli tra la civiltà e il fango del fiume, dove proliferano granchi d’acqua dolce, relitti di barche e rettili umani che si mimetizzano con la melma e la miseria.
Mi offre un intruglio di color orzata ed entra in doccia.
Trangugio fregandomene di presentimenti oftalmici, brucia bene la gola.
Forse troppo, per le dieci del mattino.
Nemmeno Matuzalem con sua mamma.
Arriva profumata, liscia e umida.
Il suo tocco è morbido e sorprendente al pari di un cross di Cavani, le labbra pesanti si appoggiano e mi spiazzano come il colpo di testa di Suarez, sbatto sulla testata in ferro della brandina da ospedale come Rooney sulla traversa.
In seguito è tutto un groviglio, una sarabanda, un tiki-taka indiavolato modello Cile. Mi dibatto e mi dimeno pensando a Iniesta e Sterling, sarò l’ultimo a crollare…c’è battaglia, sudore, sofferenza, speranza, e sana competizione. Passano i minuti e mi dirigo meritatamente verso l’eliminazione.
Sono fuori, come Spagna e Inghilterra.
Incasso il raddoppio e mestamente cado.
Mi sono perso anche l’esultanza di Leyda la cilena, l’uruguayana. Di sicuro avrà accennato due passi di Frevo, gioendo alla vista del nemico svenuto.
Quella gran troia di una Pernambucana mi ha infilato qualcosa di stordente nella cachaça.
Mescalina, roipnol o solvente per smalto semipermanente.
Mi ha fregato zaino, telefonino, contanti (e per fortuna ho lasciato la carta di credito dei GIR in hotel) e soprattutto i biglietti per Italia-Costarica.
Mancano quaranta minuti all’inizio del match.
Mi trovo a Camaragibe in uno dei bairri più puzzolenti e malmessi di Recife, senza una lira e senza essere sicuro di saperne uscire.
Mi sale una sensazione conosciuta, l’adrenalina da inculata.
Percorro Avenida Correia e trovo un quartiere, un “bairro” come dicono qui, leggermente più accogliente. Almeno, la puttana appoggiata al cartello stradale divelto all’angolo non fa nulla per non sembrare una puttana vera. Ha le unghie della Griffith, le tette di Veronica Lario e il sorriso dell’ex marito. Nel vicolo dietro le sue poppe, c’è un locale aperto, con un’insegna che mi allenta i battiti. “Don Pepito”. Penso a Rossi, il grande escluso della Corazzata Prandelkin, chissà con quale umore starà apprestandosi a vedere questa gara.
Don Pepito ha i muri scrostati e le cameriere basse e quadrate.
L’ambiente è sobrio come il Megu quando esce da casa di Mister No.
Quadri ispirati al risorgimento italiano, alla rivoluzione francese e forse anche all’impero austroungarico, contornati da maracas, reti da pesca, gagliardetti del Nautico e fotografie del carnevale con una serie di Moire Orfei pernambucane con pappagalli e ananas in testa al posto del turbante.
C’è il televisore!
“Enviar o jogo na Italia?” chiedo.
“Alguns!”
Spero voglia dire sì e mi siedo.
Dietro di me un uomo sulla sessantina, brizzolato con un incisivo tagliato a metà e una cicatrice vicino all’orecchio come una specie di incazzatura, mi mette una mano sulla spalla.
“La fannu, la fannu ‘a partita. Ce lo chiesi iu. Sei Talianu?”
La presa del suo arto superiore dovrebbe già dire tutto, ma sono ancora sotto l’effetto dello smalto mescalero e quasi gli accarezzerei le dita.
Sono più che altro sorpreso dalla cadenza rumeno-calabrese di questo signore distinto ed elegante, se non fosse per il colletto della camicia strappato e per il ciuffo brizzolato di capelli, decisamente arruffati.
“Sim! Sao os genoa presisamenji. Sono italiano di Genova”.
Mi fa godere così tanto che in portoghese io possa dire di essere di “Genoa” con la stessa inflessione con cui canto “a fiji de bagassa, avansi de casin” che me lo sono imparato a memoria.
“Jallora parli la mia lingua. Anchi miu patri era taliano”
Ah, ecco, Recife non è gemellata con Bucarest.
Sul 56 pollici Matsui appare l’Arena Pernambucana, che vista dall’alto sembra la tazza del cesso del bagno degli ospiti di Renzo Piano.
Mi scappa da lamentarmi.
“Dovevo essere lì dentro…”
“Angh’iu…stu figghiebbottana nu finanzieri brasilianu mi s’inciampò sulli scarpi e avvirtì u ferru. U’ purtai a prenni ‘na buccata ‘i caldo e ma rruvinari a camicia. I nun zi po’ entrari in ‘tu stadiu a vederi l’Italia con la camicia arruvinata, dicu bbeni?”
“Dice bbeni sì!” confermo, anche se non ho capito quasi una minchia.
Ordina anche per me una Petra 90, qualcosa di simile a un’acquavite fatta sui monti friulani di Mauro Corona e filtrata con un suo maglione.
