giovedì 18 dicembre 2014
martedì 2 dicembre 2014
KENYA: QUEST'ANNO SPERIAMO NEI TURISTI "LAST MINUTE"
I residenti se la godono.
A cena con i ristoratori di Malindi o nella piscina degli hotelier di Watamu esprimono solidarietà di comodo, fingono di preoccuparsi per la situazione ed elargiscono gratuite pacche sulla spalla: “vedrai, il Kenya si riprenderà”, ma sotto sotto, almeno per una stagione, sperano rimanga tutto com’è.
Eh, già, perché effettivamente la costa keniota non è mai stata bella e possibile come in questo periodo: pulita, tranquilla, un paradiso di relax e serenità.
Spiagge prive di beach boys che ti vendano indifferentemente safari, collanine, statuette o bilocali con cucina abitabile, pub senza studentesse di Nairobi in occasionale gita di piacere che ti saltino addosso promettendoti una lezione di anatomia africana, escursioni marine che al confronto Robinson Crusoe era un mondano, safari nello Tsavo dove sono i leoni e i leopardi ad accorrere quando vedono una macchina, spaventati da tanta quiete: “non si vede più un bianco…starà mica arrivando la fine del mondo?”.
Niente code in banca, supermercati che ti accolgono come fossi il milionesimo cliente, ricoprendoti di coccole, anacardi e tomato ketchup.
Gli indiani ti invitano a cena, gli arabi ti augurano buon Natale, gli inglesi ti salutano, i bambini giriama ti offrono le caramelle. Una pacchia.
Fatto sta che a Malindi e Watamu, e mettiamoci anche Mambrui, non siamo mai stati meglio. Basta non pensare ai soldi, agli investimenti, al Tg5, ai blog criminali.
Potrebbe essere quel naturale attimo di euforia prima del tracollo, o anche la rassegnazione che si trasforma in ironia, ma c’è un nonsoché di positività nell’aria che profuma di gelsomino e frangipani.
La verità è che a noi italiani di Malindi il turismo di massa non è mai piaciuto, avremmo preferito avere nei nostri ristoranti, nelle boutique e nelle camere d’albergo solamente miliardari con signora, giovani rampolli e belle gnocche, uomini d’affari colti e intelligenti con cui conversare e al limite qualche pollo arricchito da spennare con giudizio e col sorriso equatoriale.
Però dei vacanzieri usa e getta, dei turisti da una botta e via, la costa attuale non può fare a meno. Non ci sono charter?
Li convinciamo ad usare le linee aeree su Mombasa (“sapessi com’è suggestivo lo scalo al Kilimanjaro!”), a sobbarcarsi ore di transiti aeroportuali per arrivare a Malindi in tre o quattro rate (che culo, passerai sette ore nel Duty Free di Dubai, come vorrei farlo io, è bellissimo!”).
Perché è vero che farsi il bagno da soli a Silversand è una figata galattica, ma se va avanti così i nostri resort dovranno fare i conti, guardare ai bilanci, spegnere le arie condizionate e le pompe delle piscine.
E allora questo è un appello, cari amici italiani che vi apprestate a scegliere una meta per le vacanze invernali.
Lasciate stare i Caraibi, che comunque passate sempre sopra alle Bermudas, che gli uragani non avvertono mica quando decidono di arrivare, che a Santo Domingo non c’è l’ebola ma l’obolo, perché è sempre più pieno di poveracci per le strade, che in Giamaica si sono fumati il cervello e a Cuba prima o poi Fidel si risveglia dall’imbalsamazione e proclama uno stato leninista e vi blocca lì a fare gli operai.
Tornate in Kenya, che vi accoglierà come ha sempre fatto nella sua storia, non a mani aperte, ma a chiap…insomma, aprirà per voi tutto quel che è possibile spalancare.
E se non avete soldi, non c’è problema! Potete pagare a rate e per voi un piatto di polenta e sukuma wiki (venite qui, poi vi spieghiamo cos’è) ci sarà sempre.
Se poi toglieranno i charter, hakuna matata!
Ci sono dei bei barconi da rimettere a nuovo a Lampedusa, potete usare quelli. Avrete senza dubbio qualcosa da raccontare agli amici, invece di leggere le palle che s’inventano sulle disgrazie di questo Paese.
Karibu fratelli, vi aspettiamo in uno dei luoghi più incantevoli del pianeta, che senza di voi è ancora più bello e tranquillo, ma che se venite qui a trovarci, ma sì dai, sarà molto più divertente!
A cena con i ristoratori di Malindi o nella piscina degli hotelier di Watamu esprimono solidarietà di comodo, fingono di preoccuparsi per la situazione ed elargiscono gratuite pacche sulla spalla: “vedrai, il Kenya si riprenderà”, ma sotto sotto, almeno per una stagione, sperano rimanga tutto com’è.
Eh, già, perché effettivamente la costa keniota non è mai stata bella e possibile come in questo periodo: pulita, tranquilla, un paradiso di relax e serenità.
Spiagge prive di beach boys che ti vendano indifferentemente safari, collanine, statuette o bilocali con cucina abitabile, pub senza studentesse di Nairobi in occasionale gita di piacere che ti saltino addosso promettendoti una lezione di anatomia africana, escursioni marine che al confronto Robinson Crusoe era un mondano, safari nello Tsavo dove sono i leoni e i leopardi ad accorrere quando vedono una macchina, spaventati da tanta quiete: “non si vede più un bianco…starà mica arrivando la fine del mondo?”.
Niente code in banca, supermercati che ti accolgono come fossi il milionesimo cliente, ricoprendoti di coccole, anacardi e tomato ketchup.
Gli indiani ti invitano a cena, gli arabi ti augurano buon Natale, gli inglesi ti salutano, i bambini giriama ti offrono le caramelle. Una pacchia.
Fatto sta che a Malindi e Watamu, e mettiamoci anche Mambrui, non siamo mai stati meglio. Basta non pensare ai soldi, agli investimenti, al Tg5, ai blog criminali.
Potrebbe essere quel naturale attimo di euforia prima del tracollo, o anche la rassegnazione che si trasforma in ironia, ma c’è un nonsoché di positività nell’aria che profuma di gelsomino e frangipani.
La verità è che a noi italiani di Malindi il turismo di massa non è mai piaciuto, avremmo preferito avere nei nostri ristoranti, nelle boutique e nelle camere d’albergo solamente miliardari con signora, giovani rampolli e belle gnocche, uomini d’affari colti e intelligenti con cui conversare e al limite qualche pollo arricchito da spennare con giudizio e col sorriso equatoriale.
Però dei vacanzieri usa e getta, dei turisti da una botta e via, la costa attuale non può fare a meno. Non ci sono charter?
Li convinciamo ad usare le linee aeree su Mombasa (“sapessi com’è suggestivo lo scalo al Kilimanjaro!”), a sobbarcarsi ore di transiti aeroportuali per arrivare a Malindi in tre o quattro rate (che culo, passerai sette ore nel Duty Free di Dubai, come vorrei farlo io, è bellissimo!”).
Perché è vero che farsi il bagno da soli a Silversand è una figata galattica, ma se va avanti così i nostri resort dovranno fare i conti, guardare ai bilanci, spegnere le arie condizionate e le pompe delle piscine.
E allora questo è un appello, cari amici italiani che vi apprestate a scegliere una meta per le vacanze invernali.
Lasciate stare i Caraibi, che comunque passate sempre sopra alle Bermudas, che gli uragani non avvertono mica quando decidono di arrivare, che a Santo Domingo non c’è l’ebola ma l’obolo, perché è sempre più pieno di poveracci per le strade, che in Giamaica si sono fumati il cervello e a Cuba prima o poi Fidel si risveglia dall’imbalsamazione e proclama uno stato leninista e vi blocca lì a fare gli operai.
Tornate in Kenya, che vi accoglierà come ha sempre fatto nella sua storia, non a mani aperte, ma a chiap…insomma, aprirà per voi tutto quel che è possibile spalancare.
E se non avete soldi, non c’è problema! Potete pagare a rate e per voi un piatto di polenta e sukuma wiki (venite qui, poi vi spieghiamo cos’è) ci sarà sempre.
Se poi toglieranno i charter, hakuna matata!
Ci sono dei bei barconi da rimettere a nuovo a Lampedusa, potete usare quelli. Avrete senza dubbio qualcosa da raccontare agli amici, invece di leggere le palle che s’inventano sulle disgrazie di questo Paese.
Karibu fratelli, vi aspettiamo in uno dei luoghi più incantevoli del pianeta, che senza di voi è ancora più bello e tranquillo, ma che se venite qui a trovarci, ma sì dai, sarà molto più divertente!
martedì 25 novembre 2014
LA PENNA DI THOMAS MANN
Ed ecco apparire, dal nulla piacevole dell’inaspettato, una
bellezza conturbante del tutto simile a Sara. Aveva lunghi e soffici boccoli
neri, due occhi così grandi e chiari che ci si scorgeva il golfo di Surriento
dall’alto di un elicottero, il seno timido e i fianchi generosi, gambe sottili
e affusolate e una voce… incredibile, aveva una voce tutta sua!
“Non avrebbe una penna da prestarmi?” gli sussurrò.
Un po’ sconcertato per il
lei, estrasse immediatamente
una biro argentata e la porse emozionato e ossequioso fino al ridicolo.
Lei compilò un modulo, lui rimase al suo fianco quasi
indiscreto, in contemplazione. Appena ebbe finito, voltandosi, se lo ritrovò a
non più di venti centimetri, preso da improvvisa lalofobia.
Raccolse i pensieri e quel briciolo di dignità rimasta e
filastroccò impostando la voce: “Mi…mi ha colto la fervida angoscia che avverte
l’uomo sensibile quando scorge un simbolo della bellezza eterna”
Lei abbozzò un sorriso di maniera e lo squadrò stranita,
con la biro in mano.
“Non è mia… è di Thomas Mann” precisò, per evitare la
propagazione del silenzio.
“Lo ringrazi da parte mia” gli disse, restituendogli la
penna.
La vide allontanarsi con lo zampettio di un fenicottero.
Ad essere sinceri era vestita da provincialotta in gita
nella metropoli e aveva il culo grosso.
(da "La Schedina di Gaetano")
domenica 16 novembre 2014
DA MESCALINA.IT (recensione di Laura Bianchi)
Due amici, gli anni dell’adolescenza, un calciatore entrato nel mito, commedia, tragedia, atmosfere agrodolci, battute fulminanti, e, in sottofondo, molta musica.
Nel suo ultimo romanzo, La schedina di Gaetano, Alfredo Del Curatolo, alias Freddie, a due anni da Safari bar, convincente esordio da romanziere dopo decenni a scrivere di tutto, da canzoni a saggi musicali, fino a vademecum per turisti in Kenya, sua patria di adozione, dove vive da quasi dieci anni, affronta un capitolo importante della vita, sua e di molti lettori: quegli anni Ottanta del Novecento, ormai lontani nella memoria, ma così importanti per leggere cosa sia l’Italia e come sia cambiata in trent’anni.
Per un personaggio come Freddie, esuberante, irrequieto, eclettico e appassionato, forever young, deve essere stato difficile, inizialmente, prendere le distanze dal modo di pensare tipico dei giovani, per poi assimilarlo e trasferirlo sulle pagine di un racconto che si incentra sulla nascita e sull’evoluzione del rapporto di amicizia fra due ragazzini, che diventano adulti in un’Italia sideralmente diversa da quella attuale. Il risultato, però, è convincente; Freddie dà voce ai propri ricordi, ma alternandone le voci, attraverso le personalità e le storie dei due amici, e senza incappare nel rischio del ritratto oleografico e nostalgico del “com’era bello ai miei tempi”, grazie ad una prosa tesa, asciutta, incisiva, che illumina del sole dei giorni felici (come ad un certo punto viene definito il passato) le vicende dei protagonisti, ma insieme offre una prospettiva disincantata e lucida.
Le passioni dell’autore sono quelle dei ragazzi: il calcio (Eugenio è fervente genoano come l’autore, Sandro tifa Bologna), la musica (in calce al romanzo c’è un interessantissimo elenco di brani, a mo’ di colonna sonora, per un libro che contiene scene da grande cinema), l’amore (Sandro cerca l’affetto familiare che gli manca in una serie di conquiste, Eugenio intreccia la sua prima volta con i campionati di calcio in Spagna, quelli vinti dall’Italia), le ideologie (Eugenio pensa di impegnarsi politicamente, ma i tempi stavano per cambiare… si era persa la magia del trovarsi tutti insieme), la ricerca di autenticità nell’esistenza (che porta i ragazzi a compiere esperienze estreme, raccontate con incisiva drammaticità).
Ad animare le passioni pensa l’autore, con un intreccio in bilico fra realtà e immaginazione, paradosso e verità, in cui Freddie gusta il piacere di vedere i suoi personaggi gioire per fortune inaspettate (memorabile la sequenza in cui Eugenio realizza il sogno di tutti noi: fare acquisti illimitati in un negozio di dischi…), accendersi di amore per l’icona calcistica di quei tempi, Gaetano Scirea, piangerne la morte, sperimentare dolori, felicità, ansie, vittorie, sconfitte, fino ad un finale sorprendente.
Il libro si legge d’un fiato, seguendo con trepidazione gli alti e bassi delle esistenze dei protagonisti, in cui palpita, in controluce, un’Italia tanto riconoscibile quanto ormai perduta; e si chiude con un po’ di amarezza, e molte riflessioni, mentre Jimmy Villotti suona sui titoli di coda di un film-romanzo che non si fa dimenticare.
Nel suo ultimo romanzo, La schedina di Gaetano, Alfredo Del Curatolo, alias Freddie, a due anni da Safari bar, convincente esordio da romanziere dopo decenni a scrivere di tutto, da canzoni a saggi musicali, fino a vademecum per turisti in Kenya, sua patria di adozione, dove vive da quasi dieci anni, affronta un capitolo importante della vita, sua e di molti lettori: quegli anni Ottanta del Novecento, ormai lontani nella memoria, ma così importanti per leggere cosa sia l’Italia e come sia cambiata in trent’anni.
Per un personaggio come Freddie, esuberante, irrequieto, eclettico e appassionato, forever young, deve essere stato difficile, inizialmente, prendere le distanze dal modo di pensare tipico dei giovani, per poi assimilarlo e trasferirlo sulle pagine di un racconto che si incentra sulla nascita e sull’evoluzione del rapporto di amicizia fra due ragazzini, che diventano adulti in un’Italia sideralmente diversa da quella attuale. Il risultato, però, è convincente; Freddie dà voce ai propri ricordi, ma alternandone le voci, attraverso le personalità e le storie dei due amici, e senza incappare nel rischio del ritratto oleografico e nostalgico del “com’era bello ai miei tempi”, grazie ad una prosa tesa, asciutta, incisiva, che illumina del sole dei giorni felici (come ad un certo punto viene definito il passato) le vicende dei protagonisti, ma insieme offre una prospettiva disincantata e lucida.
