lunedì 27 dicembre 2010

"MALAIKA" - 1 PUNTATA


21 Dicembre 1999

“Oggi non ho già più voglia di farvi lezione. Cosa ne dite di investire l’ultima mezzora prima delle vacanze parlando di quello che ci aspetta? Vorrei farvi partecipi di come lo sento io e come mi piacerebbe che lo sentiste voi”.
Silenzio.
Prendo un respiro pro forma.
“Tra poco più di una settimana, ragazzi miei, ci metteremo a guardare il nostro decrepito pianeta con cinque occhi a testa. I tre in più saranno gli zeri che accompagnano il due. Due millenni di storia, anche se non credo che l’era moderna sia partita dopo la morte di Gesù. Erano più avanti gli antichi egizi dei signorotti medievali.
Ma lasciamo perdere.
Interroghiamoci piuttosto sul passaggio da un millennio all’altro.
Cosa vuol dire? Pressappoco nulla. Forse soltanto venti secoli di cristianesimo, oppure duecento decenni di calendari identici a quello attuale o, ancora, ventiquattro mila mesi che si ripetono in fila per dodici.
La vera magia sta tutta nella cifra, nel 2000.
Durerà solo un anno, bisogna goderselo! Lo scatto del primo numero, e l’azzeramento degli altri, ci permetteranno di capire cosa è davvero mutato intorno a noi, come sta la nostra vecchia bicicletta dopo la verniciatura a forno, il pallone di cuoio rigonfiato dal benzinaio. La carretta del nonno passerà la revisione?
Vedremo finalmente se i computer attiveranno davvero i programmi che prevedono l’ingresso nel futuro reale, oppure cercheranno di dimenticare le migliaia di corbellerie informatiche che hanno immagazzinato un millennio prima, come potrebbe capitare a qualche essere umano con nozioni, progetti, sentimenti.
Gli storici raccontano che il Novecento fu festeggiato in maniera pirotecnica, era visto come il secolo delle rivoluzioni, del libero pensiero, della velocità. Le invenzioni si susseguivano spasmodiche, ed era soprattutto il cambiamento delle date a galvanizzare scienziati, letterati e governi di tutto il mondo. Furono organizzate crociere ardite, spettacoli di teatro d’avanguardia, feste che nulla avevano da spartire con la pomposa ovvietà ottocentesca. Ed era solo un cambio della guardia, si entrava negli ultimi cent’anni del primo millennio, tanti ne mancavano all'azzeramento, al giro di boa, al simbolo matematico del futuro. Anzi, le eccessive aspettative riposte nel Novecento hanno portato la bellezza di tre guerre mondiali, una ventina di conflitti internazionali e trentacinque sommosse civili. Sarebbe questo un motivo più che plausibile per non festeggiare per niente. Toccate ferro e incrociate le dita, ma immaginatevi cosa sta per accadere, voi che vi ci presentate vergini, recettivi, speranzosi. Annusatene l’aria, felici di potervi assistere! E vi prego, almeno il primo giorno del nuovo millennio, tenete spenti i telefoni cellulari”.
Sorridono, il gioco inizia a piacergli.
“Un antico profeta ci ha mandato le sue maledizioni, ma la iettatura funziona se si manifesta rapidamente, è a scadenza, come le mozzarelle. Non penso che salteremo in aria come fuochi artificiali, la settimana ventura. Invece sono preoccupato di sapere se ci sarà ancora la poesia, nel prossimo millennio, se si darà più spazio alle parole, piuttosto che alla voce. Quante altre cose verranno azzerate, oltre ai numeri?
Con queste considerazioni sul tempo che sarà, vi auguro buone vacanze. Pensate più che altro a vivere intensamente il veglione più importante degli ultimi novecentonovantanove, con una persona cara al fianco. Che poi, tanto, assicurano che il millennio vero inizierà il primo gennaio 2001”.