“Alluri ce la vediamo qui nzemi chista Italia, dicu bbeni?”
“Dice bbeni anche questa volta. Mi presento, Augusto Beccioni” (con gli anni ho imparato a non dare mai il mio vero nome agli sconosciuti incontrati in terra straniera).
“Mi puoi chiamari Carlos, o anche Ricardo”
C’è sempre qualcuno più avanti di te, penso. Questo mi da addirittura due nomi falsi.
“Ma ci sei mai stato in Italia?” chiedo, tanto per ingannare l’attesa e spezzare il fiato di Petra 90.
“Ci sugnu natu, in Italia. E penza chi stavu per tunnacci, nella mia Sicilia. Che furono trentacinqui anni. Tutta colpa di chiddu picciottu di mio figghiu Tanuzzo. Ci ho accomodato una vita così spacchiusa a San Paulo che alla fine si annoiava e scenniva in Avenida Paulista a dari fastidiu i froci cui bastuni i cateni”.
“Eh certo, bastoni e catene un po’ danno fastidio…”
“Chi dicesti?”
“No, niente…guarda, Carlos, l’Italia!”
C’è un servizio, su Rete Globo, abbinato agli azzurri. Si vede Venezia, la piccola Recife, Firenze, il Colosseo, Papa Francesco (che cazzo ci combina, è argentino…) e il Vesuvio. Poi, di colpo, appare un volto noto. Brutto, grigio, ributtante, antipatico.
“Cu cazzu è?” chiede Carlos Ricardo più o meno con la stessa espressione schifata e anodina del personaggio in tv.
“Si chiama Checco Zalone è…è…(faccio fatica a dirlo, come Renzi quando deve dire “ho sbagliato”) un comico.
“I con quella facci’ di cazzu vuole fari arridere?”
“Non lo dire a me, Ricardo”
Parte la sua canzone sui mondiali. Una roba da avanspettacolo del basso lodigiano, negli anni Settanta. Il succo della storia è: molti brasiliani sono neri e i neri ce l’hanno più lungo, il giocatore brasiliano nero protagonista della canzone ce l’ha più lungo dei bianchi ma è stitico. Quindi il bianco gli mostra una banana, e il nero stitico gli dice che lui la banana non la mangia perché astringe. Poi entra in campo il frocio, che anche lui viene associato al simbolo della banana e quella che dovrebbe essere una divertentissima disserzione contro il razzismo e l’omofobia, si conclude con il calciatore nero che sta per segnare, dopo aver scartato anche il portiere ma invece si caga addosso. Cazzo, merda, negri e ricchioni. Gli elementi per parlare di calcio e per far ridere ci sono proprio tutti. Ovviamente rete Globo ricorda che Zalone è il comico più popolare d’Italia e che i suoi film hanno guadagnato milioni di euro.
Me la davano a me una canzone divertente da scrivere per i mondiali…mi parte l’embolo e mi alzo in piedi, inveendo verso il teleschermo.
“Ma vaffanculo, guarda se devono abbinare all’Italia una roba del genere. Che schifo. Io lo ammazzerei a Zalone, ma non con un colpo, lo torturerei per giorni interi, ‘sto mostro triste, che se la tira pure”
Penso che lo legherei alla poltrona di un cinema d’essai e lo costringerei a vedere la cinematografia completa dei fratelli Marx, mentre in un orecchio Gianfranco D’Angelo gli sussurra i suoi monologhi più celebri, Enzo Braschi vestito da paninaro lo ingozza di sostanze fecali prodotte da Tini Cansino e Gegia gli fa uno spogliarello e poi copula con Capozzucca. Questo prima dell’ingresso in campo del negro stitico…
“Lo vuoi veramenti videri mottu a chistu?”
“Sì, Carlos, mi sentirei davvero bene se sparisse per sempre”
“Ma che ti ha fatto?”
“Che mi ha fatto? Che ci ha fatto! Ha rovinato l’immagine della comicità italiana nel mondo. Ti rendi conto? La patria di Totò, di Macario, di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Roberto Benigni!”
Carlos Ricardo mi guarda quasi spaventato. Ho paura di avergli fatto gli occhi spiritati da Beppe Grillo intervistato.
Estrae qualcosa da una fondina attaccata a un passante dei pantaloni.
Me lo punta.
Serro i denti ma, in un empito di coraggio, tengo gli occhi aperti, anche se sembrano gli occhi di Keysuke Honda. Con tutte le avventure che ho avuto nella vita, qualsiasi cosa mi aspettavo tranne che morire in Brasile per una lite con un italiano su Checco Zalone.
Non è una pistola.
E’ un telefono cellulare motorola startack grosso come un ipad, di quelli che usava Moggi in Svizzera per lo scudetto numero 28 della Juve.