Le passioni dell’autore sono quelle dei ragazzi: il calcio (Eugenio è fervente genoano come l’autore, Sandro tifa Bologna), la musica (in calce al romanzo c’è un interessantissimo elenco di brani, a mo’ di colonna sonora, per un libro che contiene scene da grande cinema), l’amore (Sandro cerca l’affetto familiare che gli manca in una serie di conquiste, Eugenio intreccia la sua prima volta con i campionati di calcio in Spagna, quelli vinti dall’Italia), le ideologie (Eugenio pensa di impegnarsi politicamente, ma i tempi stavano per cambiare… si era persa la magia del trovarsi tutti insieme), la ricerca di autenticità nell’esistenza (che porta i ragazzi a compiere esperienze estreme, raccontate con incisiva drammaticità).
Ad animare le passioni pensa l’autore, con un intreccio in bilico fra realtà e immaginazione, paradosso e verità, in cui Freddie gusta il piacere di vedere i suoi personaggi gioire per fortune inaspettate (memorabile la sequenza in cui Eugenio realizza il sogno di tutti noi: fare acquisti illimitati in un negozio di dischi…), accendersi di amore per l’icona calcistica di quei tempi, Gaetano Scirea, piangerne la morte, sperimentare dolori, felicità, ansie, vittorie, sconfitte, fino ad un finale sorprendente.
Il libro si legge d’un fiato, seguendo con trepidazione gli alti e bassi delle esistenze dei protagonisti, in cui palpita, in controluce, un’Italia tanto riconoscibile quanto ormai perduta; e si chiude con un po’ di amarezza, e molte riflessioni, mentre Jimmy Villotti suona sui titoli di coda di un film-romanzo che non si fa dimenticare.
venerdì 7 novembre 2014
martedì 4 novembre 2014
SPLENDIDO, SPORCO IMMACOLATO GENIO EDDA
Raramente mi scompongo e mi esalto per un artista italiano.
L'ultimo credo fosse Bobo Rondelli.
Ma Edda è assolutamente fuori categoria: oltre ogni canone.
La sua voce, le sue storie, la musica e gli arrangiamenti, le melodie su cui si muove, la sua fisicità, le movenze. E soprattutto la sua originalità e la sua vita vera: sporco e immacolato, sensibile e strafottente, mistico e bukowskiano.
Il più grande personaggio della musica nostrana che c'è attualmente in giro.
Geniale, umano, straordinario.
L'ultimo credo fosse Bobo Rondelli.
Ma Edda è assolutamente fuori categoria: oltre ogni canone.
La sua voce, le sue storie, la musica e gli arrangiamenti, le melodie su cui si muove, la sua fisicità, le movenze. E soprattutto la sua originalità e la sua vita vera: sporco e immacolato, sensibile e strafottente, mistico e bukowskiano.
Il più grande personaggio della musica nostrana che c'è attualmente in giro.
Geniale, umano, straordinario.
venerdì 31 ottobre 2014
NON SAREBBE MALINDI
Non sarebbe Malindi se non ci fosse il sole
che fa capolino anche quando non vuole
sorridendo dietro nuvole basse e scure
che fa piovere sognando nuove arsure
Non sarebbe Malindi se non ci fosse il mare
il grande oceano che tutto può portare
pesce, alghe, argilla, novità e sventure
una rapsodia in blu con mille sfumature
Non sarebbe Malindi se non ci fosse il cielo
che lo respiri denso e t’avvolge come un velo
ti fa sentire come al centro di un dipinto
ti dice che sei vivo se non ne sei convinto
Non sarebbe Malindi se non ci fosse la natura
i fertili terreni, la frutta e la verdura
le bugainville cangianti e i fiori profumati
i baobab secolari nei campi coltivati
Non sarebbe Malindi se non ci fossero i bambini
tra la polvere, l’erba e il fango dei loro destini
con le pupille rapite da sogni ancora puri
a ridere e giocare all’ombra dei tuguri
Non sarebbe Malindi se non ci fossero i vecchi
coperti dai kikoy , con gli occhi come specchi
schiena dritta, rughe vive e volto stanco
la miseria li precede, la dignità al loro fianco
Non sarebbe Malindi se non ci fossero le donne
madri a quindici anni, inconsapevoli madonne
tra rassegnazione, sogni ed occasioni perse
sperando che uno straniero le consideri diverse
Non sarebbe Malindi se non ci fossero gli odori
gli scarichi degli autobus, le ascelle ed i sudori
il pesce da essiccare, la frutta marcescente
le griglie accese in strada, le spezie dall’oriente
Non sarebbe Malindi senza gli italiani
esuli, turisti, dal cuore d’oro o gran ruffiani
Chi ha scelto questo posto per vivere davvero
chi è rimasto perché in fondo in fondo è nero
Non sarebbe più Malindi, o forse lo sarebbe ancora
In Africa non cambia nulla o tutto muore in un’ora
Chissà cosa sarà di questa terra che non sia già stato
Speriamo sappia di pace, di natura e amore amato.
che fa capolino anche quando non vuole
sorridendo dietro nuvole basse e scure
che fa piovere sognando nuove arsure
Non sarebbe Malindi se non ci fosse il mare
il grande oceano che tutto può portare
pesce, alghe, argilla, novità e sventure
una rapsodia in blu con mille sfumature
Non sarebbe Malindi se non ci fosse il cielo
che lo respiri denso e t’avvolge come un velo
ti fa sentire come al centro di un dipinto
ti dice che sei vivo se non ne sei convinto
Non sarebbe Malindi se non ci fosse la natura
i fertili terreni, la frutta e la verdura
le bugainville cangianti e i fiori profumati
i baobab secolari nei campi coltivati
Non sarebbe Malindi se non ci fossero i bambini
tra la polvere, l’erba e il fango dei loro destini
con le pupille rapite da sogni ancora puri
a ridere e giocare all’ombra dei tuguri
Non sarebbe Malindi se non ci fossero i vecchi
coperti dai kikoy , con gli occhi come specchi
schiena dritta, rughe vive e volto stanco
la miseria li precede, la dignità al loro fianco
Non sarebbe Malindi se non ci fossero le donne
madri a quindici anni, inconsapevoli madonne
tra rassegnazione, sogni ed occasioni perse
sperando che uno straniero le consideri diverse
Non sarebbe Malindi se non ci fossero gli odori
gli scarichi degli autobus, le ascelle ed i sudori
il pesce da essiccare, la frutta marcescente
le griglie accese in strada, le spezie dall’oriente
Non sarebbe Malindi senza gli italiani
esuli, turisti, dal cuore d’oro o gran ruffiani
Chi ha scelto questo posto per vivere davvero
chi è rimasto perché in fondo in fondo è nero
Non sarebbe più Malindi, o forse lo sarebbe ancora
In Africa non cambia nulla o tutto muore in un’ora
Chissà cosa sarà di questa terra che non sia già stato
Speriamo sappia di pace, di natura e amore amato.
giovedì 30 ottobre 2014
GENOA-JUVENTUS 1-0 (94' Antonini)
Uno di quei godimenti che capitano poche volte nella vita.
E' Davide che prende a calci Golia e gli chiede che fa stasera sua sorella, il Pellerossa solitario che tende la trappola a un intero drappello di yankee, la gazzella che si sdraia sul leone morto d'infarto nell'inseguirla.
E' il mondo all'incontrario, che va come dovrebbe andare ma non sempre, l'anarchia che si fotte l'ordine precostituito, Joe Strummer che canta "I fought the law", Wil Coyote che strapazza Beep Beep, Mike Tyson che va al tappeto contro James Douglas, la pecora che soffoca il lupo con la sua lana, Abebe Bikila a piedi scalzi. E' il fantastico gioco del calcio, che per quanto specchio del Vecchio Continente stanco, corrotto e nauseante, regala ancora la gioia dell'inatteso, del sognato. Forza Genoa!
E' Davide che prende a calci Golia e gli chiede che fa stasera sua sorella, il Pellerossa solitario che tende la trappola a un intero drappello di yankee, la gazzella che si sdraia sul leone morto d'infarto nell'inseguirla.
E' il mondo all'incontrario, che va come dovrebbe andare ma non sempre, l'anarchia che si fotte l'ordine precostituito, Joe Strummer che canta "I fought the law", Wil Coyote che strapazza Beep Beep, Mike Tyson che va al tappeto contro James Douglas, la pecora che soffoca il lupo con la sua lana, Abebe Bikila a piedi scalzi. E' il fantastico gioco del calcio, che per quanto specchio del Vecchio Continente stanco, corrotto e nauseante, regala ancora la gioia dell'inatteso, del sognato. Forza Genoa!
sabato 25 ottobre 2014
ADDIO JACK BRUCE, LEGGENDA DEL ROCK BLUES
Se n'è andato Jack. Uno dei più grandi bassisti rock blues di sempre (non solo per i Cream, i Bluesbreakers o i dischi solisti, ascoltarlo in "Apostrophe" di Zappa, ad esempio). Dotato di una voce versatile e originale (il meglio nel suo primo album solista e in "Disraeli Gears" dei Cream), autore intelligente di brani che hanno influenzato il rock e anche il pop di un'intera generazione. E' sua una delle mie canzoni preferite in assoluto: "White Room". Mi farai godere ancora tanto, ascoltandoti.
So dove sarai adesso, gran bevitore scozzese: in una camera bianca, con le tende nere, vicino alla stazione.
So dove sarai adesso, gran bevitore scozzese: in una camera bianca, con le tende nere, vicino alla stazione.
mercoledì 22 ottobre 2014
DEL CURATOLO E L'AMICIZIA: "VIVERE ERA UNA SCHEDINA" (da La Provincia)
Amicizia, cibo e Totocalcio. Può un romanzo fallire partendo da questi ingredienti?
Forse, a patto che l'autore tratti di queste cose attraverso una conoscenza teorica, indiretta, filosofica; e accordata su una nota nostalgica troppo ammiccante. Pericoli che non corre Freddie del Curatolo il quale, nel consegnarci il suo nuovo romanzo "La schedina di Gaetano" (Liberodiscrivere, 247 pagine 15 euro) mette a frutto una vita da giramondo sensoriale. Del Curatolo è stato (è) giornalista, è stato (ed è) musicista, è stato (e più che mai è) scrittore. E' stato (ed è ancora) persino gastronomo: l'invito è a cercare nel libro la pagina in cui egli stesso, per bocca di uno dei suoi personaggi, prende le distanze dagli chef per ribadire un amore più appassionato e "freelance" verso i fornelli.
Esperienze, prove, godimenti e nostalgie. Questa la materia prima del romanzo. Cotta alla luce rovente di un mito, quello del calcio. La storia, della quale comunque meglio non rivelare troppo, segue le vicende parallele e a tratti tangenti, di due grandi amici - Eugenio e Sandro - uniti da molte affinità elettive, a cominciare da quella cromatica; amano entrambi il rosso e il blu, solo che per uno l'accostamento corrisponde al Genoa e per l'altro al Bologna. Poco importa, ci sono più elementi in comune che differenze tra queste squadre, e quel che conta è che sia condiviso un sentimento particolare, quasi una visione, nei confronti del calcio: materia popolare, mito, epopea di eroi da scoprire.
Eugenio e Sandro, insieme, diventano i Jerry Lewis-Den Martin della schedina, i Lennon-McCartney del'1X2. La coppia perfetta. Anche perché contano su un angelo-mentore infallibile: Gaetano Scirea. Proprio lui, la leggenda della Juve, il campione del mondo 1982, il giocatore più corretto di sempre (mai espulso).
La presenza - letterale - di Scirea nel romanzo colloca la storia nel tempo: tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Non poteva essere altrimenti, il rito di compilare la schedina - tra ispirazione, preveggenza, sapienza, istinto e comunione spirituale con la breriana Dea Eupalla, ci rimanda a tempi quando il gioco, pure legato alla fortuna, imponeva una partecipazione umana e sentimentale: non bastava grattare per vincere, e neppure era sufficiente pigiare bottoni di una slot machine digitale.
Attraverso il vieppiù tradito paese del "miracolo italiano", Del Curatolo conduce i suoi personaggi a un finale che lascia a bocca aperta. Per saperne di più, leggere il libro...
(Mario Schiani)
Forse, a patto che l'autore tratti di queste cose attraverso una conoscenza teorica, indiretta, filosofica; e accordata su una nota nostalgica troppo ammiccante. Pericoli che non corre Freddie del Curatolo il quale, nel consegnarci il suo nuovo romanzo "La schedina di Gaetano" (Liberodiscrivere, 247 pagine 15 euro) mette a frutto una vita da giramondo sensoriale. Del Curatolo è stato (è) giornalista, è stato (ed è) musicista, è stato (e più che mai è) scrittore. E' stato (ed è ancora) persino gastronomo: l'invito è a cercare nel libro la pagina in cui egli stesso, per bocca di uno dei suoi personaggi, prende le distanze dagli chef per ribadire un amore più appassionato e "freelance" verso i fornelli.
Esperienze, prove, godimenti e nostalgie. Questa la materia prima del romanzo. Cotta alla luce rovente di un mito, quello del calcio. La storia, della quale comunque meglio non rivelare troppo, segue le vicende parallele e a tratti tangenti, di due grandi amici - Eugenio e Sandro - uniti da molte affinità elettive, a cominciare da quella cromatica; amano entrambi il rosso e il blu, solo che per uno l'accostamento corrisponde al Genoa e per l'altro al Bologna. Poco importa, ci sono più elementi in comune che differenze tra queste squadre, e quel che conta è che sia condiviso un sentimento particolare, quasi una visione, nei confronti del calcio: materia popolare, mito, epopea di eroi da scoprire.
Eugenio e Sandro, insieme, diventano i Jerry Lewis-Den Martin della schedina, i Lennon-McCartney del'1X2. La coppia perfetta. Anche perché contano su un angelo-mentore infallibile: Gaetano Scirea. Proprio lui, la leggenda della Juve, il campione del mondo 1982, il giocatore più corretto di sempre (mai espulso).