Così mi sono congedato dagli alunni della terza F.
Prima di questo pistolotto, ascoltato in parascolastico mutismo dai ragazzi, indifferenti persino alla vampata d’adrenalina che solitamente provoca il trillo della campanella, avevo tenuto l’ultima lezione del millennio sulla poesia.
L’ultimo grande poeta del secolo, Pierpaolo Pasolini.
Ho chiesto a Corrado di recitare La mistificazione è leggerezza in falsetto.
“Come, prof?”
“In falsetto! Hai presente il soprano Farinelli, o i Cugini di Campagna? O quegli altri, come si chiamano… i Bee Gees?”
“Quelli della Febbre del sabato sera, prof?”
“Proprio loro, Cattaneo”
Ci ha provato, ma gli veniva da ridere. Poi ha capito che non stavo affatto scherzando.
Si è fatto serio, l’ha letta tutta d’un fiato, con una vocina bianca bianca.
A ridere era la classe intera.

La mistificazione è leggerezza
La sincerità pesante e volgare
Con essa è la vita che vince
Deve vincere invece la giovinezza.

Era solo un esperimento.
Non l’hanno preso sul serio, siamo alle solite. Il docente secondo loro è antiquato e pedante, oppure moderno, informatissimo e odioso.
Se ama svariare, stupire, allora è completamente matto.
Lezione archiviata.
Corrado mi ha rincorso per il corridoio, ha dribblato un crocicchio di compagni, un bidello con la scopa e suor Matilde appoggiata alla finestra che maneggiava un Game boy sequestrato ad un alunno di seconda e trafelato mi ha chiesto dove avrei passato l’ultima notte del millennio.
E’ rimasto di sasso, apprendendo che sarei andato in Africa.
Forse anche lui è uno di quelli che m’immaginano perennemente rinchiuso in una topaia zeppa di libri impolverati, tra scatolette di cibo per gatti e pullover infeltriti, ammonticchiati sulla lavatrice; assorto in elucubrazioni che annullano il concetto di tempo, e quindi anche di vacanza natalizia, ed illuminano di polvere la scrivania su cui i gomiti hanno scavato solchi. Forse avverte l’odore di naftalina e carote lesse della mia casa, l’umidità delle pareti scrostate del bagno, la solitudine che tenta d’ingiallire i capelli grigio cenere. Misura la mia insonnia dalla profondità delle occhiaie, la misantropia dallo spessore delle lenti bifocali. Probabilmente mi considera uno strano animale intellettuale pleistocenico, combattuto tra l'astrattismo di concetti immortali ed il problema della sopravvivenza della specie.
A volte sono così.
“In Africa, professore? Ma a Sharm o proprio in Africa?”
Proprio in Africa.
Quello che non ho detto a Corrado è che non è stata una mia scelta.
Beh, non proprio.
Sono rimasto sorpreso anch’io, il giorno in cui Beatrice mi ha chiamato.
Non la sentivo da parecchio tempo. In realtà non mi ero mai fatto sentire, si era ricordata lei di un paio di miei compleanni, squarci d'ironia nei giorni più tristi della vita, che di solito amo trascorrere a letto, con l'amico di sempre che si materializza dalle pagine di un libro che di tanto in tanto riapro fin da quando ero adolescente. E’ Bernardo Soares, che mi rassicura dal suo ufficio di Lisbona.
Alla fine di un'estate incolore mi era arrivata, come un presentimento, una cartolina dalla Corsica firmata Beatrice: veduta dal’alto di una spiaggia incastrata nella roccia in cui eravamo stati con Lorenzo a diciotto anni.
Non è possibile, Roccapina!
Il bungalow che vibrava ad ogni raffica di vento, le serate al gusto di mirto, il mare dalle cento diverse sfumature d’azzurro... che nostalgia.
Avevo ricambiato con una veduta dell’Isola Comacina da Ossuccio, durante una gita con la classe. Non fui in grado di fare di meglio, ma era solo una maniera per ringraziarla.