“Pronto, Turi? Iiii bedduzzu, tuttubbeni? Amugghierapippufraterosarioipicciottiuziupaolututtibbeni? ElafamigghiadiCinisiziuRoccodonIgnaziudonnaCarmelaicementaronoaifetusi? Beni, beni! Senti me dovissi fare nu favori…c’è un amico qui che vuole che uccidiamo un certo…”
Reduce dal sollievo e da una seconda ingollata di Petra90, non ho proprio tempo di pensare che si tratti di uno scherzo.
“Ma no, dai non importa Carlos…”
“Commu cazzu si chiama chillu”
“Ch…Checco Zalone”
“Un certo Chicco Zaloni, e nu comicu ca ci piacciono i negri….come? Lo conosci? E megghiu che lo conosci, così è più facili avvicinarlu, dicu bbeni?”
Faccio segni da parcheggiatore d’aerei, per dirgli di lasciare stare.
“Chi ddici? E’ spacchiuso? Ma sei sicuru? Vabbè, informati se è protetto da amici nostri. Si Fozza Italia Turi! Sii poi c’ammu a sentiri pe chedda cosa del Venezuela. Vabbeni”
Carlos Ricardo rimette il motorola nella fondina e mi omaggia di uno sguardo di potente soddisfazione come dire – hai visto con chi hai a che fare-?
Vorrei dirgli che se fossi sicuro che in un bairro di Recife mi è apparso il genio della lampada sotto forma di pensionato siculo-rumeno, avrei ben altri nomi nella lista, prima di Zalone. Ci sarebbe giusto un commerciante di gioc…
“Guarda, Ricardo! Ecco i nostri ragazzi nel tunnel prima di entrare in campo!”
“Io dico BRAVI! Chisti picciotti portano l’immagine del nostru paesi nel mondo, mica cuddu figghiabbottana di Chicco Zaloni. Dicu bbeni?”
Annuisco sorridendo.
Mi ha smussato un po’ i coglioni, con ‘sto “dicu bbeni”, sarà mica convinto di essere uscito da un pallosissimo noir di Camilleri?
“C’è Buffon…merda”
“Nun mi piace, preferivo cuddu che aggiucari nel Palemmo”
“Sirigu, hai visto che partita contro l’Inghilterra?”
“Bravo, bravo. E adesso spacchiamo u culu al Costarricca…che ci avranno di ricco questi indiani du cazzu, mi toccherà andare a farci un giro, lassù”
Suonano gli inni, Carlos Ricardo ha gli occhi lucidi. Mi mette una mano sulla spalla e fa segno di brindare.
Dentro il Don Pepito ci saranno quaranta gradi e quattro clienti, le due pale girano lente come quelle di Del Bosque, le cameriere sono diventate triangoli isosceli.
Fischio d’inizio.
“Avranno caldo anche loro, camminano”
“Lu negru, non mi può sbagliare un pallonettu facili accussè”
Balotelli non è in partita, c’è qualcosa che non va.
“Avrà mangiato le banane, come dice a Zaloni…ahahaha!”
Ma vaffanculo, Carlos Ricardo.
L’Italia lentamente scompare dal campo, dopo un altro tiro in porta di Balotelli e un diagonale insulso di Thiago Motta.
Carlos Ricardo si tocca nervosamente la fondina.
Noto che ne ha un’altra, a destra.
“Ma quisti ci vogliono fari fare una figura di merda in Brasile, nel mondo…altro che Totò e Macario…”
“Sarà una tattica…li facciamo stancare”
“A bastoni e catene…come mio figgi Tanu, li prendo ‘sti miliardari du cazzu!”
Quando Chiellini cicca il pallone e poi si lancia contro Campbell, come un crostone al formaggio che si tuffa nella zuppa, Carlos Ricardo ordina un’altra bottiglia di Petra ed alza la voce.
“Poccuddue! Ma chi cazzu stannu facinnu sti arrusazzi! Chisti sunnu a Recife li ammazzu io con le mie mani!”
Al gol del Costarica, su dormita totale e uscita goffa di Buffon, devo trattenerlo dal lanciare uno dei due triangoli isosceli a punta contro il televisore.
Alla fine del primo tempo cerco di smorzare i toni, anche se il mio grado alcolico, misto al caldo e all’intruglio della ballerina di frevo, rende difficili le funzioni neuro-motorie e l’utilizzo delle consonanti.
“Ma cosa ha fatto Tanuzzo con i bastoni e le catene?”
“Riducette a una larva nu picciottu negro ricchione. Come cuddu rincogliunitu di Balotelli quannu aveva quindici anni. E siccome Tanuzzu era minorenne, mi sono dovuto presentare al commissariato di San Paulo e lì accuminciarunu i casini”
“Che casini, Carlos?”
Le ricerche, le balle, servizi segreti, e chi è Carlos Massetti, chi è Ricardo Cavalcante Vitale…io a cchiamari Chicago, Baltimora ma nnenti. Palemmo che non zi muoveva, i picciotti calabbresi a Bogotà, cazzu due mesi di galera mi facettero fari, hai capito, ammè!”
Sta delirando, l’effetto Petra è implacabile.
Cerco di recuperare la cordialità.
“Io lo so chi è Carlos Massetti?”