La presenza - letterale - di Scirea nel romanzo colloca la storia nel tempo: tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Non poteva essere altrimenti, il rito di compilare la schedina - tra ispirazione, preveggenza, sapienza, istinto e comunione spirituale con la breriana Dea Eupalla, ci rimanda a tempi quando il gioco, pure legato alla fortuna, imponeva una partecipazione umana e sentimentale: non bastava grattare per vincere, e neppure era sufficiente pigiare bottoni di una slot machine digitale.
Attraverso il vieppiù tradito paese del "miracolo italiano", Del Curatolo conduce i suoi personaggi a un finale che lascia a bocca aperta. Per saperne di più, leggere il libro...
(Mario Schiani)
giovedì 16 ottobre 2014
FREDDIE GIOCA LA SCHEDINA DI GAETANO (da Qtime)
È andato lontano Alfredo del Curatolo, in arte Freddie, cantautore, giornalista e scrittore che nel 2005 ha deciso di lasciare il nostro Paese per volare a Malindi. Necessità e un pezzo di cuore l’hanno riportato in Africa a vivere un’altra esperienza incredibile, sia dal punto di vista umano sia da quello professionale. Nel suo caso, per dirla con Stefano Barotti, è davvero difficile capire quanto dista l’uomo dall’artista. Un vulcano sempre attivo, che vive la vita con gli stessi caratteri caldi e strabordanti che ne distinguono anche l’opera letteraria.
Il suo ultimo romanzo, “La Schedina di Gaetano”, pubblicato in questi giorni dopo l’ottimo “Safari Bar”, viene presentato venerdì 17 ottobre, alle 18.00 – la superstizione non lo ha contagiato nemmeno in Africa, quella forse la riserva solo per il suo amato Genoa – alla Feltrinelli di Como, dove Freddie dialogherà con Mario Schiani e Maurizio Pratelli. In occasione di questo evento, che riporta Freddie a Como, QTime lo ha intervistato.
Per quanto si fugga in Africa, “La schedina di Gaetano” è un romanzo tutto italiano.In Kenya sono andato nel 2005, quando ancora le cose non giravano così male nel Belpaese. Oggi mi rendo conto che la scelta fatta è giusta anche da quel punto di vista. In Africa si ha più tempo per le passioni: le mie sono scrivere, leggere, ascoltare musica, dirigere una scuola calcio di ragazzi di strada, viaggiare, fare il bagno in mare almeno un giorno sì e un giorno no… devo continuare? Questo romanzo invece era necessario perché racchiude il periodo precedente al mio incontro con il Continente Nero, avvenuto nel 1990.
Forse quell’Italia in cui si immerge il romanzo non c’è più, e nemmeno quel calcio.
Anche senza il forse. Tornando in Italia ogni anno se non ogni due, per poche settimane, ci si rende conto più nitidamente dei cambiamenti. Quel che mi mette più tristezza è il muto, rassegnato adeguarsi delle persone ai tempi cui sono costrette.
Anche senza il forse. Tornando in Italia ogni anno se non ogni due, per poche settimane, ci si rende conto più nitidamente dei cambiamenti. Quel che mi mette più tristezza è il muto, rassegnato adeguarsi delle persone ai tempi cui sono costrette.
Passando dalla radio a Sky cosa ha perso il calcio?
La fantasia, il sogno, l’epica. Una volta ti chiedevi se Benetti fosse così spietato anche nella vita, idealizzavi Facchetti e Zoff come potessero essere tuo padre e avevano solo trent’anni. Oggi sei aggiornato anche sui nei delle natiche delle fidanzate dei campioni. Ma non voglio fare retorica né attaccarmi all’inevitabile nostalgia. Sono cresciuto con il calcio allo stadio o alla radio e attendendo l’una di notte per vedere i gol del Genoa in serie B alla Domenica Sportiva. Ci tornerei domattina, anche senza ringiovanire.
La fantasia, il sogno, l’epica. Una volta ti chiedevi se Benetti fosse così spietato anche nella vita, idealizzavi Facchetti e Zoff come potessero essere tuo padre e avevano solo trent’anni. Oggi sei aggiornato anche sui nei delle natiche delle fidanzate dei campioni. Ma non voglio fare retorica né attaccarmi all’inevitabile nostalgia. Sono cresciuto con il calcio allo stadio o alla radio e attendendo l’una di notte per vedere i gol del Genoa in serie B alla Domenica Sportiva. Ci tornerei domattina, anche senza ringiovanire.
Da quanto tempo non fa più una schedina?
Più o meno da quando siamo infettati da “Gratta e vinci” e scommesse varie. Hanno lottizzato anche la più genuina delle speranze. Preferisco le vecchiette che ancora si giocano al lotto i numeri che hanno sognato, o cercano sul libretto l’equivalente di una nuvola a forma di elefante, il callo sul mignolo del piede o le specifiche del matrimonio di Clooney.
Più o meno da quando siamo infettati da “Gratta e vinci” e scommesse varie. Hanno lottizzato anche la più genuina delle speranze. Preferisco le vecchiette che ancora si giocano al lotto i numeri che hanno sognato, o cercano sul libretto l’equivalente di una nuvola a forma di elefante, il callo sul mignolo del piede o le specifiche del matrimonio di Clooney.
C’è sempre un Gaetano che torna nei tuoi libri, oggi Scirea ieri Rino.
Ci ho pensato. E’ sicuramente un nome che ricorre nella mia vita e legato anche ad un immaginario fatto di genio, umiltà, passione. Oltre al tragico destino che li accomuna. Non dimenticherei nemmeno un mio mito di gioventù, l’anarchico Gaetano Bresci…
Ci ho pensato. E’ sicuramente un nome che ricorre nella mia vita e legato anche ad un immaginario fatto di genio, umiltà, passione. Oltre al tragico destino che li accomuna. Non dimenticherei nemmeno un mio mito di gioventù, l’anarchico Gaetano Bresci…
Anche Genova e il Genoa non mancano mai, ma Como proprio non ti è entrata nel cuore?
Como ha avuto la “sfortuna” di arrivare dopo l’Africa, Genova c’era già prima. Ormai sono un keniota al pesto, come mi ha detto qualcuno in Liguria. Per un uomo d’oceano è difficile abituarsi all’idea di un’acqua chiusa, ma il Lario mi ha insegnato molto, mi ha reso più metodico, attento, scrupoloso. Cose che gli africani proprio non riescono a inserire, anche solo a piccole dosi, nel loro DNA.
Como ha avuto la “sfortuna” di arrivare dopo l’Africa, Genova c’era già prima. Ormai sono un keniota al pesto, come mi ha detto qualcuno in Liguria. Per un uomo d’oceano è difficile abituarsi all’idea di un’acqua chiusa, ma il Lario mi ha insegnato molto, mi ha reso più metodico, attento, scrupoloso. Cose che gli africani proprio non riescono a inserire, anche solo a piccole dosi, nel loro DNA.
L’amicizia è un altro tema ricorrente.La Schedina di Gaetano è un romanzo sull’amicizia e sui rapporti veri. Oggi gli uomini non vogliono più mettere in relazione le loro solitudini. Parlano e s’azzuffano su questioni globali: la politica, le dispute religiose, l’animalismo. Passano ore a chattare in Facebook e non si conoscono. Una volta ci si voleva bene o si litigava quando con genuino altruismo si andava a scavare nel cuore dell’altro, quando amicizia voleva dire anche essere psicologi a vicenda, non solo condividere citazioni o filmati su youtube.
E poi la musica, le canzoni.
Cartine al tornasole dei sentimenti, della voglia di vivere, di evadere, di lasciare che siano i grandi interpreti a parlare di quello che stai provando, quando le parole non sono più necessarie. La musica è parte integrante della mia vita e un romanzo sui sentimenti, sull’amicizia, sul destino, non poteva che avere una sua colonna sonora, proprio come un film.
Cartine al tornasole dei sentimenti, della voglia di vivere, di evadere, di lasciare che siano i grandi interpreti a parlare di quello che stai provando, quando le parole non sono più necessarie. La musica è parte integrante della mia vita e un romanzo sui sentimenti, sull’amicizia, sul destino, non poteva che avere una sua colonna sonora, proprio come un film.
In quella del tuo “film” c’è anche Our House di CSN&Y, la tua casa quale è?
Casa mia è un foglio bianco, la chiave per entrarci è una penna. Tutto intorno è la curiosità. Un giardino immenso che non mi stancherò mai di esplorare.
Casa mia è un foglio bianco, la chiave per entrarci è una penna. Tutto intorno è la curiosità. Un giardino immenso che non mi stancherò mai di esplorare.
A tratti in questo libro mi sei sembrato l’alter ego di Gianluca Morozzi. In fondo siete entrambi rossoblù. Lui tifa per il Bologna, tu per il Genoa. Lui accecato da Springsteen Freddie da chi?In effetti Sandro, uno dei due protagonisti, è un tifoso rossoblu del Bologna. Ma è Eugenio, il genoano, a coltivare la passione per la musica, come Gianluca Morozzi, di cui apprezzo l’ironia e il saper parlare della fede calcistica come qualcosa di profanamente sacro. Ci accomuna la passione per Bob Dylan, ma su Springsteen, che rimane un grande, io ti rispondo: John Mellencamp tutta la vita! Per i testi, la voce e la vera natura contadina dell’America.
Progetti per il futuro?
Ci penso dopo aver cenato e bevuto una buona bottiglia di vino. Ho dei sogni: vorrei pubblicare il secondo album da cantautore dieci anni dopo il mio esordio “Nel regno degli animali” del 2005. I pezzi ci sono. Vorrei registrarlo in Sudafrica, negli studi dove nacque “Graceland” di Paul Simon. D’altronde sono più vicino a casa…
Ci penso dopo aver cenato e bevuto una buona bottiglia di vino. Ho dei sogni: vorrei pubblicare il secondo album da cantautore dieci anni dopo il mio esordio “Nel regno degli animali” del 2005. I pezzi ci sono. Vorrei registrarlo in Sudafrica, negli studi dove nacque “Graceland” di Paul Simon. D’altronde sono più vicino a casa…
martedì 14 ottobre 2014
FREDDIE DEL CURATOLO PRESENTA "LA SCHEDINA DI GAETANO" A RIMINI
Dategli la possibilità di avere un palco e un musicista, ed ogni sua storia diventerà uno spettacolo. Freddie è ancora in Italia per una settimana e dopo aver presentato il suo libro a Milano, giovedì scorso ed essere tornato nel fine settimana a uno dei suoi vecchi amori, la canzone, sul palco tra Marche e Romagna per un tributo al cantautore Rino Gaetano.
Giovedì 16 ottobre sarà accompagnato dal chitarrista e cantante Beppe Ardito, anima della band "Miami and the groovers" in una lettura creativa e musicale del suo romanzo che parla dell'Italia che lui lasciò tanti anni fa e di una storia tra il reale e il fantastico con il mondo del calcio nello sfondo e il senso perduto dell'amicizia in primo piano. Appuntamento al Circolo Milleluci, in via Isotta degli Atti a Rimini, alle ore 21.
Giovedì 16 ottobre sarà accompagnato dal chitarrista e cantante Beppe Ardito, anima della band "Miami and the groovers" in una lettura creativa e musicale del suo romanzo che parla dell'Italia che lui lasciò tanti anni fa e di una storia tra il reale e il fantastico con il mondo del calcio nello sfondo e il senso perduto dell'amicizia in primo piano. Appuntamento al Circolo Milleluci, in via Isotta degli Atti a Rimini, alle ore 21.
giovedì 9 ottobre 2014
DEL CURATOLO A MILANO PER PRESENTARE "LA SCHEDINA DI GAETANO" CON ANDREA GALLI
Non si parlerà solo del suo ultimo romanzo dal titolo "La schedina di Gaetano" che ci ricorda com'eravamo trent'anni fa, ma anche del Kenya e di "Safari Bar", del quale saranno a disposizione alcune copie. L'appuntamento eccezionale di quest'anno a Milano con Freddie è l'occasione per rincontrare il direttore di Malindikenya.net in Italia, prima che faccia ritorno a Malindi, presumibilmente per altri 12 mesi. Freddie sarà questo pomeriggio, a partire dalle 18.30, al Nord Est Caffé di via Borsieri 35, dove presenterà appunto la sua ultima creatura editoriale insieme con il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli e altri ospiti speciali. Poi la serata andrà avanti con la sua presenza e un concerto jazz nel famoso locale dell'Isola.
lunedì 6 ottobre 2014
FREDDIE DEL CURATOLO IN "LA SCHEDINA DI GAETANO" A SARZANA CON STEFANO BAROTTI
Comincia questa sera, alle 19, il tour di presentazioni "creative" del nuovo romanzo di Freddie del Curatolo, dal titolo "La schedina di Gaetano". Per una volta il direttore di Malindikenya.net non parla d'Africa in un suo libro, ma racconta l'Italia di quando lasciò il Belpaese per trasferirsi in Kenya, alla fine del Ventesimo secolo. Con un tocco d'autobiografia e molta verve surreale, "La schedina di Gaetano" narra la storia di un'amicizia dall'adolescenza all'età adulta, sotto l'egida di passioni come il calcio, la musica e ovviamente l'amore. Una grande metafora sui sogni, le speranze e sul destino dell'ultima generazione che poteva ancora credere in un mondo migliore. Questa sera a Sarzana (SP), alle 19 all'osteria I Fondachi, con la partecipazione del cantautore Stefano Barotti, del poeta Mauro Macario e di altri ospiti speciali. Prossimo appuntamento a Milano, Nordest Caffé, giovedì 9 ottobre alle 18.30.
martedì 30 settembre 2014
LA SCHEDINA DI GAETANO, PRESENTAZIONE-SPETTACOLO A SARZANA IL 6 OTTOBRE
Lunedì 6 settembre alle ore 19
Presso “I FONDACHI SARZANA”
Via Dei Fondachi, 40, 19038 Sarzana, Italia
Presentazione del libro di Freddie del Curatolo
“La schedina di Gaetano”
Liberodicrivere ass. cult. edizioni
http://www.liberodiscrivere.it/biblio/scheda.asp?OpereID=163942
Alla presenza dell’autore interverranno il cantautore Stefano Barotti, il poeta Mauro Macario l’editore Antonello Cassan ed altri ospiti speciali.
Una presentazione atipica per un romanzo che è come un film, e come un film ha la sua colonna sonora. Una lettura “creativa” ricca di digressioni, ironia ed evocazioni. Perché l’autore del libro non è solo un giornalista e scrittore, ma anche un performer abituato a presentare le sue opere in forma di teatro-canzone. In questo spettacolo è spesso accompagnato da un cantautore che interpreterà alcune delle canzoni “contenute” nel romanzo, pescando tra autori indimenticabili quali Bob Dylan, Van Morrison, Tom Waits, John Lee Hooker, Morrissey. In alternativa, la colonna sonora sarà riprodotta e diffusa con i brani originali.