L’ultima volta che avevo incrociato l’ex moglie di Lorenzo era stato alla fiera del mobile di Cantù, cinque o sei anni fa. Sedeva su uno dei suoi divani, nello stand della ditta ereditata dal padre.
Era in compagnia di un signore più maturo di lei, e molto distinto.
Sarà stata la vicinanza di quell’uomo o l’accostamento della sua esile figura a un austero sofà “barchetta”, ma la trovai invecchiata più di quanto avrei potuto immaginare.
Si alzò e mi venne incontro e mi volle offrire da bere. Dopo pochi secondi i fluenti capelli biondo platino si adagiavano con grazia sui cuscini di un Pagoda beige. Allora abbandonò i convenevoli e mi sorrise come avesse intravisto uno squarcio dei tempi felici.
Fu un attimo, mi disse semplicemente “Tutto bene, professore?” E si congedò, rapita da un potenziale cliente, togliendomi dall’imbarazzo di presentarmi il suo nuovo compagno che stava per fare capolino.
L’altra sera al telefono, invece, era diversa.
“Scusa l’orario, ho assolutamente bisogno di parlarti.”
La sua voce era grave, sottendeva una tensione emotiva che non le ho mai riconosciuto, lei sempre così distante da tutto: accomodante fino alla soglia dell'imbarazzo altrui, ma mai servile o entusiasta ; spontanea e passionale, ma raramente volubile o istintiva.
Mi sono recato a Villa Orsari pensando al peggio, attraversavo il deserto serale di Cernobbio convinto che riguardasse Lorenzo, che fosse successo qualcosa al nostro Lorenzo.
Era più di tre mesi che non ricevevo notizie da quel figlio di buona donna, ma poteva anche essere normale, ha sempre avuto paura di rivelarmi dove si trovasse ed a quali espedienti fosse costretto per sfuggire alla giustizia ed alle ricerche della prima moglie.
E se non è per Lorenzo, mi chiedevo, cosa vorrà così urgentemente una donna che non ha niente a che spartire con me da una quindicina d’anni?
Il massiccio cancello della villa si era spalancato elettronicamente, attraversai il parco con la mia utilitaria, sporcando il meno possibile con incerta carburazione il silenzio inglese che regnava, scortato da immobili olmi, guardato a vista dalle aiuole ben curate, fino a raggiungere il parcheggio.
I cani non emettevano mezzo latrato, ma nemmeno agitavano la coda; il maggiordomo mi accolse con uno sguardo vitreo da zombie.
"Benvenuto, professor Saveri"
Nel suo tono c'era la volontà di farmi intendere una situazione ben precisa, ma altresì l'obbligo di tacere e rimanere in armonia con la grande casa.
Qualcosa nella polvere dei quadri degli antenati, e nell’odore di medicinale del corridoio, mi mise in preallarme.
Beatrice era nel salone delle feste, sola e accucciata su una poltrona che la faceva piccola piccola, con le ossa protese il più possibile verso il tepore del camino.
Mi avvicinai, lei sorrise e la sua magrezza si estese al volto, pensai che forse era una mia impressione, le tesi le mani e mi chinai per abbracciarla.
Sussurrai un saluto, aspettavo che fosse lei ad esordire.
"Siediti, professore"
Era una voce stanca, che si sforzava di aprire le vocali per essere il più accomodante possibile.
Allora la esaminai meglio: gli zigomi che facevano ombra su quelle che un tempo erano le gote, i tendini del collo incuranti della pelle che durava fatica ad avvolgerli e tenerli insieme, i pochi capelli tenuti cortissimi e vistosamente tinti di rosso.
"Come stai?"
Sapevo bene che era una domanda delle più idiote, mi sforzai di usare il tono di chi ha capito che c'è qualcosa che non va.
Non era Lorenzo il problema, ma lei.
Prese un respiro che produsse come scintille di scossa, attraversandole i polmoni.
Non aveva lo sguardo di compiacente masochismo proprio di chi ha in serbo cattive notizie, e questo fatto mi allarmò ancor di più. Trascorsero due secondi tra il mio nuovo presentimento e la sua voce tremolante.