“Ah sì?”
Carlos Ricardo mette automaticamente la mano alla fondina di destra.
“Sentiamo, cu è?”
“Non so se sia ancora vivo, era un direttore d’orchestra argentino, lo Xavier Cugat di Quilmes. Arrangiava i pezzi del cantante Pepito Perez”.
“Bravo! Tu mi piaci sai? Come hai detto che ti chiami?”
“Augusto”
“No, tu da oggi ti chiami Pepito. Io sono Carlos, il tuo direttore d’orchestra, e tu sei Pepito, il cantante”
Decido di accondiscenderlo.
“Sì, ma canto solo quello che mi chiedi di cantare tu, dicu bbeni?”
“Sicuro! E nun pigghiarmi pe u culu!”
Inizia il secondo tempo e l’Italia è desolante. La seconda Petra è stata scagliata, Carlos attacca la terza come un vero direttore d’orchestra e quando Marchisio e De Rossi iniziano a viaggiare più lenti di Mamede, Cassano si esibisce in uno stop alla Zetulayev e Insigne e Cerci si incistano in area come discepoli di Olivera, al posto della bacchetta estrae una calibro 22.
“JARRUSIIIIIIIII…vannu a uccideri cani!”
Parte il concerto per pallottole, urla e calci ai tavoli. I due triangoli isosceli si gettano sotto il bancone, gli altri quattro clienti sotto i tavoli, dalla cucina a vista sporgono gli occhietti rassegnati dei due cuochi.
Il televisore esplode insieme all’espressione zalonica del butterato di Barivecchia che abbandona il campo. Saltano una ad una le bottiglie del locale, le foto di Moira Orfei e anche la formazione del Nautico campione brasilero 1967. Entra in bagno, sento ancora uno sparo e qualche imprecazione in siciliano. Non si è ucciso. Chissà com’è quando l’Italia vince.
Ne approfitto per riprendere la via del fango, dei granchi, delle puttane e dei ponti con due certezze:
L’Italia ci fotte sempre, Il Pernambuco non mi frega più.
NOTA: Leonardo Badalamenti, figlio del boss Tano Badalamenti, mandante della strage di Cinisi e dell’assassinio di Peppino Impastato, è stato fermato dalla polizia brasiliana a San Paolo, nel 2009, dopo l’arresto di un minorenne, Gaetano Massetti, che con alcuni amici ha ridotto in fin di vita a sprangate un ragazzo colpevole solo di essere nero e omosessuale. Dopo ricerche degli investigatori, il padre Carlos Massetti, con regolare passaporto brasiliano, è risultato essere in realtà Badalamenti, il quale trafficherebbe in bond falsi con il Venezuela, dove come cittadino di quel Paese, si chiamerebbe Ricardo Cavalcante Vitale. Il Ministero di Giustizia italiano ha chiesto l’estradizione, ma il Tribunale del Riesame di Palermo, dopo due mesi, ha ritenuto che non ci fossero gli estremi per procedere. La polizia di Sao Paulo si è vista costretta a rilasciare Badalamenti, che risulta ufficialmente latitante da 35 anni.
Assaggio l’epidermico piacere dei piedi nudi sulla rena e gioco con le pupille a far coincidere le finestre a vetri dei grattacieli con il bagnasciuga che si perde in altre rive ed altri palazzoni.
L’accelerazione e la frequenza dei movimenti saccadici potrebbero farmi sembrare un epilettico fotosensibile, un consumatore di crack e ketamina o un imitatore di Beppe Grillo quando viene intervistato. Se incrocio tifosi azzurri devo ricordarmi di smettere, per evitare spiacevoli conseguenze.
A poche ore dal match che ci lancerà verso gli ottavi, chissà perché, la mia esigenza più vivida e terrena è quella di possedere un Pernambuco del culo.
Sarà che ne ho ammirati così tanti, in giro per quella che chiamano la Venezia del Brasile solo perché ha una cinquantina di ponti e fiumi e canali che l’attraversano (mi ricorda il tormentone pugliese “se Parigi avesse lu mere, sarebbe una piccola Beri”).
D’altronde, che volete, sono un turista anch’io!
Avete mai sentito parlare della Casa da Cultura di Recife, un ghetto straordinario ricavato dall’enorme carcere portoghese, dove ogni cella è un mondo d’arte, di sogni, scritti e visioni?
Ve l’hanno mai fatta vedere negli speciali su Brasil 2014?
Figurati, media e internet globalizzati ti accecano con samba, culi e calcio. E gli alternativi, i moralisti, gli indignados di ‘sto cazzo ti propinano invece le solite immagini di bambini poveri che sniffano solvente per smalto semipermanente e ragazzine di dodici anni che non la darebbero mai a un coetaneo o al maestro di scuola, ma solo a uno straniero che potrebbe essere il loro nonno.
E’ uno schifo.
Alla Casa da Cultura ho conosciuto l’anima di Nelson Rodriguez, che non è un terzino costaricano ma un grande scrittore di Recife, che aveva la stessa mia passione per le natiche femminee e per il Pernambuco.