Quando le partite si ascoltavano alla radio e il calcio non era solo un business asservito al potere dei media.
Quando si sognava di cambiare vita con la schedina in mano.
La storia di due tifosi e di un grande calciatore nell’Italia di fine Millennio.
Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di due amici che inseguono la ricchezza per trovare se stessi.
Tre destini che si incrociano come segni del Totocalcio.
Attraverso la parabola di Gaetano Scirea, uno degli ultimi campioni di sport e di umiltà di un calcio che non esiste più, una storia surreale, sorprendente e tragica come può essere a volte il destino.
Un romanzo in cui la realtà si mescola alla fantasia in un cocktail agrodolce di eventi che lascia in bocca al lettore il retrogusto di una morale forse troppo amara.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE Alfredo del Curatolo è nato a Milano nel 1968. Giornalista professionista dal 2001, ha pubblicato diversi saggi musicali tra cui “Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano” (Selene Edizioni) e “Il provocautore” (Bevivino Editore). Dal libro su Rino Gaetano è nato anche un fortunato spettacolo di Teatro Canzone interpretato con il trio Fatt’acustic e il cantautore Paolo Pieretto. Dal 2005 si divide con l’Africa. In Kenya dirige il portale “Malindikenya.net” e collabora come corrispondente con quotidiani e riviste nazionali. Per le edizioni “Liberodiscrivere” ha pubblicato il vademecum “Malindi, Italia guida semiseria all’ultima colonia italiana in Africa” e il romanzo “Genoa Club Malindi”. Nel 2009 è uscito “Safari Bar” (GVE Editore). Anche questi libri sono stati portati sui palchi nazionali sotto forma di teatro-canzone con la partecipazione di svariati musicisti.
Come cantautore nel 2004 ha pubblicato l’album “Nel regno degli animali” con il quale ha conseguito il premio “Pigro Ivan Graziani” ed ha ottenuto riconoscimenti importanti al Premio Tenco di Sanremo, al Festival della Letteratura di Mantova e al Premio Ferré di San Benedetto del Tronto.
Come cantautore nel 2004 ha pubblicato l’album “Nel regno degli animali” con il quale ha conseguito il premio “Pigro Ivan Graziani” ed ha ottenuto riconoscimenti importanti al Premio Tenco di Sanremo, al Festival della Letteratura di Mantova e al Premio Ferré di San Benedetto del Tronto.
INFO EDITORIALI: Autore Freddie Del Curatolo; Titolo La schedina di Gaetano; Genere Romanzo storico; ISBN 9788873885368; Pagine 260; Prezzo 15,00 Euro; editore associazione culturale Liberodiscrivere®eBook; ISBN 9788873885375
INFO: www.liberodiscrivere.it/
Antonello Cassan editore di Liberodiscrivere®: acassan@liberodiscrivere.it Tel.+39.3 35 6900225
sabato 27 settembre 2014
LA SCHEDINA DI GAETANO
Tra un campionato mondiale di calcio e l’altro passano
quattro anni.
Tra un campionato mondiale di calcio e un campionato
europeo di calcio passano due anni.
Tra un campionato nazionale di calcio e quello
successivo passano due mesi e mezzo, tra una partita e l’altra una settimana,
tra una domenica di campionato e una sfida di coppa tre giorni appena.
L’importante, nella vita, è suddividere il presente in tanti piccoli passati prossimi che viaggiano qualche secondo prima di te, come una trasmissione via satellite.
L’importante, nella vita, è suddividere il presente in tanti piccoli passati prossimi che viaggiano qualche secondo prima di te, come una trasmissione via satellite.
Due amici e un grande
calciatore.
Tre destini che
s’incrociano come segni del Totocalcio, quando ancora solo un “tredici” poteva
cambiare la vita.
Eugenio vuole
diventare uno scrittore ma deve fare i conti con un padre fuggito all’estero
durante Tangentopoli e con la perdita improvvisa di sicurezze economiche.
Sandro vorrebbe tanto trovare la donna giusta.
I loro sogni si possono
realizzare grazie a una schedina fortunata e al loro idolo, Gaetano Scirea,
indimenticato e sfortunato campione della Juventus e della Nazionale.
Ma per tutti e tre il
destino è in attesa, perché fino al fischio finale della vita non è dato di
sapere se si è vinto o perso…
La schedina di
Gaetano è un romanzo che, attraverso il passaggio dall’adolescenza all’età
adulta, racconta i sogni, le speranze e l’amicizia di due ragazzi nell’Italia
di fine Millennio.
Attraverso la
parabola di un campione di sport e di umiltà, uno degli ultimi di un calcio che
non esiste più, travolto dal business e dal potere dei media, si racconta la
storia di due ragazzi di fine Millennio che sognavano la ricchezza per trovare
se stessi.
Quando non c’erano
ancora le pay-tv, i posticipi e il Superenalotto.
Quando le partite di
calcio si ascoltavano alla radio con la schedina del Totocalcio in mano, i
giocatori erano eroi raccontati a voce e in “immagini salienti” e non fidanzati
delle veline e la vita sembrava sempre una sfida con il risultato in bilico
fino alla fine.
Una storia fantastica e surreale, ma forse per questo umana e vera come tante altre.
Una storia fantastica e surreale, ma forse per questo umana e vera come tante altre.
Un romanzo in cui la
realtà si mescola alla fantasia in un cocktail agrodolce di eventi che lascia
in bocca al lettore il retrogusto di una morale forse troppo amara.
mercoledì 24 settembre 2014
lunedì 15 settembre 2014
LA SCHEDINA DI GAETANO, IL NUOVO ROMANZO DI FREDDIE DEL CURATOLO
Uscirà a fine settembre il nuovo romanzo di Freddie del Curatolo, dal titolo "La schedina di Gaetano". L'autore di "Safari Bar" (GVE) e di tanti libri e vademecum sulla colonia di italiani in Kenya, si è cimentato questa volta con un romanzo generazionale che parla di sogni, speranze e destini legati al calcio negli anni Ottanta, con un tocco di surreale fantasia.
"La Schedina di Gaetano" è edito da Liberodiscrivere e verrà presentato in Italia a partire da ottobre.
SINOSSI
Gaetano è un ragazzino
figlio di emigranti che gioca bene a calcio, farà carriera e approderà ventenne
alla Juventus.
Eugenio è un adolescente
inquieto che sogna di diventare un grande scrittore e ama la musica e il Genoa.
Sandro è figlio di
genitori separati ma, a parte l’affetto, non gli manca niente e tifa Bologna.
I campionati mondiali di
calcio del 1982, vinti dalla Nazionale italiana in Spagna sono una tappa
importante nella vita dei tre: per Eugenio coincidono con la prima esperienza
sessuale, per Sandro segnano il ricongiungimento con il padre, Gaetano è in
campo, a Madrid e contribuirà alla vittoria dell’Italia, realizzando il sogno
più grande per un calciatore.
Le vite dei tre
protagonisti si intrecceranno ancora, un goal all’ultimo minuto di Gaetano,
nell’ultima partita da lui disputata in carriera, varrà una fortunata vincita
di Sandro ed Eugenio al Totocalcio, loro grande passione. Poi Gaetano appenderà
le scarpe al chiodo e le strade dei due amici si separeranno.
Saranno un nuovo
incontro, una nuova schedina vincente e un tragico evento a cambiare per sempre
le vite dei tre. Questa volta la colonna del totocalcio azzeccata frutta la
bellezza di un miliardo e mezzo di lire, ma Sandro ed Eugenio non fanno a tempo
a gioire che apprendono la notizia della morte di Gaetano, a trentasei anni in
un incidente d’auto in Polonia.
Da quel giorno Gaetano sarà il loro angelo
custode.
Eugenio con i soldi acquista uno studio di registrazione e prova la
strada della discografia, Sandro fa il pieno di belle ragazze e una vita da
bohemienne.
Il secondo rendez-vous ha dell’incredibile: terza schedina vincente e
anche questa volta i due ci vedono lo “zampino” del mitico Gaetano.
Adesso i
due ragazzi sono uomini e possono avere tutto quello che hanno sempre
desiderato, fino a quando il destino non reclamerà la sua parte.
mercoledì 9 luglio 2014
I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 6 - Sette pensieri brasiariani
Al primo gol ho
pensato: “Meglio subito, così ci diamo una svegliata. Le docce fredde salutari
sono quelle delle sette del mattino, quando ti risvegli dal sogno che ti ha
reso invulnerabile, onnipotente e in odore di immortalità. Quelle di
mezzanotte, dei minuti di recupero, servono solo per lenire i dolori,
raffreddare inutili bollori o mitigare lo stato di ubriachezza. Ci siamo
organizzati male, là dietro.
Un esercito strampalato in trincea senza il Caporal Maggiore.
Quel ricciolino strapagato di Enzo Avallone mi sta dimostrando che non è un leader.
Non urla, non da fiducia. Mai una volta che dica a Ficarra e a Fernando Sucre di fare una benedetta diagonale, invece di giocare ala contro questi robot del cazzo.
Lo sceicco del PSG ha un gran fiuto per gli affari del calcio.
Chissà se gli garberebbe lo spaghetto allo scoglio di Forte dei Marmi in compagnia di Urby, Adry e Loty.
E che dire dell’altro capellone, l’Alighieri, che sembra capitato qui per caso, di ritorno dal settimo girone. Ok, ragazzi, anche senza il Trans e Chinesinho possiamo rimettere in piedi la gara. Ci sono ottanta minuti, un arbitro e due guardalinee. Purtroppo c’è anche Fred, lì davanti, e Hulk non riesce a diventare verde”.
Al secondo gol ho pensato: “Allora non abbiamo capito una beata fava! Questi corrono e si scambiano il pallone come facevamo noi con le figurine di Antonio Sciannimanico e Comunardo Niccolai.
Non sbagliano un passaggio, chiamano schemi come fossero l’uno il pastore tedesco dell’altro. “Herkommen, fuss, gib mir!”.
Gene Hackman in panca ha una faccia di muta cera come chi guarda da ultimo, l’ultima partita della sua carriera. Quello senza Trans e Cinesinho si cagava in mano da giorni.
Risatine contenute e riso in bianco, l’unico che aveva accesso alla sua stanza era il cardiologo.
A noi invece ci ha mandato una psicologa racchia che voleva convincerci del fatto che dovevamo far leva sul senso di colpa dell’Olocausto, ci guardava sempre tra l’adduttore e i genitali e alla fine ci ha pure chiesto l’autografo per i nipotini. Tatticamente abbiamo preparato questa partita come un cieco prepara una Saint Honoré.
In compenso fisicamente stiamo messi come Oliver Hardy in bicicletta inseguito dai gendarmi.
Il preparatore atletico per caricarci continuava a ripetere come una macchinetta che Hummels è alto 1.92 e pesa 90 chili. Gli alieni con la maglia del Flamengo corrono, triangolano, ci scartano.
Viene quasi da fare il tifo per loro. Un trentacinquenne autistico fa quel che vuole nella nostra area di rigore ed esulta quasi con una smorfia di disappunto. E’ il suo modo di godere, me lo disse a Roma una modella polacca. Ha battuto un record.
“Dai ragazzi, possiamo ancora recuperare”. Urla Gene.
Certo, possiamo ancora recuperare la nostra roba negli spogliatoi e andare in esilio in Suriname, prima che sia troppo tardi”.
Hulk è ancora alle prese con la trasformazione, ma al massimo gli esce un carta da zucchero.
Gene si risiede, ricomponendo il doppio mento.
Era meglio avere Gnocchi, in panchina, stasera.
Al terzo gol non ho già più voglia di pensare. E’ così evidente che siamo sulla spiaggia di Copacabana a palleggiare con le maracujas, che c’è poco da argomentare. Mancano culi e bikini, ma si sente lo sciabordio delle onde oceaniche, il brusio dei bagnanti, le urla disordinate dei bambini, le risate scomposte delle donne grasse. Il vento a sfogliare le riviste di pettegolezzi che paiono battiti d’ali.
Le nostre ali in campo che paiono personaggi dei fumetti.
E’ sempre più evidente a tutti che Bernard non abbia niente a che fare con Hulk, e che questo giro non avrebbe fatto bella figura nemmeno insieme a Zorro.
Fred dondola tra le armature prussiane stupito e svagato come uno studente di terza media in un museo medievale. Ha lo sguardo di Gianni Cavina e l’aplomb di Marco Predolin.
Hulk ha virato verso il color vinaccia.
Al quarto gol ho guardato questa gente. Non sono tutti ricchi, ma quasi. C’è un pensionato con i baffi e le sopracciglia di zucchero filato, gli occhi come canditi e la pelle di croccante. Sembra uscito dalla bancarella di un luna park. Stringe in mano una coppa rimet forse vinta al tirassegno. Piange come se gli avessero scippato l’ultimo desiderio. Ma senza violenza, che non ti puoi nemmeno incazzare.
Uno straniero, giovane aitante e biondo viene da te, ti omaggia di un sorriso di commiserazione, accarezza il croccante e ti leva la coppa rimet dalle mani con dolcezza.
“Dies ist mein, mein Herr”.
Le donne versano lacrime che per una volta non sanno di abusi, soprusi e gaslighting.
Piangono la disperazione di un tradimento solo lontanamente immaginato.
Ce l’avevano in gola dal Cile, questo magone atipico e casalingo.
Un magone senza bacchettone e giogoni di prestigio.
Le lacrime impiastricciano le bandiere verdeoro dipinte sulle gote, gocciolano sulle magliette attillate firmate Neymar, fiottano sugli occhiali come nei facials di Rocco Siffredi alle finte segretarie.
Cerco di concentrarmi altrove, c’è qualche tedesco che esulta, canta e prenota un taxi, dieci minuti prima della fine, che lo porti diretto in albergo.
Penso allora ai sindacalisti di Rio che festeggeranno come per la firma di un contratto nazionale, ai disoccupati e alla brava gente che non ha mai imparato a vivere d’espedienti.
Sono loro ad essere tedeschi dentro questa sera. Brasiariani.