“Sono malata, Riccardo. Non mi resta molto da vivere. Forse riuscirò a vedere il duemila, i medici mi hanno detto che le cure che ho adottato sono tra le più rivoluzionarie, ma che nel mio caso possono solo ritardare... inoltre sono costosissime e molto dolorose. Mi sottopongo alla terapia, non per un morboso attaccamento alla vita, credimi, né per la magra consolazione di finire ai vermi nel nuovo millennio.”
Un altro respiro interminabile.
“Ho un solo desiderio: voglio rivedere mia figlia. Non è giusto che lei non sappia chi era sua madre, cosa ha lasciato per lei... Perché ogni giorno della mia esistenza ho pensato ad Alice. Nel corso di questi anni ho assoldato investigatori, ho pagato governi di almeno venti paesi, utilizzato gli appoggi politici di mio padre, ma non sono riuscita a localizzare il mio ex marito. Tu sei l’unico che ce la possa fare.”
Avevo inteso e, nonostante l’imbarazzo di assistere ad un dramma non mio ed il dispiacere di vederla in quello stato, mi sforzai di non chiedere cosa avrei dovuto fare. Mi limitai a mettermi a disposizione.
“Tu sei il solo amico che Lorenzo abbia conservato, puoi riuscire a scoprire dove si trovino, lui e nostra figlia. Ti pagherò il biglietto, ho già pronta una carta di credito da cui potrai attingere per ogni bisogno durante il viaggio, è illimitata. Ti chiedo di provare, di fare il possibile per riportare qui la ragazza. Solo per vederla, per parlarle, specchiarmi nella sua gioventù e regalarle uno sguardo di amore materno. Lei ne ha bisogno, ed io potrò andarmene serena.”
Cosa avrei potuto fare, se non annuire in silenzio e stringere le sue fragili mani, era già tanto che non mi fossi messo a frignare come un ragazzino, come la volta in cui scoprii che era stata a letto con Lorenzo, e non capivo per chi dei due stessi piangendo, di chi fossi più geloso.
“Va bene, Bea. Le mie ferie partono dal 22” le dissi.
“Lo so. L’aereo per Zanzibar è già stato prenotato. Non so in quale maledetta isola dell’Oceano Indiano o staterello africano si sia cacciato quel...”
Interruppi la sua invettiva.
“Le isole dell’Oceano Indiano sono tante, l’Africa è immensa. Non sarà facile scovarli”.
Beatrice chinò la testa, ricambiò la stretta di mano e chiese alla domestica una vestaglia più pesante, regalandomi una smorfia rassegnata.
“Ce la farai. Sei l’unico che può farcela.”
Trattenni le frasi di circostanza, i proverbi e le parole di speranza; soffocai quelle tristi, le sentite, sincere ma inutili mezze condoglianze che salivano dall'esofago. Non aveva accennato a eventuali rimorsi che avrei potuto covare.
In fondo avevo contribuito anch’io alla fuga di Lorenzo, indirettamente.
Sudavo, m'imposi di ritenere che fosse la vicinanza del camino.
Pensai soltanto a lei, al suo stato. L'avrei rivista?
Si alternavano nella testa altre mille domande, che vidi passare in un battito di ciglia.
Un migliaio di buste chiuse, come quelle dei quiz, c'erano tutti i quesiti di un'amicizia. Mi hai voluto bene? Sei stata gelosa di me e Lorenzo quando eravate fidanzati? In Grecia, quando vi spiai, ti accorgesti di me? Quella volta a Londra, mentre attendevamo Lorenzo in arrivo da Roma e c’era quella strana atmosfera, in hotel simulasti un attacco di colite perché avevi paura che finissimo a letto? Mi hai maledetto quando hai saputo che tuo marito era scappato con una mia allieva?
Adesso risponderebbe - pensai - a che giova mentire quando si è ad un passo dalla verità più grande di tutte?
Non ci provai nemmeno, la lingua era saldata al palato e sentii che, se avessi tentato di staccarla, l'avrei ingoiata.
Aspettai che fosse lei a congedarmi.
“Ricorda, la carta di credito è illimitata” le sue ultime parole.