Sentite cosa dice, che bellezza: “Sono un bambino che spia l'amore dal buco della serratura. Non sono mai stato diverso da quello. Sono nato bambino, e morirò tale. E il buco della serratura è proprio il mio punto di vista. Scrivo come sono, e sono sempre stato un angelo pornografico”.
Lirico inestimabile, segaiolo sublime. Il Franco Scoglio della letteratura pernambucana.
Assorto nel ricordo di Nelson e della sua vita avventurosa, tutta passata tra Recife e Botafogo, non mi accorgo di una sinuosa mulatta apparentemente senza culo, perché sdraiata di schiena su un miniasciugamano, con un minibikini sulla maxispiaggia.
Ci inciampo sopra come in un video di Huey Lewis and The News e lei fa finta di credere alla mia vera buonafede.
E’ un gioco di sguardi finto dolci di finto broncio e vere scuse e finti non fa niente e finti sorrisini e vero imbarazzo e finte offerte di riparazione e vere occasioni da prendere al volo e finte accettazioni e vero disinteresse e finto piacere. Fino a quando si alza e mostra il Pernambuco leggermente insabbiato.
Da lì in poi sarà tutto meravigliosamente finto, come le conferenze stampa di Prandelkin.
Si parte con due cerveja al guaranà e poi entriamo nel bairro di Espinheiro, passiamo il quartiere olandese, attraversiamo il fiume Beberibe da cui vedi in lontananza le favelas, e approdiamo a Graças.
“Mi chiamo Leyda. Sono ballerina di Frevo”
“Sono Freddie, massaggiatore d’interni”
“Italiano…sei qui per il mondiale?”
“Ho due biglietti per la partita, vieni con me?”
“Prima scopiamo?”
“Per quello hai tu i biglietti?”
Ride, l’ho conquistata.
Terminiamo la corsa in un basso alla napoletana nei vicoli tra la civiltà e il fango del fiume, dove proliferano granchi d’acqua dolce, relitti di barche e rettili umani che si mimetizzano con la melma e la miseria.
Mi offre un intruglio di color orzata ed entra in doccia.
Trangugio fregandomene di presentimenti oftalmici, brucia bene la gola.
Forse troppo, per le dieci del mattino.
Nemmeno Matuzalem con sua mamma.
Arriva profumata, liscia e umida.
Il suo tocco è morbido e sorprendente al pari di un cross di Cavani, le labbra pesanti si appoggiano e mi spiazzano come il colpo di testa di Suarez, sbatto sulla testata in ferro della brandina da ospedale come Rooney sulla traversa.
In seguito è tutto un groviglio, una sarabanda, un tiki-taka indiavolato modello Cile. Mi dibatto e mi dimeno pensando a Iniesta e Sterling, sarò l’ultimo a crollare…c’è battaglia, sudore, sofferenza, speranza, e sana competizione. Passano i minuti e mi dirigo meritatamente verso l’eliminazione.
Sono fuori, come Spagna e Inghilterra.
Incasso il raddoppio e mestamente cado.
Mi sono perso anche l’esultanza di Leyda la cilena, l’uruguayana. Di sicuro avrà accennato due passi di Frevo, gioendo alla vista del nemico svenuto.
Quella gran troia di una Pernambucana mi ha infilato qualcosa di stordente nella cachaça.
Mescalina, roipnol o solvente per smalto semipermanente.
Mi ha fregato zaino, telefonino, contanti (e per fortuna ho lasciato la carta di credito dei GIR in hotel) e soprattutto i biglietti per Italia-Costarica.
Mancano quaranta minuti all’inizio del match.
Mi trovo a Camaragibe in uno dei bairri più puzzolenti e malmessi di Recife, senza una lira e senza essere sicuro di saperne uscire.
Mi sale una sensazione conosciuta, l’adrenalina da inculata.
Percorro Avenida Correia e trovo un quartiere, un “bairro” come dicono qui, leggermente più accogliente. Almeno, la puttana appoggiata al cartello stradale divelto all’angolo non fa nulla per non sembrare una puttana vera. Ha le unghie della Griffith, le tette di Veronica Lario e il sorriso dell’ex marito. Nel vicolo dietro le sue poppe, c’è un locale aperto, con un’insegna che mi allenta i battiti. “Don Pepito”. Penso a Rossi, il grande escluso della Corazzata Prandelkin, chissà con quale umore starà apprestandosi a vedere questa gara.
Don Pepito ha i muri scrostati e le cameriere basse e quadrate.
L’ambiente è sobrio come il Megu quando esce da casa di Mister No.
Quadri ispirati al risorgimento italiano, alla rivoluzione francese e forse anche all’impero austroungarico, contornati da maracas, reti da pesca, gagliardetti del Nautico e fotografie del carnevale con una serie di Moire Orfei pernambucane con pappagalli e ananas in testa al posto del turbante.
C’è il televisore!
“Enviar o jogo na Italia?” chiedo.
“Alguns!”