Perché ci credo poco che il balordo delle favelas sia contento. Anzi, gli sale una rabbia che nemmeno quando giocava a quindici anni in terza serie nel campo dell’oratorio di Sao Geraldo ed accoltellò l’arbitro per un calcio d’angolo non concesso. Intanto Gustavo e Fernandinho preferirebbero tamponare un Mercedes Scania con la loro Lamborghini, piuttosto che Kroos e Khedira a centrocampo. Oscar gioca da solo, attendendo la nomination come miglior attore non protagonista e Hulk ha finalmente assunto la colorazione marrone, e inizia ad odorare di concime organico.
Un esercito strampalato in trincea senza il Caporal Maggiore.
Quel ricciolino strapagato di Enzo Avallone mi sta dimostrando che non è un leader.
Non urla, non da fiducia. Mai una volta che dica a Ficarra e a Fernando Sucre di fare una benedetta diagonale, invece di giocare ala contro questi robot del cazzo.
Lo sceicco del PSG ha un gran fiuto per gli affari del calcio.
Chissà se gli garberebbe lo spaghetto allo scoglio di Forte dei Marmi in compagnia di Urby, Adry e Loty.
E che dire dell’altro capellone, l’Alighieri, che sembra capitato qui per caso, di ritorno dal settimo girone. Ok, ragazzi, anche senza il Trans e Chinesinho possiamo rimettere in piedi la gara. Ci sono ottanta minuti, un arbitro e due guardalinee. Purtroppo c’è anche Fred, lì davanti, e Hulk non riesce a diventare verde”.
Al secondo gol ho pensato: “Allora non abbiamo capito una beata fava! Questi corrono e si scambiano il pallone come facevamo noi con le figurine di Antonio Sciannimanico e Comunardo Niccolai.
Non sbagliano un passaggio, chiamano schemi come fossero l’uno il pastore tedesco dell’altro. “Herkommen, fuss, gib mir!”.
Gene Hackman in panca ha una faccia di muta cera come chi guarda da ultimo, l’ultima partita della sua carriera. Quello senza Trans e Cinesinho si cagava in mano da giorni.
Risatine contenute e riso in bianco, l’unico che aveva accesso alla sua stanza era il cardiologo.
A noi invece ci ha mandato una psicologa racchia che voleva convincerci del fatto che dovevamo far leva sul senso di colpa dell’Olocausto, ci guardava sempre tra l’adduttore e i genitali e alla fine ci ha pure chiesto l’autografo per i nipotini. Tatticamente abbiamo preparato questa partita come un cieco prepara una Saint Honoré.
In compenso fisicamente stiamo messi come Oliver Hardy in bicicletta inseguito dai gendarmi.
Il preparatore atletico per caricarci continuava a ripetere come una macchinetta che Hummels è alto 1.92 e pesa 90 chili. Gli alieni con la maglia del Flamengo corrono, triangolano, ci scartano.
Viene quasi da fare il tifo per loro. Un trentacinquenne autistico fa quel che vuole nella nostra area di rigore ed esulta quasi con una smorfia di disappunto. E’ il suo modo di godere, me lo disse a Roma una modella polacca. Ha battuto un record.
“Dai ragazzi, possiamo ancora recuperare”. Urla Gene.
Certo, possiamo ancora recuperare la nostra roba negli spogliatoi e andare in esilio in Suriname, prima che sia troppo tardi”.
Hulk è ancora alle prese con la trasformazione, ma al massimo gli esce un carta da zucchero.
Gene si risiede, ricomponendo il doppio mento.
Era meglio avere Gnocchi, in panchina, stasera.
Al terzo gol non ho già più voglia di pensare. E’ così evidente che siamo sulla spiaggia di Copacabana a palleggiare con le maracujas, che c’è poco da argomentare. Mancano culi e bikini, ma si sente lo sciabordio delle onde oceaniche, il brusio dei bagnanti, le urla disordinate dei bambini, le risate scomposte delle donne grasse. Il vento a sfogliare le riviste di pettegolezzi che paiono battiti d’ali.
Le nostre ali in campo che paiono personaggi dei fumetti.
E’ sempre più evidente a tutti che Bernard non abbia niente a che fare con Hulk, e che questo giro non avrebbe fatto bella figura nemmeno insieme a Zorro.
Fred dondola tra le armature prussiane stupito e svagato come uno studente di terza media in un museo medievale. Ha lo sguardo di Gianni Cavina e l’aplomb di Marco Predolin.
Hulk ha virato verso il color vinaccia.
Al quarto gol ho guardato questa gente. Non sono tutti ricchi, ma quasi. C’è un pensionato con i baffi e le sopracciglia di zucchero filato, gli occhi come canditi e la pelle di croccante. Sembra uscito dalla bancarella di un luna park. Stringe in mano una coppa rimet forse vinta al tirassegno. Piange come se gli avessero scippato l’ultimo desiderio. Ma senza violenza, che non ti puoi nemmeno incazzare.
Uno straniero, giovane aitante e biondo viene da te, ti omaggia di un sorriso di commiserazione, accarezza il croccante e ti leva la coppa rimet dalle mani con dolcezza.
“Dies ist mein, mein Herr”.
Le donne versano lacrime che per una volta non sanno di abusi, soprusi e gaslighting.
Piangono la disperazione di un tradimento solo lontanamente immaginato.
Ce l’avevano in gola dal Cile, questo magone atipico e casalingo.
Un magone senza bacchettone e giogoni di prestigio.
Le lacrime impiastricciano le bandiere verdeoro dipinte sulle gote, gocciolano sulle magliette attillate firmate Neymar, fiottano sugli occhiali come nei facials di Rocco Siffredi alle finte segretarie.
Cerco di concentrarmi altrove, c’è qualche tedesco che esulta, canta e prenota un taxi, dieci minuti prima della fine, che lo porti diretto in albergo.
Penso allora ai sindacalisti di Rio che festeggeranno come per la firma di un contratto nazionale, ai disoccupati e alla brava gente che non ha mai imparato a vivere d’espedienti.
Sono loro ad essere tedeschi dentro questa sera. Brasiariani.
Perché ci credo poco che il balordo delle favelas sia contento. Anzi, gli sale una rabbia che nemmeno quando giocava a quindici anni in terza serie nel campo dell’oratorio di Sao Geraldo ed accoltellò l’arbitro per un calcio d’angolo non concesso. Intanto Gustavo e Fernandinho preferirebbero tamponare un Mercedes Scania con la loro Lamborghini, piuttosto che Kroos e Khedira a centrocampo. Oscar gioca da solo, attendendo la nomination come miglior attore non protagonista e Hulk ha finalmente assunto la colorazione marrone, e inizia ad odorare di concime organico.
Al quinto gol mi
sono alzato e ho applaudito.
In ogni battito dei palmi delle mani c’era un flashback, un fotogramma nitido di storia.
Mi sono assorto col pensiero della Weltanschauung, rivisto Goethe e salutato Kant e Adorno, mostrato il pugno a Marx e aperto la mano verso Hegel, ho regalato un broncio obliquo allo Sturm Und Drang, ammirato la geometrica incisività di Durer, i ritratti equestri di Franz Kruger, la morbida gommosità del maggiolone Wolkswagen, la copertura dell’osso sacro di Gisele Blundchen, che è pure brasiliana. Ho ascoltato il proto jazz di Johan Sebastian, il rock and roll di Beehetoven e la techno di Wagner, sfumando con le immagini di Fritz Lang e Wim Wenders con sottofondo industrial-pop degli Eisturzende Neubauten.
Ce l’ho messa tutta, stringendo le palpebre, ma quella scritta “Arbeicht Macht Frei” non se ne andava, nemmeno se mi concentravo su quel coglione di Beppekrillen o sul dubbio gusto della Bauhaus.
No, non riuscirò mai a farmi piacere i tedeschi, anche se li sto applaudendo.
Non potrò mai perdonarli. Sono troppo prevedibili, anche nella loro superiorità.
Guardali lì adesso, guarda il grugno idiota, sprezzante e finto umile di Moeller, guarda come insistono con il pressing. Vorrei gridargli “Sitzen, Fuss!” ma non mi crederebbero. Come scrisse Gunther Grass, i tedeschi non sono mai troppo audaci per essere dispiaciuti.
In ogni battito dei palmi delle mani c’era un flashback, un fotogramma nitido di storia.
Mi sono assorto col pensiero della Weltanschauung, rivisto Goethe e salutato Kant e Adorno, mostrato il pugno a Marx e aperto la mano verso Hegel, ho regalato un broncio obliquo allo Sturm Und Drang, ammirato la geometrica incisività di Durer, i ritratti equestri di Franz Kruger, la morbida gommosità del maggiolone Wolkswagen, la copertura dell’osso sacro di Gisele Blundchen, che è pure brasiliana. Ho ascoltato il proto jazz di Johan Sebastian, il rock and roll di Beehetoven e la techno di Wagner, sfumando con le immagini di Fritz Lang e Wim Wenders con sottofondo industrial-pop degli Eisturzende Neubauten.
Ce l’ho messa tutta, stringendo le palpebre, ma quella scritta “Arbeicht Macht Frei” non se ne andava, nemmeno se mi concentravo su quel coglione di Beppekrillen o sul dubbio gusto della Bauhaus.
No, non riuscirò mai a farmi piacere i tedeschi, anche se li sto applaudendo.
Non potrò mai perdonarli. Sono troppo prevedibili, anche nella loro superiorità.
Guardali lì adesso, guarda il grugno idiota, sprezzante e finto umile di Moeller, guarda come insistono con il pressing. Vorrei gridargli “Sitzen, Fuss!” ma non mi crederebbero. Come scrisse Gunther Grass, i tedeschi non sono mai troppo audaci per essere dispiaciuti.
Al sesto e al
settimo gol, e alla bandiera in regalo ai bimbi tristi di Belo Horizonte, mi
sono messo a ridere. Ho riso di gusto, senza timore di essere considerato
pazzo, non come l’Oscar verdeoro, ma come l’Oskar del “Tamburo di latta”. Ho
pensato alla figura di merda intergalattica, alle urla gutturali dei
telecronisti, ai corsi e ricorsi storici, a chi invece di suicidarsi già stava
cercando l’indirizzo della sorella di Fred a Minas Gerais, a Gene con il plaid
scozzese sulle ginocchia che guarda la finale in televisione, a Enzo Avallone
accolto a Parigi come a Genova abbiamo accolto Burdisso, a Fernando Sucre che
per calmarsi mangerà una gallina cruda e farà le facce brutte per due ore
davanti allo specchio, a Ficarra che strabuzzerà gli occhi all’offerta dei
Vanzina per il nuovo cinepanettone.
A Hulk che inevitabilmente seccherà, annusato dai cani.
Come nella vita, c’è sempre un finale che ti aspetti ma che mai ti sarebbe venuto in mente quando tutto cominciò. Alla fine è come uscire da uno stadio, comunque sia andata, che le lacrime siano di commozione o di dolore, l’importante è prenderla con ironia, perché in ogni caso hai assistito a qualcosa di unico, e di irripetibile.
A Hulk che inevitabilmente seccherà, annusato dai cani.
Come nella vita, c’è sempre un finale che ti aspetti ma che mai ti sarebbe venuto in mente quando tutto cominciò. Alla fine è come uscire da uno stadio, comunque sia andata, che le lacrime siano di commozione o di dolore, l’importante è prenderla con ironia, perché in ogni caso hai assistito a qualcosa di unico, e di irripetibile.
martedì 1 luglio 2014
I MONDIALI DI BECCIONI: 5 - Il grande maestro e la bellezza del volo
Cosa
vuoi che ti racconti, Maestro?
Che non c’è più poesia nel mondo e allora vuoi che ne alberghi anche solo uno straccio nel fujibol?
Che oggi la gran gnocca dal corpo dorato non potrebbe più passarti davanti sulla spiaggia di Ipanema, perché davanti al tuo bar tabacchi che guarda caso si chiamava “Veloso” non c’è più il bagnasciuga, ma un muraglione di cemento alto come la presunzione di chi ce l’ha messo nel fuleco poco a poco?
E che se pure la bella Helò Pinheiro, lenta e sinuosa come il biondo Miguel, ti passasse davanti in un dolce dondolarsi verso il mare, non avrebbe lo sguardo pieno di grazia e perduto nella bellezza, ma fisso su un android di merda?
Maestro, tutta la bellezza del mondo che è solo nostra, è rimasta in un tempo passato via come quella ragazza che oggi cammina veloce senza dondolii, inseguendo chissà cosa.
Passato via come Veloso, come Diego, Thiago, Rodrigo e tutti quelli che ci hanno fatto sognare la bellezza ma non hanno avuto il tempo di sublimarla, Così ora è fossilizzata nei ricordi e se la troviamo, dobbiamo darle calore come si farebbe con un passerotto ferito, prenderla amorevolmente tra le mani e riportarla al volo.
Come dici?
Certo, sono d’accordo: la bellezza non è solo in ciò che noi consideriamo bello, non è voyeurismo fine a se stesso. A volte può essere inutile come il secondo dribbling di Fetfa, altre è inafferrabile come il pallone per De Ceglie o deve ancora sbocciare come il talento di Cofie.
Hai ragione, la bellezza è nella curiosità che ancora riusciamo a coltivare, nella fantasia che ci serve per digerire la realtà.
Ti dirò di più, oggi la bellezza è nella cultura che non è informazione, è nell’amore che non ha tempo né distanze, in quello che riusciamo a condividere con chi ci merita, Maestro. Niente di più.
E allora perché mi chiedi del mio Genoa e di questi mondiali?
Vogliamo fare i segaioli?
Questa te la regalo, Poeta, c’è un appassionato di Brasile che dice “segagrilli”.
Bella visione, vero? Peccato che non scrive più.
Per chi scriveva?
No, non per la Vanoni.
Per noi, per i livorosi.
Vabbè, te lo spiego un’altra volta.
Lo so, Maestro, la vita è l’arte dell’incontro e si può parlare anche di cose frivole o liberatorie, come la cessione a titolo definitivo di Eduardo alla Dinamo Zagabria.
La vita mica è tutta tristeza che mas ten fin, non è solo una galoppata inconcludente di Aleandro Rosi o la speranza che arrivi un nuovo pezzo di merda, magari con gli occhi a mandorla.
Ricordi quando ti chiamavano “Du Marones”?
Okay, lasciamo perdere. Che in questo siamo bravi.
D’altronde me l’hai insegnato tu che la vita è come certe donne, magari sono gran cagne, ma nella cornice di un letto, non c’è cosa più bella.
Piuttosto, hai visto?
Hanno lasciato a casa anche Francelino.
Aveva ragione la mamma.
In vino veritas.
Io sono ancora uno che gli dispiace, uno vecchia maniera.
Pensa che al gol del Papa greco mi sono alzato dal divano e ho fatto un siparietto come fossi intorno alla bandierina, anche se tifavo Costarica.
