sabato 1 novembre 2008

GLI ALBUM DEL DECENNIO: YUSUF "AN OTHER CUP"


Ventotto anni sono una bella fetta di esistenza, specie se trascorsi nella quiete e nella ripetitività di piccoli riti quotidiani. Per chi ha già barattato il certo con la promessa, i beni materiali con la spiritualità, il successo con l’anonimato, ventotto anni sono il volo di una farfalla.
La farfalla vola con la sua quotidiana leggerezza sulle miserie umane, sulle contraddizioni e sull’assurdità di talune posizioni e imposizioni. La farfalla canta con la grazia che le riconoscevamo tre decenni fa, arrangia i brani con quel cocktail di pop “flower power” e folk, con le ritmiche acustiche appoggiate ai suoni netti di rullante, i fiati accennati e un pianoforte riesumato dagli anni Sessanta di John B. Sebastian e soci.
La farfalla tornò bruco (o sublimò in qualcosa d’altro, chi può dirlo) nel 1978, dopo aver dato alle stampe “Back to earth”, il primo “non-disco-d’oro” della sua carriera. A quei tempi il mondo lo conosceva come Cat Stevens, londinese cipriota nato Stephanou Georgiou.
La poetica elementarità dei suoi testi (“Father & son” e “Morning has broken” sono da moderno Erodoto), la sua voce confidenziale e viva, segni peculiari di uno dei più grandi cantafavole dei nostri tempi. “Peace train”, “Catch bull at four”, perfino ballatine romantiche come “Sad lisa” o “Lady d’Arbanville”, canzoni indimenticabili. Poi il bruco e il buco di ventotto anni. Stephanou-Cat diventa (e per sempre) Yusuf Islam. In tempi di scelte serene, cerca quella risposta che da sempre aleggiava nei suoi pensieri e pensierini, e la trova nel dio più forte, più sicuro di sé e (a volte) oltranzista. Vi si dedica al punto che per un quarto di secolo non toccherà le corde della chitarra né più quelle dell’anima dei suoi ascoltatori. Mentre “Tea for the tillerman” continua a vendere copie su copie e “Wild world” viene cantata anche dall’ultimo giamaicano di Miami Beach e dal primo panamense di New York (in versione reggaeton, chiaramente), Yusuf insegna inglese in una scuola coranica sulle rive del Tamigi e il figlio suona al posto suo la chitarra.
Poi qualcosa accade. Le ali riprendono a sbattere una mattina, il tempo di un paio di interviste, di virgolettati riportati con la solita approssimazione da certa stampa. La voglia di dire la propria con il mezzo caro un tempo, quello migliore: la musica.
Ecco spiegato “An other cup”, un’altra tazza per noi boscaioli dell’anima, tagliatori di testi e accatastatori di musiche in mp3. Tempi strani, cinici, barbari in cui l’odio non è più nemmeno un effetto collaterale dell’amore. E il tempo (che per una farfalla che ha scelto l’eternità è un concetto davvero astratto) sembra essersi fermato sulle note di “Where do the children play”. Ecco Yusuf- Farfalla nel parco con i bambini nel pomeriggio (l’iniziale “Midday”) che evita la città dopo il buio e fa partire i fiati sui tappeti di chitarre del fido Alun Parker come fanali d’auto nella sera, ecco il seguace del profeta che evita le facili profezie e sceglie sentieri battuti negli anni addietro quando s’inventava altri mondi dentro di sé, per non dover ammettere che fuori c’è n’è sempre inesorabilmente uno solo (“Maybe there’s a world”, “Heaven”). Diavolo, anzi angelo d’una farfalla, sono brividi veri sulla cover di “Don’t let me be misunderstood” di Nina Simone. Classe che riaffiora come tesoro nascosto, parole celeberrime per fare arrivare un concetto chiaro: “non fraintendetemi, sono uno dalle buone intenzioni”. Una pietra sopra alla Fatwa su Salman Rushdie?
Ci sono tutti i suoni e i colori del tempo immobile, la voce anche è quella di allora, nessun segno d’invecchiamento da quando paragonava Buddha a una scatola di cioccolatini. Ci sono le splendide ingenuità di un pacifista che si è bendato gli occhi per troppo orrore e ora vede una luce che è la stessa di sempre ma quasi la scopre nuova. “Greenfields and golden sands” è un quasi inedito datato 1969 e sembra coevo della bellissima “One day at a time” e i nostri giorni appaiono soltanto con i vocalizzi di Youssou Ndour in “The beloved”, dove un vago sapore arabo non distoglie dal volo della farfalla. Se i tempi che viviamo vi piacciono, “An other cup” è un disco anacronistico, facile, ingenuo o fors’anche paraculo. Altrimenti è un piccolo raro capolavoro che profuma d’eternità e “Heaven” è la canzone da portarsi dietro per i momenti di sconforto da qui alla mortalità.
In un tempo di graduatorie, di amici e/o nemici si può sempre decidere con chi stare. Ma a una meravigliosa farfalla in volo verso un paradiso sognato così a lungo, cosa volete che importi?

Alfredo del Curatolo

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