Spero voglia dire sì e mi siedo.
Dietro di me un uomo sulla sessantina, brizzolato con un incisivo tagliato a metà e una cicatrice vicino all’orecchio come una specie di incazzatura, mi mette una mano sulla spalla.
“La fannu, la fannu ‘a partita. Ce lo chiesi iu. Sei Talianu?”
La presa del suo arto superiore dovrebbe già dire tutto, ma sono ancora sotto l’effetto dello smalto mescalero e quasi gli accarezzerei le dita.
Sono più che altro sorpreso dalla cadenza rumeno-calabrese di questo signore distinto ed elegante, se non fosse per il colletto della camicia strappato e per il ciuffo brizzolato di capelli, decisamente arruffati.
“Sim! Sao os genoa presisamenji. Sono italiano di Genova”.
Mi fa godere così tanto che in portoghese io possa dire di essere di “Genoa” con la stessa inflessione con cui canto “a fiji de bagassa, avansi de casin” che me lo sono imparato a memoria.
“Jallora parli la mia lingua. Anchi miu patri era taliano”
Ah, ecco, Recife non è gemellata con Bucarest.
Sul 56 pollici Matsui appare l’Arena Pernambucana, che vista dall’alto sembra la tazza del cesso del bagno degli ospiti di Renzo Piano.
Mi scappa da lamentarmi.
“Dovevo essere lì dentro…”
“Angh’iu…stu figghiebbottana nu finanzieri brasilianu mi s’inciampò sulli scarpi e avvirtì u ferru. U’ purtai a prenni ‘na buccata ‘i caldo e ma rruvinari a camicia. I nun zi po’ entrari in ‘tu stadiu a vederi l’Italia con la camicia arruvinata, dicu bbeni?”
“Dice bbeni sì!” confermo, anche se non ho capito quasi una minchia.
Ordina anche per me una Petra 90, qualcosa di simile a un’acquavite fatta sui monti friulani di Mauro Corona e filtrata con un suo maglione.
“Alluri ce la vediamo qui nzemi chista Italia, dicu bbeni?”
“Dice bbeni anche questa volta. Mi presento, Augusto Beccioni” (con gli anni ho imparato a non dare mai il mio vero nome agli sconosciuti incontrati in terra straniera).
“Mi puoi chiamari Carlos, o anche Ricardo”
C’è sempre qualcuno più avanti di te, penso. Questo mi da addirittura due nomi falsi.
“Ma ci sei mai stato in Italia?” chiedo, tanto per ingannare l’attesa e spezzare il fiato di Petra 90.
“Ci sugnu natu, in Italia. E penza chi stavu per tunnacci, nella mia Sicilia. Che furono trentacinqui anni. Tutta colpa di chiddu picciottu di mio figghiu Tanuzzo. Ci ho accomodato una vita così spacchiusa a San Paulo che alla fine si annoiava e scenniva in Avenida Paulista a dari fastidiu i froci cui bastuni i cateni”.
“Eh certo, bastoni e catene un po’ danno fastidio…”
“Chi dicesti?”
“No, niente…guarda, Carlos, l’Italia!”
C’è un servizio, su Rete Globo, abbinato agli azzurri. Si vede Venezia, la piccola Recife, Firenze, il Colosseo, Papa Francesco (che cazzo ci combina, è argentino…) e il Vesuvio. Poi, di colpo, appare un volto noto. Brutto, grigio, ributtante, antipatico.
“Cu cazzu è?” chiede Carlos Ricardo più o meno con la stessa espressione schifata e anodina del personaggio in tv.
“Si chiama Checco Zalone è…è…(faccio fatica a dirlo, come Renzi quando deve dire “ho sbagliato”) un comico.
“I con quella facci’ di cazzu vuole fari arridere?”
“Non lo dire a me, Ricardo”
Parte la sua canzone sui mondiali. Una roba da avanspettacolo del basso lodigiano, negli anni Settanta. Il succo della storia è: molti brasiliani sono neri e i neri ce l’hanno più lungo, il giocatore brasiliano nero protagonista della canzone ce l’ha più lungo dei bianchi ma è stitico. Quindi il bianco gli mostra una banana, e il nero stitico gli dice che lui la banana non la mangia perché astringe. Poi entra in campo il frocio, che anche lui viene associato al simbolo della banana e quella che dovrebbe essere una divertentissima disserzione contro il razzismo e l’omofobia, si conclude con il calciatore nero che sta per segnare, dopo aver scartato anche il portiere ma invece si caga addosso. Cazzo, merda, negri e ricchioni. Gli elementi per parlare di calcio e per far ridere ci sono proprio tutti. Ovviamente rete Globo ricorda che Zalone è il comico più popolare d’Italia e che i suoi film hanno guadagnato milioni di euro.
Me la davano a me una canzone divertente da scrivere per i mondiali…mi parte l’embolo e mi alzo in piedi, inveendo verso il teleschermo.