Anche in questi mondiali me la sono sentita addosso come l’umidità di Manaus la mia genoanità.
Era sulla traversa di Pinilla al 119° e in tutti i calci di rigore.
E ora siamo fuori, tutti noi rossoblu. Mi ero aggrappato addirittura a Behrami, a Van Den Borre infortunato. Cosa? Sì, lo so che c’è Palacio, ma lui sta con una delle favorite, non fa testo.
Parliamo del tuo Brasile?
Ma come avete meritato?
Ecco che salta fuori il cazzo di nazionalismo.
No, non è retorica.
Sì, è vero, anche a me è dispiaciuto per l’Italia.
Ma sotto sotto ero contento per Prandelli e per il blocco Juve.
Molto più che per Balotelli.
D’altronde l’Italia mica è il Genoa.
Lì nonostante Gaspartame e la dirigenza, non sorriderei mai a una retrocessione, o a un derby perso. Così come non applaudo certo alla plusvalenza di Sturaro e all’affare di aver sbolognato Gilardino che, l’ho sempre detto, è odioso come la statale Biella-Borgomanero alle 6 del mattino.
Ah, la vita genoana. Che è l’arte del ritorno. Quante volte è tornato Sculli? Speriamo sia finita qui. Che quest’anno mi sa che ci tocca Borriello.
E pensare che c’era uno che odiava le minestre riscaldate.
Quest’anno oltre alla soppressata calabrese decongelata, abbiamo avuto una bagna cauda da microonde in panchina, più il mattarello Cofie che è pronto a ripartire per altre premiate pasticcerie con cui progettare insieme future Saint Honoré.
Tornando a noi, Maestro, ammetterai che il tuo Brasile non solo non ha più poesia (ma quello era inevitabile), non ha più nemmeno il colore, il samba, la passione?
E’ una cazzo di Juventus dei mondiali. Il Grifone invece può anche essere svilito e intristito dal giocattolaio, ma quella è solo la sua proiezione terrena, il suo lato lavorativo.
Il Grifone della mia infanzia, e ormai della mia fantasia malata, per gli ottavi di finale era qui a San Paolo, nel Pernambuco, a Bahia e Recife.
Svolazzava sul campo della Nigeria con Emenike e Odemwingie e forse per colpa sua hanno annullato un gol per fuorigioco di mezzo millimetro. Era con l’Algeria, barbuto e fisicato sulla fascia di Mustafi, fino a quando ha retto.
Ora non gli è rimasto molto e ha paura, come ogni anno, di doversi rituffare nel calciomercato, per poi volare fino a Neustift per affezionarsi a chi prima del 31 agosto leverà il disturbo.
Segnalo già Tachsidis, che se piace a Zeman come minimo ha la testa di Breda e i piedi di Manicone, e Ragusa, che farà finta di fare il soldatino piemontese, ma fino a un certo punto.
No, non voglio tornare nella terra delle promesse, perché come dicevi tu “eu nao tenho nada a ver com isso”. Non abbiamo nulla a che spartire con questo mondo, eppure ci viviamo. Per la vita, non per il mondo. Dici che è per lo stesso motivo che continuiamo ad essere affezionati al Genoa anche se non abbiamo nulla a che spartire con questo calcio?
O forse perché ci basta il cuore degli scarsi greci, l’abnegazione degli algerini in ramadan, l’ingenuità degli ivoriani, la gioia stremata dei costaricani. Perché ci infiammiamo per lo scatto di Robben, un dribbling di Hazard, il volo di Van Persie contro la supponenza spagnola.
Allora sai che ti dico, Maestro? Basta con la nostalgia! Chega de saudade!
Resto qui (no, non qui con te su questa pietra fredda, non preoccuparti…) anche per i quarti di finale, anche se è rimasto solo il Costarica, e per giunta gioca contro l’unica squadra che vorrei campione del mondo.
Resto qui. Che ci torno a fare nell’Italia che ritorna alla sudditanza dei prestiti, degli escamotage fiscali per non sprofondare, che è un po’ come profumare la merda per poter dire che tra un anno annegheremo sì, ma nel Cointreau. Niente più Italia, giuro!
Da Sao Paulo andrò direttamente in Austria.
Come dici? E’ un escamotage anche questo?
E che ci posso fare, se sono legato a questi due colori che sono la poesia del passato, la fantasia dell’adolescenza, che sono insieme la speranza che non muore e l’istinto ancestrale di resistere, che identificano il sogno nitido di chi ci mescola il meglio della realtà, tanto da confonderla. Questo io chiamo volo del Grifone e so che ci faresti una canzone.
Eu sei que voi te amar.
Per questo amerò sempre il calcio lo amerò sempre, non tanto per il gioco e per il nostro mondo disperato, ma perché riesco ancora a veder volare il Grifone, anche se è un volo meno aggraziato, più frettoloso, di quelli che a volte è meglio non guardare giù. Anche se non sai più dove volare, perché si stanno vendendo anche il cielo.
Perché so che potrebbe accadere il peggio, ed è ormai il male minore che anche quest’anno dovrò dimenticare ogni volto che ho collegato alla maglia perché svanirà prima ancora di diventare un bel ricordo, che sto imparando a considerare i giocatori come numeri, come figurine, per non soffrire.
Che forse non andrò più al Tempio.
Io so che ti amerò sempre, Genoa.
E’ proprio come scrivevi tu, Maestro.
Io so che ti amerò
Per tutta la mia vita ti amerò
E in ogni lontananza ti amerò
E senza una speranza.
Io so che ti amerò
ed ogni mio pensiero è per dire a te
io so che ti amerò
Per tutta la mia vita
io so che piangerò
ad ogni nuova assenza piangerò
ma il tuo ritorno mi ripagherà
del male che l’assenza mi farà
io so che soffrirò
la pena senza fine che mi da
il desiderio di essere con te per tutta la mia vita.
NOTA: Il grande poeta, letterato e paroliere Vinicius de Moraes (1913-1980) è sepolto nel cimitero Sao Baptista di Sao Paulo. E’ autore di canzoni immortali quali “Garota de Ipanema”, “Chega de saudade”, “Eu sei que voi te amar” ed almeno altre 700.
Trovandosi nei paraggi, vale sempre la pena di fare una chiacchierata con lui.
Che non c’è più poesia nel mondo e allora vuoi che ne alberghi anche solo uno straccio nel fujibol?
Che oggi la gran gnocca dal corpo dorato non potrebbe più passarti davanti sulla spiaggia di Ipanema, perché davanti al tuo bar tabacchi che guarda caso si chiamava “Veloso” non c’è più il bagnasciuga, ma un muraglione di cemento alto come la presunzione di chi ce l’ha messo nel fuleco poco a poco?
E che se pure la bella Helò Pinheiro, lenta e sinuosa come il biondo Miguel, ti passasse davanti in un dolce dondolarsi verso il mare, non avrebbe lo sguardo pieno di grazia e perduto nella bellezza, ma fisso su un android di merda?
Maestro, tutta la bellezza del mondo che è solo nostra, è rimasta in un tempo passato via come quella ragazza che oggi cammina veloce senza dondolii, inseguendo chissà cosa.
Passato via come Veloso, come Diego, Thiago, Rodrigo e tutti quelli che ci hanno fatto sognare la bellezza ma non hanno avuto il tempo di sublimarla, Così ora è fossilizzata nei ricordi e se la troviamo, dobbiamo darle calore come si farebbe con un passerotto ferito, prenderla amorevolmente tra le mani e riportarla al volo.
Come dici?
Certo, sono d’accordo: la bellezza non è solo in ciò che noi consideriamo bello, non è voyeurismo fine a se stesso. A volte può essere inutile come il secondo dribbling di Fetfa, altre è inafferrabile come il pallone per De Ceglie o deve ancora sbocciare come il talento di Cofie.
Hai ragione, la bellezza è nella curiosità che ancora riusciamo a coltivare, nella fantasia che ci serve per digerire la realtà.
Ti dirò di più, oggi la bellezza è nella cultura che non è informazione, è nell’amore che non ha tempo né distanze, in quello che riusciamo a condividere con chi ci merita, Maestro. Niente di più.
E allora perché mi chiedi del mio Genoa e di questi mondiali?
Vogliamo fare i segaioli?
Questa te la regalo, Poeta, c’è un appassionato di Brasile che dice “segagrilli”.
Bella visione, vero? Peccato che non scrive più.
Per chi scriveva?
No, non per la Vanoni.
Per noi, per i livorosi.
Vabbè, te lo spiego un’altra volta.
Lo so, Maestro, la vita è l’arte dell’incontro e si può parlare anche di cose frivole o liberatorie, come la cessione a titolo definitivo di Eduardo alla Dinamo Zagabria.
La vita mica è tutta tristeza che mas ten fin, non è solo una galoppata inconcludente di Aleandro Rosi o la speranza che arrivi un nuovo pezzo di merda, magari con gli occhi a mandorla.
Ricordi quando ti chiamavano “Du Marones”?
Okay, lasciamo perdere. Che in questo siamo bravi.
D’altronde me l’hai insegnato tu che la vita è come certe donne, magari sono gran cagne, ma nella cornice di un letto, non c’è cosa più bella.
Piuttosto, hai visto?
Hanno lasciato a casa anche Francelino.
Aveva ragione la mamma.
In vino veritas.
Io sono ancora uno che gli dispiace, uno vecchia maniera.
Pensa che al gol del Papa greco mi sono alzato dal divano e ho fatto un siparietto come fossi intorno alla bandierina, anche se tifavo Costarica.
Anche in questi mondiali me la sono sentita addosso come l’umidità di Manaus la mia genoanità.
Era sulla traversa di Pinilla al 119° e in tutti i calci di rigore.
E ora siamo fuori, tutti noi rossoblu. Mi ero aggrappato addirittura a Behrami, a Van Den Borre infortunato. Cosa? Sì, lo so che c’è Palacio, ma lui sta con una delle favorite, non fa testo.
Parliamo del tuo Brasile?
Ma come avete meritato?
Ecco che salta fuori il cazzo di nazionalismo.
No, non è retorica.
Sì, è vero, anche a me è dispiaciuto per l’Italia.
Ma sotto sotto ero contento per Prandelli e per il blocco Juve.
Molto più che per Balotelli.
D’altronde l’Italia mica è il Genoa.
Lì nonostante Gaspartame e la dirigenza, non sorriderei mai a una retrocessione, o a un derby perso. Così come non applaudo certo alla plusvalenza di Sturaro e all’affare di aver sbolognato Gilardino che, l’ho sempre detto, è odioso come la statale Biella-Borgomanero alle 6 del mattino.
Ah, la vita genoana. Che è l’arte del ritorno. Quante volte è tornato Sculli? Speriamo sia finita qui. Che quest’anno mi sa che ci tocca Borriello.
E pensare che c’era uno che odiava le minestre riscaldate.
Quest’anno oltre alla soppressata calabrese decongelata, abbiamo avuto una bagna cauda da microonde in panchina, più il mattarello Cofie che è pronto a ripartire per altre premiate pasticcerie con cui progettare insieme future Saint Honoré.
Tornando a noi, Maestro, ammetterai che il tuo Brasile non solo non ha più poesia (ma quello era inevitabile), non ha più nemmeno il colore, il samba, la passione?
E’ una cazzo di Juventus dei mondiali. Il Grifone invece può anche essere svilito e intristito dal giocattolaio, ma quella è solo la sua proiezione terrena, il suo lato lavorativo.
Il Grifone della mia infanzia, e ormai della mia fantasia malata, per gli ottavi di finale era qui a San Paolo, nel Pernambuco, a Bahia e Recife.
Svolazzava sul campo della Nigeria con Emenike e Odemwingie e forse per colpa sua hanno annullato un gol per fuorigioco di mezzo millimetro. Era con l’Algeria, barbuto e fisicato sulla fascia di Mustafi, fino a quando ha retto.
Ora non gli è rimasto molto e ha paura, come ogni anno, di doversi rituffare nel calciomercato, per poi volare fino a Neustift per affezionarsi a chi prima del 31 agosto leverà il disturbo.
Segnalo già Tachsidis, che se piace a Zeman come minimo ha la testa di Breda e i piedi di Manicone, e Ragusa, che farà finta di fare il soldatino piemontese, ma fino a un certo punto.
No, non voglio tornare nella terra delle promesse, perché come dicevi tu “eu nao tenho nada a ver com isso”. Non abbiamo nulla a che spartire con questo mondo, eppure ci viviamo. Per la vita, non per il mondo. Dici che è per lo stesso motivo che continuiamo ad essere affezionati al Genoa anche se non abbiamo nulla a che spartire con questo calcio?
O forse perché ci basta il cuore degli scarsi greci, l’abnegazione degli algerini in ramadan, l’ingenuità degli ivoriani, la gioia stremata dei costaricani. Perché ci infiammiamo per lo scatto di Robben, un dribbling di Hazard, il volo di Van Persie contro la supponenza spagnola.
Allora sai che ti dico, Maestro? Basta con la nostalgia! Chega de saudade!
Resto qui (no, non qui con te su questa pietra fredda, non preoccuparti…) anche per i quarti di finale, anche se è rimasto solo il Costarica, e per giunta gioca contro l’unica squadra che vorrei campione del mondo.
Resto qui. Che ci torno a fare nell’Italia che ritorna alla sudditanza dei prestiti, degli escamotage fiscali per non sprofondare, che è un po’ come profumare la merda per poter dire che tra un anno annegheremo sì, ma nel Cointreau. Niente più Italia, giuro!
Da Sao Paulo andrò direttamente in Austria.
Come dici? E’ un escamotage anche questo?
E che ci posso fare, se sono legato a questi due colori che sono la poesia del passato, la fantasia dell’adolescenza, che sono insieme la speranza che non muore e l’istinto ancestrale di resistere, che identificano il sogno nitido di chi ci mescola il meglio della realtà, tanto da confonderla. Questo io chiamo volo del Grifone e so che ci faresti una canzone.
Eu sei que voi te amar.
Per questo amerò sempre il calcio lo amerò sempre, non tanto per il gioco e per il nostro mondo disperato, ma perché riesco ancora a veder volare il Grifone, anche se è un volo meno aggraziato, più frettoloso, di quelli che a volte è meglio non guardare giù. Anche se non sai più dove volare, perché si stanno vendendo anche il cielo.
Perché so che potrebbe accadere il peggio, ed è ormai il male minore che anche quest’anno dovrò dimenticare ogni volto che ho collegato alla maglia perché svanirà prima ancora di diventare un bel ricordo, che sto imparando a considerare i giocatori come numeri, come figurine, per non soffrire.