venerdì 24 dicembre 2010

UN NATALE COME ME


Magari vi aspettavate che uno come me vi facesse gli auguri di Natale.
Uno come me non fa gli auguri di Natale.
Uno come me non fa gli auguri.
Uno come me non fa.
Uno come me.
Uno come.
Uno.
Uno già è tanto se si augura di essere come me.

domenica 19 dicembre 2010

TERZA ETA' IN TERZO MONDO: A MALINDI SI INVECCHIA BENE!


A Malindi si invecchia bene, non c’è che dire.
In questa grande botte di rovere climatizzata sull’Oceano Indiano, nel sud della prestigiosa cantina “Kenya”, apprezzata per il gusto selvaggio e agrodolce dei suoi prodotti, i retrogusti retrodatati, le etichette avventurose e l’infinita scelta di bouquet, continuano a maturare annate umane che in Italia sarebbero andate già da tempo all’aceto.
Allo stesso modo, è doveroso ricordarlo, ci sono anche numerose “gran riserve” di aceto che tentano l’avventura del “balsamico africano”, ma spesso rimangono buone solo per disinfettare le ferite dell’anima, del cuore o di uno dei pochi punti dove non batte il sole.
Malindi, luogo divino, anzi di vino, se vogliamo proseguire nella metafora.
Un tempo i pensionati italiani, per svernare e poi trasferirsi sempre più mesi all’anno, sceglievano mete meno esotiche e più vicine, fidando nella scelta economicamente più oculata e nei migliori servizi. Così per i milanesi era Rapallo, per i torinesi Pietra Ligure, per i fiorentini Forte dei Marmi o Cecina, per i bolognesi i Lidi Ravennati, per i romani un po’ dove capitava (e dove non li cacciavano dopo tre giorni) e così via.
Acquistavano prefabbricati per poche manciate di milioni, che d’inverno si riempivano di muffa, di gatti o di tossicodipendenti. I più fortunati riuscivano anche a trovare gatti tossicodipendenti ammuffiti. D’estate impraticabili, tra zanzare grosse come deltaplani e discoteche rombanti sotto casa, d’inverno il clima mite comunque non evitava il riscaldamento o un camino.
Le attività a mezzo servizio, gli ospedali messi sempre peggio, gli autoctoni in ferie o in letargo e i prezzi sempre più alti: ecco che in una ventina d’anni questi luoghi per anziani più o meno arzilli hanno perso il loro appeal. Così, pole pole come si conviene, si è fatta largo l’Africa.
Malindi: terzo mondo per terza età. La prima volta, ovviamente, in un villaggio turistico.
Vacanza rigorosamente fuori stagione, per approfittare dell’offerta all inclusive da 500 euro a settimana, compreso anche l’aereo! I primi tempi era meglio specificare, perché il Kenya fino a metà degli anni Ottanta era una destinazione d’elite, e nelle agenzie con 500 mila lire ti facevano vedere il depliant, un documentario e sentire l’odore di una scoreggia di ghepardo sottovuoto per entrare nel “climax”, altro che voli charter...
Oggi arriva l’allegra coppietta sessantacinquenne nel bell’hotel in riva al mare. Che gli importa a loro delle alghe? Tanto il bagno in mare non lo facevano nemmeno a Santa Marinella o ad Alassio. Una bella piscina, quella sì…rilassante e comoda, che ci si tocca e si può mettere il braccio sul bordo per ricevere un cocktail di frutta analcolico dal cameriere o ricevere un pestone dall’animatore rasta, distratto e saltellante. Fa un po’ troppo caldo, ma le ossa a una certa età preferiscono il tepore al freschetto, le zanzare sono un falso problema, perché il sangue di uno che ha respirato per più di mezzo secolo lo smog delle città italiane, fa schifo anche a loro.