“Ma vaffanculo, guarda se devono abbinare all’Italia una roba del genere. Che schifo. Io lo ammazzerei a Zalone, ma non con un colpo, lo torturerei per giorni interi, ‘sto mostro triste, che se la tira pure”
Penso che lo legherei alla poltrona di un cinema d’essai e lo costringerei a vedere la cinematografia completa dei fratelli Marx, mentre in un orecchio Gianfranco D’Angelo gli sussurra i suoi monologhi più celebri, Enzo Braschi vestito da paninaro lo ingozza di sostanze fecali prodotte da Tini Cansino e Gegia gli fa uno spogliarello e poi copula con Capozzucca. Questo prima dell’ingresso in campo del negro stitico…
“Lo vuoi veramenti videri mottu a chistu?”
“Sì, Carlos, mi sentirei davvero bene se sparisse per sempre”
“Ma che ti ha fatto?”
“Che mi ha fatto? Che ci ha fatto! Ha rovinato l’immagine della comicità italiana nel mondo. Ti rendi conto? La patria di Totò, di Macario, di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Roberto Benigni!”
Carlos Ricardo mi guarda quasi spaventato. Ho paura di avergli fatto gli occhi spiritati da Beppe Grillo intervistato.
Estrae qualcosa da una fondina attaccata a un passante dei pantaloni.
Me lo punta.
Serro i denti ma, in un empito di coraggio, tengo gli occhi aperti, anche se sembrano gli occhi di Keysuke Honda. Con tutte le avventure che ho avuto nella vita, qualsiasi cosa mi aspettavo tranne che morire in Brasile per una lite con un italiano su Checco Zalone.
Non è una pistola.
E’ un telefono cellulare motorola startack grosso come un ipad, di quelli che usava Moggi in Svizzera per lo scudetto numero 28 della Juve.
“Pronto, Turi? Iiii bedduzzu, tuttubbeni? Amugghierapippufraterosarioipicciottiuziupaolututtibbeni? ElafamigghiadiCinisiziuRoccodonIgnaziudonnaCarmelaicementaronoaifetusi? Beni, beni! Senti me dovissi fare nu favori…c’è un amico qui che vuole che uccidiamo un certo…”
Reduce dal sollievo e da una seconda ingollata di Petra90, non ho proprio tempo di pensare che si tratti di uno scherzo.
“Ma no, dai non importa Carlos…”
“Commu cazzu si chiama chillu”
“Ch…Checco Zalone”
“Un certo Chicco Zaloni, e nu comicu ca ci piacciono i negri….come? Lo conosci? E megghiu che lo conosci, così è più facili avvicinarlu, dicu bbeni?”
Faccio segni da parcheggiatore d’aerei, per dirgli di lasciare stare.
“Chi ddici? E’ spacchiuso? Ma sei sicuru? Vabbè, informati se è protetto da amici nostri. Si Fozza Italia Turi! Sii poi c’ammu a sentiri pe chedda cosa del Venezuela. Vabbeni”
Carlos Ricardo rimette il motorola nella fondina e mi omaggia di uno sguardo di potente soddisfazione come dire – hai visto con chi hai a che fare-?
Vorrei dirgli che se fossi sicuro che in un bairro di Recife mi è apparso il genio della lampada sotto forma di pensionato siculo-rumeno, avrei ben altri nomi nella lista, prima di Zalone. Ci sarebbe giusto un commerciante di gioc…
“Guarda, Ricardo! Ecco i nostri ragazzi nel tunnel prima di entrare in campo!”
“Io dico BRAVI! Chisti picciotti portano l’immagine del nostru paesi nel mondo, mica cuddu figghiabbottana di Chicco Zaloni. Dicu bbeni?”
Annuisco sorridendo.
Mi ha smussato un po’ i coglioni, con ‘sto “dicu bbeni”, sarà mica convinto di essere uscito da un pallosissimo noir di Camilleri?
“C’è Buffon…merda”
“Nun mi piace, preferivo cuddu che aggiucari nel Palemmo”
“Sirigu, hai visto che partita contro l’Inghilterra?”
“Bravo, bravo. E adesso spacchiamo u culu al Costarricca…che ci avranno di ricco questi indiani du cazzu, mi toccherà andare a farci un giro, lassù”
Suonano gli inni, Carlos Ricardo ha gli occhi lucidi. Mi mette una mano sulla spalla e fa segno di brindare.
Dentro il Don Pepito ci saranno quaranta gradi e quattro clienti, le due pale girano lente come quelle di Del Bosque, le cameriere sono diventate triangoli isosceli.
Fischio d’inizio.
“Avranno caldo anche loro, camminano”
“Lu negru, non mi può sbagliare un pallonettu facili accussè”
Balotelli non è in partita, c’è qualcosa che non va.
“Avrà mangiato le banane, come dice a Zaloni…ahahaha!”
Ma vaffanculo, Carlos Ricardo.
L’Italia lentamente scompare dal campo, dopo un altro tiro in porta di Balotelli e un diagonale insulso di Thiago Motta.
Carlos Ricardo si tocca nervosamente la fondina.
Noto che ne ha un’altra, a destra.