Che forse non andrò più al Tempio.
Io so che ti amerò sempre, Genoa.
E’ proprio come scrivevi tu, Maestro.
Io so che ti amerò
Per tutta la mia vita ti amerò
E in ogni lontananza ti amerò
E senza una speranza.
Io so che ti amerò
ed ogni mio pensiero è per dire a te
io so che ti amerò
Per tutta la mia vita
io so che piangerò
ad ogni nuova assenza piangerò
ma il tuo ritorno mi ripagherà
del male che l’assenza mi farà
io so che soffrirò
la pena senza fine che mi da
il desiderio di essere con te per tutta la mia vita.
NOTA: Il grande poeta, letterato e paroliere Vinicius de Moraes (1913-1980) è sepolto nel cimitero Sao Baptista di Sao Paulo. E’ autore di canzoni immortali quali “Garota de Ipanema”, “Chega de saudade”, “Eu sei que voi te amar” ed almeno altre 700.
Trovandosi nei paraggi, vale sempre la pena di fare una chiacchierata con lui.
mercoledì 25 giugno 2014
I MONDIALI DI FREDDIE BECCIONI: 4 - Il grande buraco
Chi
guarda Natal, sappia che Natal si vede solo dal mare.
Ma chi è nato a Mae Luiza la può guardare anche dal basso del Grande Buraco.
Nessuno ci è finito dentro, al Grande Buraco, ma è come se ci vivessero tutti da sempre.
Costretti a guardare la vita dal basso in alto, a respirare e deglutire gli umori della strada, le deiezioni del progresso, i succhi gastrici dell’umanità.
Nella favela di Mae Luiza, abbarbicata sul promontorio di fango della città, sai quanto gliene fregava di Italia-Uruguay.
Ora al massimo ti sfottono perché hanno capito che Balotelli è un bluff, ti fanno il segno con la mano “tornate a casa” e se la ridono.
Sicuro che non saprebbero riconoscere De Sciglio o Darmian, e rapinerebbero Candreva con lo stesso sussiego che usano per l’ultima delle strappone che indossano bracciali e collane sulla passeggiata di Ponta Negra.
Italia fuori, Svizzera del Sudamerica dentro.
Brasile che rischierà parecchio con il Cile.
Il piccolo Fetfa che forse troverà spazio con il Costarica.
Ma io con loro non parlo dei mondiali.
Sono qui per un altro motivo e per adesso non ho voglia di immischiarmi.
M’imbatto in guappi di sedici anni ebbri di colla e maconha che, appoggiati a muri dall’intonaco vivo e in bassorilievo come pelle tatuata, ti squadrano con occhi freddi di metal detector: orologio, catenina, sagoma del cellulare nel taschino della camicia, rigonfiamento del portafoglio nel culo, eventuale borsello. I più giovani inseguono inermi granchi di fango lanciandogli pietre aguzze con rabbia già adulta, prendendoli per sfinimento e schiacciandoli inesorabilmente.
Una morte innocente e inutile, come inutili sarebbero state le loro vite da innocenti.
Ragazzine dal sorriso di garofano e cannella con lo sbavo di rossetto e l’infanzia affossata nelle occhiaie, ti fanno il segno del pompino con il pugno semichiuso e la lingua a roteare nella guancia.
Spacciatori di crack armeggiano con coltelli a serramanico, anche solo per pulirsi le unghie o sbucciare una maracuja e madri arredano al meglio la loro rassegnazione sull’uscio delle baracche, sfinite dalla fatica di dover sopportare tutto questo male di vivere ai margini di Natal, dove arrivano i charter dei turisti che riempiono le spiagge, le tasche degli spacciatori, le cavità delle ragazzine e le notti brave dei guappi.
C’è chi preferisce la retorica dei finti buoni sentimenti e continua a indicare l’occidente, quando qui in giro fanno tutto da soli da un bel po’. Missionari laici che si concentrano sugli orfani, missionari laidi che li preferiscono a dieci anni. Tanti appoggiano gente che lucra sugli aiuti e non farà mai niente per cambiare davvero Mae Luiza, se non inviare cartoline illustrate a base di volti emaciati, sguardi persi, cenci strappati, denti marci, immondizia, sangue ed altre miserie.
Io nel Grande Buraco, la voragine che si è aperta non distante dallo stadio, che inghiottirà i mondiali e prima o poi tutto il Brasile, ci vado da solo, senza onlus o delegazioni e non ho con me la digitale.
Osservo la civiltà dal basso e omaggio chiunque di una smorfia schifata e occhiate come dire “non ho niente da offrirti, facciamoci ognuno i cazzi propri”.
Pensate pure che sono qui per i mondiali, che sono il turista che va sulla spiaggia, che ama il calcio e cerca la figa, possibilmente gratis.
Che va a ballare nei locali dei negri, che ascolta musica dal vivo in quelli dei bianchi, che mangia la pizza e i camarao. Questo si fa in Brasile, e non ho intenzione di deludere nessuno.
Ma sono anche genoano, e so bene che questa è la città “Natal” di uno dei nostri idoli, Francelino Matuzalem. Ecco il vero motivo della mia presenza.
“Se non fosse stato per il calcio, ora sarei in prigione”.
Questa frase di Matuza, letta sul giornale qualche anni fa, mi ha fatto pensare che fosse uno dei guappi che ho incrociato e che sarebbe diventato uno dei tanti malviventi di Natal.
Magari l’avrei conosciuto qui, nel Grande Buraco, all’ombra del faro della città, che è il motivo per cui sessant’anni fa i reietti di queste lande si arroccarono qui, rischiando ogni giorno di scivolare nel ventre della terra per una frana o di finire in una voragine come questa. Ogni sette secondi arrivava la potente luce del faro ed era l’unica illuminazione della vita intermittente di Mae Luiza.
Chissà se Francelino ha conosciuto quella luce. Magari, grazie al calcio, lo incontro più tardi e ci sbronziamo di Ypioca Reserva, insieme a quella buona gola di sua mamma.
Per prima cosa, finita la farsa della Corazzata Prandelkin, che ora langue in un oceano di critiche appoggiata sul lato sinistro dell’opinione, vado a Pizza Pazza, il ritrovo della colonia italiana di Natal.
Il gestore Walter aveva preparato pizze tricolori alte come Fetfatzidis per festeggiare, e ora le offre comunque ai connazionali. Pesto mozzarella e pomodorini.
Gli insulti con cadenza portoghese sono condimenti necessari, olio al peperoncino per ravvivare lo scialbo pasto che fa quasi rimpiangere il Ristò di Barberino di Mugello.
Buffon succhiato dalla D’Amico, Barzagli grasso, Bonucci montato, Chiellini sadomaso, Pirlo che gioca da fermo, De Rossi da infermo, Cassano bollito, Verratti acerbo, Immobile come l’Italia e via dicendo.
Al “Balotelli-negro-di-merda” mi sembra definitivamente di essere al Ristò, di Sant’Angelo Lodigiano però. Mi dirigo alla cassa con lo scatto perentorio di Candreva.
“Walter, tu sai dove abita la mamma di Matuzalem?”
“Il Rum?”
“No, il calciatore”
“Ah, quello della Lazio…dovrebbe stare al Pelourinho”
Saluto la varia umanità di puttanieri, coppiette, tifosi, barberini, lodigiani e altri generi di stronzo, e come un ambizioso annusapatte, mi dirigo verso il centro.
Il Pelourinho è uno spettacolo di illusionismo, una fiction storica tra i grattacieli e la merda.
Il corso che scende da una delle colline di Natal ricorda in qualcosa Zena, via Garibaldi, ma ha chiese lusitane e architettura rinascimentale spagnola a far da contorno.
Pullula del Brasile buono, quello della gente che tira a campare a fatica come noi, strozzata da capitalismo e globalizzazione, ma sorride e si tocca il culo a vicenda, mangia e beve quel che capita senza stare a sindacare. Poveri dentro, ma meno inutilmente scassacazzo di noi italiani.
Chiedo a un vigilante, ma mi guarda in tralice come dire “deficiente, siamo in 800 mila a Natal e dovrei conoscere l’indirizzo di ognuno?”, entro in un negozio che vende divise da calcio e ne ha anche una serie degli azzurri.
Il commesso Emerson è indeciso se chiudere bottega o attendere che lo struscio del corso si sia consumato.
La delusione è evidente sul volto abbronzato, i riccioli corvini e il naso camuso.
“E adesso, chi me le compra?”
“Un collezionista di brutte figure? Se hai quella di Perin te la prendo io, tra qualche anno sarà come il Gronchirosa”
“Cassudiji?”
Chiude bottega e andiamo a bere una Ypioca da Vanier, in uno dei vicoli belli in cui si perde la cognizione del tempo.
Alla quinta cachaça l’ho convinto.
Dobbiamo trovare Francelino.
Emerson fa due o tre telefonate. Un’ora è mezzo di “alonji ujenji sao sao joao corcovado desafinado blablablao cassudiji”.
Nel frattempo mi passano davanti otto o dodici tette, quattro o otto chiappone, forse una le aveva addirittura doppie.
Ringrazio alzando la mano come in auto al semaforo, oggi niente figa, niente calcio, niente rock and roll.
“E’ hora de ir” dice il commesso camuso.
Risaliamo una stradina cupa contornata da piante che odora di frutta e spezie, divoriamo venti scalini, circumnavighiamo una fontana, una chiesa e un mercatino di artigianato, per rinfilarci nei vicoli.
Respiro odore di commistione, di incroci di tempi e di modi, di prede e cacciatori, indigeni e conquistatori, razze e corazze, cazzi e controcazzi.
Ad un tratto Emerson si blocca.
Ai bordi del quartiere coloniale c’è un imprevisto.
Un ragazzino alto come una pizza tricolore di Walter, ci affronta armato di un manico di scopa tempestato di lamette da barba.
Mi pare di capire che Emerson gli dica che anche lui è un poveraccio, che ha parenti a Mae Luiza e che da ragazzo usava le Wilkinson perché costano meno e si arrugginiscono più tardi.
Il bimbo non ne vuole sapere, è assetato come un centrocampista costaricano e agguerrito come Alvaro Pereira quando gli dicono che potrebbe tornare all’Inter.
Non cede e inizia a roteare il manico della scopa.
Emerson mi fa segno di tirare fuori 100 reais.
Glieli lancia ai piedi e lui raccoglie con una scarpa, arretra di qualche passo facendo segno di restare sul posto, come avesse spruzzato un’invisibile schiuma da arbitro incontinente.
Poi si gira, sorride e fa segno a Emerson come a volergli stringere la mano.
Il commesso ci pensa un attimo. Si volta verso me che rimango a distanza, e mi strizza l’occhio.
Si avvicina sussurrando qualcosa ma il Fetfa del Grande Buraco gli vibra lo scopone lamato in faccia. Schizzi di sangue sulla pietra del vicolo, Emerson tenta un placcaggio urlando, vedo un dito saltare via e tagli assurdi come diagonali di Chiellini.
Prima che il commesso camuso tenti un’ultima disperata reazione, roba da minuti di recupero con Cassano centravanti, decido che è il momento di scappare. Ora o mai più, abbandonare la scena più velocemente possibile.
Mi sento come un granchio di fango che zigzaga inseguito dai fratelli minori dei guappi. Sento le pietre aguzze sibilare al mio fianco e piedi enormi che mi cercano dall’alto.
Cuore in gola, stradine del Pelourinho che si fanno sempre più strette e si inerpicano in salita fino a diventare viottoli, passaggi, fessure in mezzo ai tuguri della favela. E poi a scendere ancora verso la città tra carretti, bambini con palloni, gradini colorati, capre, panni stesi, catini, vecchi addormentati, pezzi di lamiera, brandelli d’intonaco, fili scoperti della corrente, venditori di noccioline, biciclette, escrementi d’asino, donne grasse bardate di parei colorati, piante rampicanti. Se è vero che mi sento il protagonista di un videogame in soggettiva, spero di avere almeno tre vite e di guadagnarmi quel cazzo di extratime. C’è un mondo nascosto da fotografare ed evitare in rapida sequenza, se solo fossi un turista.
Ma un turista qui in cima a Natal non sarebbe salito mai.
E non avrebbe mai potuto vedere dall’alto il Grande Buraco.
Devo tornare verso il Pelourinho, prima di guardarmi indietro. Ansimo come Barzagli dopo venti minuti del secondo tempo, o come Thiago Motta dopo cinque dal suo ingresso in campo.
Fermo la mia corsa e le gimcane, esausto, sotto un portico che si affaccia in un cortile dalle mille grate. Mi affaccio nel vicolo, a destra e sinistra non c’è nessun manico di scopa.
Dall’interno proviene un buon odore di chiodi di garofano e pollo stufato. Fuori, due ragazzine vestite bene giocano a pallavolo e un gatto le osserva grattandosi via le pulci fino a scarnificarsi.
Mi siedo a terra, nel chiaroscuro del portico e prendo il respiro.
Chiudo gli occhi.
Vedo Prandelli che mi viene incontro. Mi mette una mano sulla testa, fa finta di non schifarsi per il sudore dei capelli, e mi prende il collo con l’avambraccio.
“E’ andata così, non piangere” mi dice con un mezzo sorriso averna.
“Non piango, sono miliardario e prenoto domani per due settimane in Polinesia” vorrei rispondergli, ma l’etica mi consiglia: “Non ce lo meritavamo, abbiamo dato tutto”.
So che è una gran menzogna. In realtà ho dato solo 100 reais, e in tasca me ne rimangono 2000.
Più la carta di credito dei GIR.
Qualcosa mi tocca la spalla.
Non sento denti, non è Suarez.
E’ una mano pesante.
Mi viene in mente Carlos Ricardo Badalamenti.
Ho un sussulto verticale, apro gli occhi e mi alzo in piedi.
E’ una donna alta poco più di una pizza cucinata da Fetfatzidis, robusta e rassicurante-
“Medu nao meu filho”, non temere mi dice.
Mi fa segno di entrare in casa.
Il patio annuncia un grande salone luminoso, pieno di drappi e arazzi.
In fondo si intravvede una cucina ampia con il blocco cottura in mezzo e una grande cappa di alluminio. Mi fa cenno di sedere su un divano morbido, contornato da cuscini cangianti.
Alzo lo sguardo verso un crocifisso d’oro appeso alla parete.
Di fianco una gigantografia di un ragazzo che assomiglia al povero Emerson.
Guardo meglio, il naso non è così camuso.
