venerdì 14 novembre 2008

RECENSIONI: GIUA


Tra qualche mese la scopriranno in molti, quando i suoi rossi ricci sfileranno sul palco del teatro Ariston di Sanremo. Giovane promessa, una nuova cantautrice raffinata, si dirà. Si scomoderanno paragoni impropri (Grazia Di Michele) per via della chitarra, o impegnativi (Fiorella Mannoia) per la propensione alla canzone d’autore. Invece Maria Pierantoni Giua, ligure di Rapallo e sudamericana d’origine, è semplicemente Giua. Il suo album è uscito più o meno in sordina l’estate scorsa, ma per noi Giua è una realtà da almeno quattro anni. Giovanissima diventa la voce femminile di una delle più intense e piacevoli coverband di De Andrè, gli Endegu capitanati da Alberto “Napo” Napolitano, poi intraprende la carriera solista sotto l’egida di uno dei migliori produttori italiani, quel Beppe Quirici testimone degli anni migliori di Fossati, delle ultime sferzate da studio di Giorgio Gaber e finalmente premiato con un “Tenco” alla carriera quest’anno.
Nel 2005 Giua si aggiudica all’unanimità il Festival di Mantova e inizia la lavorazione dell’album che porta il suo nome. Eccolo, da marzo sarà in giro “come si deve”, arricchito dal brano sanremese. Per ora l’incanto è tutto in dieci brani in cui la voce morbida e precisa di Giua si appoggia con maestria alla chitarra classica, in un intreccio garbato ma pronto ad esplodere tra latinamerica ed echi di quella Francia che gli artisti di riviera come Fossati, Manfredi e altri ben conoscono. Così si salpa con “Si abbassa la luna”, sospesa senza tempo e con echi argentini (come la cristallina “Terra e rivoluzione”), e si torna nella terra della canzone nostrana con “Aprimi le braccia” (che bellezza il violoncello di Martina Marchiori, già con lo stesso Fossati). I testi maturi vedono la collaborazione di Gianluca Martinelli, l’alter ego artistico del bravo Carlo Fava, che appare come autore anche in “Morbidamente”, uno dei brani più rappresentativi dell’artista ligure. Il mondo di Giua si apre come uno scrigno di buona musica e la moderna Ortiche (“casa per casa ho le formiche, ma so planare sulle ortiche”) è una ballata saltellante che rivela la maturità di una giovane promessa che sa scivolare senza presunzione tra poetica e ironia. C’è Stefano Melone, altro guru fossatiano dei tempi passati, a rimodellare gli arrangiamenti e si sente quell’aria di perfezione acustica e contemporaneità che rimanda a un bell’episodio di Cristiano De Andrè, “Scaramante”. Discorso a parte merita “Streghe”, divertente e divertita escursione nel sociale di un’autrice che si rivela intelligente oltre che sensibile. Curiosamente due maestri della chitarra classica, Fausto Mesolella e Armando Corsi (insegnante di Giua) appaiono all’elettrica. La liricità immaginifica di “La casa ubriaca” va ad equilibrare le cose, ma a noi piace il mondo tutto di Giua, la perfezione mai fine a se stessa, l’immaturità vestita d’autoironia e l’invito al piacere di un ascolto che non può essere superficiale. Piace anche che l’album si chiuda con una ballata pianistica fin troppo fossatiana, “Organizza la notte”. Morbidamente è l’episodio più classico, sembra già appartenere a un passato che invece può essere il nuovo futuro della rossa cantautrice a cui auguriamo quel che lei canta: “trasparente avvenire avvenente”.

Alfredo del Curatolo

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