“Ma quisti ci vogliono fari fare una figura di merda in Brasile, nel mondo…altro che Totò e Macario…”
“Sarà una tattica…li facciamo stancare”
“A bastoni e catene…come mio figgi Tanu, li prendo ‘sti miliardari du cazzu!”
Quando Chiellini cicca il pallone e poi si lancia contro Campbell, come un crostone al formaggio che si tuffa nella zuppa, Carlos Ricardo ordina un’altra bottiglia di Petra ed alza la voce.
“Poccuddue! Ma chi cazzu stannu facinnu sti arrusazzi! Chisti sunnu a Recife li ammazzu io con le mie mani!”
Al gol del Costarica, su dormita totale e uscita goffa di Buffon, devo trattenerlo dal lanciare uno dei due triangoli isosceli a punta contro il televisore.
Alla fine del primo tempo cerco di smorzare i toni, anche se il mio grado alcolico, misto al caldo e all’intruglio della ballerina di frevo, rende difficili le funzioni neuro-motorie e l’utilizzo delle consonanti.
“Ma cosa ha fatto Tanuzzo con i bastoni e le catene?”
“Riducette a una larva nu picciottu negro ricchione. Come cuddu rincogliunitu di Balotelli quannu aveva quindici anni. E siccome Tanuzzu era minorenne, mi sono dovuto presentare al commissariato di San Paulo e lì accuminciarunu i casini”
“Che casini, Carlos?”
Le ricerche, le balle, servizi segreti, e chi è Carlos Massetti, chi è Ricardo Cavalcante Vitale…io a cchiamari Chicago, Baltimora ma nnenti. Palemmo che non zi muoveva, i picciotti calabbresi a Bogotà, cazzu due mesi di galera mi facettero fari, hai capito, ammè!”
Sta delirando, l’effetto Petra è implacabile.
Cerco di recuperare la cordialità.
“Io lo so chi è Carlos Massetti?”
“Ah sì?”
Carlos Ricardo mette automaticamente la mano alla fondina di destra.
“Sentiamo, cu è?”
“Non so se sia ancora vivo, era un direttore d’orchestra argentino, lo Xavier Cugat di Quilmes. Arrangiava i pezzi del cantante Pepito Perez”.
“Bravo! Tu mi piaci sai? Come hai detto che ti chiami?”
“Augusto”
“No, tu da oggi ti chiami Pepito. Io sono Carlos, il tuo direttore d’orchestra, e tu sei Pepito, il cantante”
Decido di accondiscenderlo.
“Sì, ma canto solo quello che mi chiedi di cantare tu, dicu bbeni?”
“Sicuro! E nun pigghiarmi pe u culu!”
Inizia il secondo tempo e l’Italia è desolante. La seconda Petra è stata scagliata, Carlos attacca la terza come un vero direttore d’orchestra e quando Marchisio e De Rossi iniziano a viaggiare più lenti di Mamede, Cassano si esibisce in uno stop alla Zetulayev e Insigne e Cerci si incistano in area come discepoli di Olivera, al posto della bacchetta estrae una calibro 22.
“JARRUSIIIIIIIII…vannu a uccideri cani!”
Parte il concerto per pallottole, urla e calci ai tavoli. I due triangoli isosceli si gettano sotto il bancone, gli altri quattro clienti sotto i tavoli, dalla cucina a vista sporgono gli occhietti rassegnati dei due cuochi.
Il televisore esplode insieme all’espressione zalonica del butterato di Barivecchia che abbandona il campo. Saltano una ad una le bottiglie del locale, le foto di Moira Orfei e anche la formazione del Nautico campione brasilero 1967. Entra in bagno, sento ancora uno sparo e qualche imprecazione in siciliano. Non si è ucciso. Chissà com’è quando l’Italia vince.
Ne approfitto per riprendere la via del fango, dei granchi, delle puttane e dei ponti con due certezze:
L’Italia ci fotte sempre, Il Pernambuco non mi frega più.
NOTA: Leonardo Badalamenti, figlio del boss Tano Badalamenti, mandante della strage di Cinisi e dell’assassinio di Peppino Impastato, è stato fermato dalla polizia brasiliana a San Paolo, nel 2009, dopo l’arresto di un minorenne, Gaetano Massetti, che con alcuni amici ha ridotto in fin di vita a sprangate un ragazzo colpevole solo di essere nero e omosessuale. Dopo ricerche degli investigatori, il padre Carlos Massetti, con regolare passaporto brasiliano, è risultato essere in realtà Badalamenti, il quale trafficherebbe in bond falsi con il Venezuela, dove come cittadino di quel Paese, si chiamerebbe Ricardo Cavalcante Vitale. Il Ministero di Giustizia italiano ha chiesto l’estradizione, ma il Tribunale del Riesame di Palermo, dopo due mesi, ha ritenuto che non ci fossero gli estremi per procedere. La polizia di Sao Paulo si è vista costretta a rilasciare Badalamenti, che risulta ufficialmente latitante da 35 anni.
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