E’ Francelino Matuzalem!
La signora sorride e fa portare una bottiglia di Demerara 30 anhos.
Stappa, versa e degusta, con eleganza impropria.
Sono già innamorato.
“Esto e melhor de que beve a Natal, no è cachaça”
“Lo so, lo so…grazie. Alla tua, mamma!”.
“Fanculo Italia!”
“Fanculo Italia, forza Genoa!”
“Forse fanculo anche Genoa!”
“Dai mamma…”
“Da me un beijo”
“Ma mamma, hai quasi sessant’anni…”
“Apenas un beijo…”
Okay.
“Allora, Forza Genoa!”
“Forza Genoa sempre, mamma!”
Ma chi è nato a Mae Luiza la può guardare anche dal basso del Grande Buraco.
Nessuno ci è finito dentro, al Grande Buraco, ma è come se ci vivessero tutti da sempre.
Costretti a guardare la vita dal basso in alto, a respirare e deglutire gli umori della strada, le deiezioni del progresso, i succhi gastrici dell’umanità.
Nella favela di Mae Luiza, abbarbicata sul promontorio di fango della città, sai quanto gliene fregava di Italia-Uruguay.
Ora al massimo ti sfottono perché hanno capito che Balotelli è un bluff, ti fanno il segno con la mano “tornate a casa” e se la ridono.
Sicuro che non saprebbero riconoscere De Sciglio o Darmian, e rapinerebbero Candreva con lo stesso sussiego che usano per l’ultima delle strappone che indossano bracciali e collane sulla passeggiata di Ponta Negra.
Italia fuori, Svizzera del Sudamerica dentro.
Brasile che rischierà parecchio con il Cile.
Il piccolo Fetfa che forse troverà spazio con il Costarica.
Ma io con loro non parlo dei mondiali.
Sono qui per un altro motivo e per adesso non ho voglia di immischiarmi.
M’imbatto in guappi di sedici anni ebbri di colla e maconha che, appoggiati a muri dall’intonaco vivo e in bassorilievo come pelle tatuata, ti squadrano con occhi freddi di metal detector: orologio, catenina, sagoma del cellulare nel taschino della camicia, rigonfiamento del portafoglio nel culo, eventuale borsello. I più giovani inseguono inermi granchi di fango lanciandogli pietre aguzze con rabbia già adulta, prendendoli per sfinimento e schiacciandoli inesorabilmente.
Una morte innocente e inutile, come inutili sarebbero state le loro vite da innocenti.
Ragazzine dal sorriso di garofano e cannella con lo sbavo di rossetto e l’infanzia affossata nelle occhiaie, ti fanno il segno del pompino con il pugno semichiuso e la lingua a roteare nella guancia.
Spacciatori di crack armeggiano con coltelli a serramanico, anche solo per pulirsi le unghie o sbucciare una maracuja e madri arredano al meglio la loro rassegnazione sull’uscio delle baracche, sfinite dalla fatica di dover sopportare tutto questo male di vivere ai margini di Natal, dove arrivano i charter dei turisti che riempiono le spiagge, le tasche degli spacciatori, le cavità delle ragazzine e le notti brave dei guappi.
C’è chi preferisce la retorica dei finti buoni sentimenti e continua a indicare l’occidente, quando qui in giro fanno tutto da soli da un bel po’. Missionari laici che si concentrano sugli orfani, missionari laidi che li preferiscono a dieci anni. Tanti appoggiano gente che lucra sugli aiuti e non farà mai niente per cambiare davvero Mae Luiza, se non inviare cartoline illustrate a base di volti emaciati, sguardi persi, cenci strappati, denti marci, immondizia, sangue ed altre miserie.
Io nel Grande Buraco, la voragine che si è aperta non distante dallo stadio, che inghiottirà i mondiali e prima o poi tutto il Brasile, ci vado da solo, senza onlus o delegazioni e non ho con me la digitale.
Osservo la civiltà dal basso e omaggio chiunque di una smorfia schifata e occhiate come dire “non ho niente da offrirti, facciamoci ognuno i cazzi propri”.
Pensate pure che sono qui per i mondiali, che sono il turista che va sulla spiaggia, che ama il calcio e cerca la figa, possibilmente gratis.
Che va a ballare nei locali dei negri, che ascolta musica dal vivo in quelli dei bianchi, che mangia la pizza e i camarao. Questo si fa in Brasile, e non ho intenzione di deludere nessuno.
Ma sono anche genoano, e so bene che questa è la città “Natal” di uno dei nostri idoli, Francelino Matuzalem. Ecco il vero motivo della mia presenza.
“Se non fosse stato per il calcio, ora sarei in prigione”.
Questa frase di Matuza, letta sul giornale qualche anni fa, mi ha fatto pensare che fosse uno dei guappi che ho incrociato e che sarebbe diventato uno dei tanti malviventi di Natal.
Magari l’avrei conosciuto qui, nel Grande Buraco, all’ombra del faro della città, che è il motivo per cui sessant’anni fa i reietti di queste lande si arroccarono qui, rischiando ogni giorno di scivolare nel ventre della terra per una frana o di finire in una voragine come questa. Ogni sette secondi arrivava la potente luce del faro ed era l’unica illuminazione della vita intermittente di Mae Luiza.
Chissà se Francelino ha conosciuto quella luce. Magari, grazie al calcio, lo incontro più tardi e ci sbronziamo di Ypioca Reserva, insieme a quella buona gola di sua mamma.
Per prima cosa, finita la farsa della Corazzata Prandelkin, che ora langue in un oceano di critiche appoggiata sul lato sinistro dell’opinione, vado a Pizza Pazza, il ritrovo della colonia italiana di Natal.
Il gestore Walter aveva preparato pizze tricolori alte come Fetfatzidis per festeggiare, e ora le offre comunque ai connazionali. Pesto mozzarella e pomodorini.
Gli insulti con cadenza portoghese sono condimenti necessari, olio al peperoncino per ravvivare lo scialbo pasto che fa quasi rimpiangere il Ristò di Barberino di Mugello.
Buffon succhiato dalla D’Amico, Barzagli grasso, Bonucci montato, Chiellini sadomaso, Pirlo che gioca da fermo, De Rossi da infermo, Cassano bollito, Verratti acerbo, Immobile come l’Italia e via dicendo.
Al “Balotelli-negro-di-merda” mi sembra definitivamente di essere al Ristò, di Sant’Angelo Lodigiano però. Mi dirigo alla cassa con lo scatto perentorio di Candreva.
“Walter, tu sai dove abita la mamma di Matuzalem?”
“Il Rum?”
“No, il calciatore”
“Ah, quello della Lazio…dovrebbe stare al Pelourinho”
Saluto la varia umanità di puttanieri, coppiette, tifosi, barberini, lodigiani e altri generi di stronzo, e come un ambizioso annusapatte, mi dirigo verso il centro.
Il Pelourinho è uno spettacolo di illusionismo, una fiction storica tra i grattacieli e la merda.
Il corso che scende da una delle colline di Natal ricorda in qualcosa Zena, via Garibaldi, ma ha chiese lusitane e architettura rinascimentale spagnola a far da contorno.
Pullula del Brasile buono, quello della gente che tira a campare a fatica come noi, strozzata da capitalismo e globalizzazione, ma sorride e si tocca il culo a vicenda, mangia e beve quel che capita senza stare a sindacare. Poveri dentro, ma meno inutilmente scassacazzo di noi italiani.
Chiedo a un vigilante, ma mi guarda in tralice come dire “deficiente, siamo in 800 mila a Natal e dovrei conoscere l’indirizzo di ognuno?”, entro in un negozio che vende divise da calcio e ne ha anche una serie degli azzurri.
Il commesso Emerson è indeciso se chiudere bottega o attendere che lo struscio del corso si sia consumato.
La delusione è evidente sul volto abbronzato, i riccioli corvini e il naso camuso.
“E adesso, chi me le compra?”
“Un collezionista di brutte figure? Se hai quella di Perin te la prendo io, tra qualche anno sarà come il Gronchirosa”
“Cassudiji?”
Chiude bottega e andiamo a bere una Ypioca da Vanier, in uno dei vicoli belli in cui si perde la cognizione del tempo.
Alla quinta cachaça l’ho convinto.
Dobbiamo trovare Francelino.
Emerson fa due o tre telefonate. Un’ora è mezzo di “alonji ujenji sao sao joao corcovado desafinado blablablao cassudiji”.
Nel frattempo mi passano davanti otto o dodici tette, quattro o otto chiappone, forse una le aveva addirittura doppie.
Ringrazio alzando la mano come in auto al semaforo, oggi niente figa, niente calcio, niente rock and roll.
“E’ hora de ir” dice il commesso camuso.
Risaliamo una stradina cupa contornata da piante che odora di frutta e spezie, divoriamo venti scalini, circumnavighiamo una fontana, una chiesa e un mercatino di artigianato, per rinfilarci nei vicoli.
Respiro odore di commistione, di incroci di tempi e di modi, di prede e cacciatori, indigeni e conquistatori, razze e corazze, cazzi e controcazzi.
Ad un tratto Emerson si blocca.
Ai bordi del quartiere coloniale c’è un imprevisto.
Un ragazzino alto come una pizza tricolore di Walter, ci affronta armato di un manico di scopa tempestato di lamette da barba.
Mi pare di capire che Emerson gli dica che anche lui è un poveraccio, che ha parenti a Mae Luiza e che da ragazzo usava le Wilkinson perché costano meno e si arrugginiscono più tardi.
Il bimbo non ne vuole sapere, è assetato come un centrocampista costaricano e agguerrito come Alvaro Pereira quando gli dicono che potrebbe tornare all’Inter.
Non cede e inizia a roteare il manico della scopa.
Emerson mi fa segno di tirare fuori 100 reais.
Glieli lancia ai piedi e lui raccoglie con una scarpa, arretra di qualche passo facendo segno di restare sul posto, come avesse spruzzato un’invisibile schiuma da arbitro incontinente.
Poi si gira, sorride e fa segno a Emerson come a volergli stringere la mano.
Il commesso ci pensa un attimo. Si volta verso me che rimango a distanza, e mi strizza l’occhio.
Si avvicina sussurrando qualcosa ma il Fetfa del Grande Buraco gli vibra lo scopone lamato in faccia. Schizzi di sangue sulla pietra del vicolo, Emerson tenta un placcaggio urlando, vedo un dito saltare via e tagli assurdi come diagonali di Chiellini.
Prima che il commesso camuso tenti un’ultima disperata reazione, roba da minuti di recupero con Cassano centravanti, decido che è il momento di scappare. Ora o mai più, abbandonare la scena più velocemente possibile.
Mi sento come un granchio di fango che zigzaga inseguito dai fratelli minori dei guappi. Sento le pietre aguzze sibilare al mio fianco e piedi enormi che mi cercano dall’alto.
Cuore in gola, stradine del Pelourinho che si fanno sempre più strette e si inerpicano in salita fino a diventare viottoli, passaggi, fessure in mezzo ai tuguri della favela. E poi a scendere ancora verso la città tra carretti, bambini con palloni, gradini colorati, capre, panni stesi, catini, vecchi addormentati, pezzi di lamiera, brandelli d’intonaco, fili scoperti della corrente, venditori di noccioline, biciclette, escrementi d’asino, donne grasse bardate di parei colorati, piante rampicanti. Se è vero che mi sento il protagonista di un videogame in soggettiva, spero di avere almeno tre vite e di guadagnarmi quel cazzo di extratime. C’è un mondo nascosto da fotografare ed evitare in rapida sequenza, se solo fossi un turista.
Ma un turista qui in cima a Natal non sarebbe salito mai.
E non avrebbe mai potuto vedere dall’alto il Grande Buraco.
Devo tornare verso il Pelourinho, prima di guardarmi indietro. Ansimo come Barzagli dopo venti minuti del secondo tempo, o come Thiago Motta dopo cinque dal suo ingresso in campo.
Fermo la mia corsa e le gimcane, esausto, sotto un portico che si affaccia in un cortile dalle mille grate. Mi affaccio nel vicolo, a destra e sinistra non c’è nessun manico di scopa.
Dall’interno proviene un buon odore di chiodi di garofano e pollo stufato. Fuori, due ragazzine vestite bene giocano a pallavolo e un gatto le osserva grattandosi via le pulci fino a scarnificarsi.
Mi siedo a terra, nel chiaroscuro del portico e prendo il respiro.
Chiudo gli occhi.
Vedo Prandelli che mi viene incontro. Mi mette una mano sulla testa, fa finta di non schifarsi per il sudore dei capelli, e mi prende il collo con l’avambraccio.
“E’ andata così, non piangere” mi dice con un mezzo sorriso averna.
“Non piango, sono miliardario e prenoto domani per due settimane in Polinesia” vorrei rispondergli, ma l’etica mi consiglia: “Non ce lo meritavamo, abbiamo dato tutto”.
So che è una gran menzogna. In realtà ho dato solo 100 reais, e in tasca me ne rimangono 2000.
Più la carta di credito dei GIR.
Qualcosa mi tocca la spalla.
Non sento denti, non è Suarez.
E’ una mano pesante.
Mi viene in mente Carlos Ricardo Badalamenti.
Ho un sussulto verticale, apro gli occhi e mi alzo in piedi.
E’ una donna alta poco più di una pizza cucinata da Fetfatzidis, robusta e rassicurante-
“Medu nao meu filho”, non temere mi dice.
Mi fa segno di entrare in casa.
Il patio annuncia un grande salone luminoso, pieno di drappi e arazzi.
In fondo si intravvede una cucina ampia con il blocco cottura in mezzo e una grande cappa di alluminio. Mi fa cenno di sedere su un divano morbido, contornato da cuscini cangianti.
Alzo lo sguardo verso un crocifisso d’oro appeso alla parete.
Di fianco una gigantografia di un ragazzo che assomiglia al povero Emerson.
Guardo meglio, il naso non è così camuso.
E’ Francelino Matuzalem!
La signora sorride e fa portare una bottiglia di Demerara 30 anhos.
Stappa, versa e degusta, con eleganza impropria.
Sono già innamorato.
“Esto e melhor de que beve a Natal, no è cachaça”
“Lo so, lo so…grazie. Alla tua, mamma!”.
“Fanculo Italia!”
“Fanculo Italia, forza Genoa!”
“Forse fanculo anche Genoa!”
“Dai mamma…”
“Da me un beijo”
“Ma mamma, hai quasi sessant’anni…”
“Apenas un beijo…”
Okay.
“Allora, Forza Genoa!”
“Forza Genoa sempre, mamma!”
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