venerdì 7 novembre 2008

NONNO KAZUNGU E LA RECESSIONE

"Nonno, cosa vuol dire – recessione - ?"
La voce di Kitsao non era petulante come quando esigeva che gli fosse restituita la calcolatrice, con cui nonno Kazungu litigava da due ore per fare i conti di quanto gli avevano fregato alla Habib Bank, e nemmeno melliflua e suadente come quando implorava di poter rileggere ad alta voce la lezione di storia.
Era una voce carica di curiosità del mondo, di smania di diventare adulto per capirci qualcosa di più. Nonostante al Safari Bar il ritornello fosse sempre che non c'è niente da capire, che "non c'è un perche", il piccolo Kitsao era convinto che il suo piglio era quello giusto per poter diventare, da grande, un capopopolo a Kakoneni.
Primeggiare a scuola, la fame di conoscenza, le materie da studiare a memoria, gli approfondimenti, l'italiano e i suoi dialetti studiati da autodidatta, grazie al dizionario bergamasco-swahili regalato da una delle fidanzate del cugino Kadenge Davide: a sette anni gli appariva chiaro il perché di quella scelta di vita. Sarebbe diventato un misto tra il nonno, il prete e Lawrence Kamongo, il ricco rappresentante di telefonini, che si stava costruendo la casa di cemento.
Non se lo sapeva spiegare ancora, ma ne era certo: la sua generazione avrebbe avuto bisogno di una sola figura di "leader", che rappresentasse contemporaneamente il potere politico, il potere spirituale e quello economico.
Nello specchio dei suoi occhiali nuovi, regalati dal cugino Kadenge Davide in persona, una diottria per occhio, ora leggeva il Nation.
Kazungu ormai non si stupiva più, il bimbo era un vero prodigio: più sveglio lui a sette anni di suo figlio Furaha a quaranta.
L'unica cosa che aveva imparato Furaha era suonare la tastiera, una scatolaccia gracchiante con sei tasti mancanti. Il problema è che cantava come un facocero straziato da un Land Rover. Aveva ottenuto il permesso di fare da colonna sonora alle messe del villaggio e da quando anche lui era rimasto senza lavoro non lo fermava più nessuno, se non a colpi di papaia matura, cercando di beccarlo in testa. Era diventato uno dei giochi preferiti dei ragazzi di Kakoneni e il reverendo era contento perché grazie a Furaha molti giovani partecipavano alla funzione, ricevendo la comunione e aspettando con entusiasmo la fine.
Kitsao insisteva.
"Tu non lo sai cosa vuol dire – recessione – vero nonno?"
Il nonno fece ricorso alla sua memoria, ai quotidiani letti in passato a Malindi e a tutte le parole imparate dai suoi datori di lavoro. D'altronde era la memoria che ne aveva fatto un vecchio saggio.
"Vuol dire che il mondo ha speso troppi soldi e adesso sta tornando indietro"
"Quindi ne spenderemo sempre meno anche noi?"
"No, non credo. Non capisco molto di queste cose, ma penso che ormai sia un processo inarrestabile. Anzi dovremo spenderne di più, anche se non li abbiamo"
"E allora cosa vuol dire – tornare indietro-?"
"Vuol dire – andare avanti –, secondo me. Come quando tuo zio Kalume dice –vado a lavorare – e s'infila nella sua capanna…"
Kitsao accettò la risposta, sorrise e abbandonò il Nation.
Va bene la serietà, d'accordo l'arrivismo e le strategie di conquista in embrione, ma un vero "giriama" vive alla giornata e approfitta del tempo libero per giocare.
Lasciò gli occhiali a nonna Conjestina e intuì in pochi secondi che in campo c'èra un grosso vuoto sulla fascia destra.
"Pallaaaaaaa!"
Il nonno rimase a guardare, sul suo dondolo artigianale, di corda e legno, appeso a un ramo instabile come la sua salute. Aveva visto la costa keniota trasformarsi così velocemente che non poteva immaginare un'altra evoluzione che non accadesse con la stessa velocità della parola.
"Pensi a una cosa, ed è stata già creata"
"Crei una cosa e ti è stata già rubata" confermò Conjestina, osservando la scimmia fuggire con un chapati in bocca.
Un po' per rimanere in tema, un po' per pensare a qualcosa che fosse stato creato prima ancora che lui nascesse, nonno Kazungu pensò a una coca cola e si diresse verso il Safari Bar.
Kibebe lo scemo era avvinghiato al solito baobab, vestito solo di un gonnellino di palma e se lo baciava come fosse una fidanzata.
"Recessione!" gli urlò il nonno, come per destarlo dall'incantesimo d'amore.
"Re Leone!" rispose Kibebe, abbandonando per un attimo le moine al baobab che sembrò ringraziare, cambiando impercettibilmente la sua ombra.
"Inguaribile innamorato…" commentò Kazungu.
"Vecchio frocio!" ribattè Kibebe.

Il Safari Bar era vuoto.
Tutti a lavorare e il gestore Kibonge a spolverare le bottiglie di guinness.
"Hai letto il Nation? L'America è sull'orlo della crisi!"
"E a noi che ce ne viene? Noi la crisi ce l'abbiamo da sempre…"
"Ma che dici? Da noi la recessione non è possibile…"
Il barista accettò quella parola, benché fosse dura da mandare giù come quei pastiglioni per la malaria che ti rimangono di traverso in gola, a meno che tu non li mandi giù con il Three Barrels Brandy, che le scioglie all'istante.
"…sono vent'anni che mangio a pranzo e cena allo stesso prezzo"
"Ci credo – sbottò Kibonge – prima mangiavi gratis dal tuo padrone a Malindi e ora mangi le cose del tuo orto!"
"Forse se tornassimo a mangiare tutti le cose del nostro orto…del nostro shamba"
"Il più è farsi uno shamba…in centro a Nairobi, per esempio"
"Eh già, al posto dei campi ci hanno costruito le fabbriche di automobili, di scarpe, di telefonini…"
"Non si può mica telefonare a piedi nudi…" disse Furaha, facendo il suo ingresso nel bar.
No, la recessione non poteva colpire l'Africa, non se la meritava. Era come diventare poveri senza mai essere stati ricchi.
Una presa per i fondelli.
"Due coche cole" ordinò Kazungu, per sé e per il figlio.
"Brindiamo alla speranza che passi la recessione ne mondo…non vorrei che si spostassero tutti da queste parti, per potersi fare lo shamba!" concluse Kibonge.

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