Il Kenya è tutto positivo, e non solo siero! La coppietta, entusiasta, viene avvicinata da un venditore italiano (finto) giovane, (finto) dinamico e (vero) paraculo che illustra loro altri numerosi vantaggi del vivere a Malindi. Il maggiordomo a 70 euro al mese, il cuoco a 100 euro al mese, la badante a 120 euro al mese più gli extra per il marito, l’autista a 140 euro al mese più gli extra per la moglie. In più i venditori di case, dalla fine degli anni Novanta, devono ringraziare un elemento aggiunto: non il calo dei prezzi delle tegole canadesi e nemmeno l’importazione degli economici sanitari cinesi. L’elemento aggiunto per far vendere ancora più case è piccolo, piccolo, piccolo…tre centimetri di pastiglietta azzurra. Da allora, chissà come, i mariti spingono molto di più per la destinazione finale Kenya. I primi tempi portano la moglie in safari, la stancano con le gite in barca, con camminate sulla spiaggia, la iscrivono al golf, la mandano al mercato a scegliere personalmente la frutta e le ceste in vimini, a prendere il sole alla Rosada o al Parco Marino tutti i giorni…sperano di sfinirla e farla addormentare presto la sera per poi uscire di sottecchi ed andare a ballare al Fermento. Risultato: le anziane signore rifioriscono, si abbronzano, conoscono gente, imparano la lingua, capiscono vita e tempi africani. Vivono una nuova stagione e contraggono il mal d’Africa.
I mariti si gonfiano di birra, hanno occhiaie da tiratardi, si perdono dietro a ragazzine che li fanno soffrire come quando erano adolescenti e contraggono lo scolo (se gli va bene…).
Immaginate la scena: il marito torna a casa alle sei di mattina, dopo essersi ubriacato per attendere la fidanzata occasionale che si è attardata a ballare fino a tardi. Si è addormentato sul suo seno d’ebano e non ha fatto niente, in compenso aveva preso la pastiglia ed è stato cacciato a pedate fuori dalla sua stanzetta in affitto. La moglie, intanto, è già sveglia e pimpante, sta mangiando ananas e mango e si prepara al jogging mattutino in compagnia di Katana, il suo personal trainer. Lo vede presentarsi strepennato come Jack Nicholson nelle Streghe di Eastwick e con una roba gonfia in mezzo alle gambe che non aveva mai visto.
“Eginio…ma dove sei stato…che ti è successo…mi hai fatto stare in pensiero…ma…cos’hai nei pantaloni?”
“Lascia perdere…una serataccia…mi ha punto uno scorpione, mi hanno portato all’ospedale in stato di semincoscienza…ma ti ho mai detto che sei ancora una donna bellissima…vieni qua, mia leonessa d’Africa!”
“Eh…ma che dici…devo andare a correre, caro, che poi alle nove ho la parrucchiera per le treccine”.
Non sempre l’armonia di coppia viene esaltata in questo modo a Malindi, c’è anche chi non coltiva velleità “sentimentali” e preferisce un’intensa attività intellettuale: partite a scopa, pettegolezzi al bar, allegre dissertazioni su cateteri, dipartite e figli irriconoscenti, come nelle migliori tradizioni italiche. C’è chi insiste che a Malindi mancano le infrastrutture, che la popolazione locale non s’impegna abbastanza per lo sviluppo economico, che i turisti non vengono perché mancano i servizi…la verità è che il tempo passa e i residenti invecchiano, i pensionati di un tempo oggi sono già ultraottantenni e hanno bisogno di divertimenti…con altri arrivi il “gerontokenya” potrebbe diventare un business! Basterebbe poco per riempire ancor di più Malindi: un bell’ospizio con procaci infermiere locali in gonnellina e aitanti damoni di compagnia, un paio di bocciodromi con Kazungu che sposta le bocce, la tusker al posto della spuma e il rutto libero, un ristorante con menù di brodini digestivi di coccodrillo e samosa purganti alla papaia, un parco con panchine e una fontana nel mezzo, una bella rivista scandalistica tipo “Malindi 3000” da commentare e un moderno, elegante cimitero tropicale dove prenotare la propria lapide in pietra saponaria con il proprio mezzobusto in puro ebano.
Allora sì che Malindi sarebbe quella che abbiamo sempre sognato per il nostro futuro.
Un enorme, rigogliosa, equatoriale casa di riposo Villa Arzilla.

sabato 18 dicembre 2010

IL CONGO PRIMA DEL DERBY E LA VERTICALE DEL CARONI


Cazzi vostri, io me ne vado in Congo.
E per farvi capire che non è una provocazione, ci vado prima del derby. Mi spiace per i pochi fratelli che lascio e le fidanzate caucasiche occasionali, per le fidanzate dei fratelli che sono sacre e per le mogli che sono già più profane. Mi dispiace perdere la partita che vedrà le prodezze di Toni, l’esplosione di Rafinha, gli slalom di Mesto, la mobilità di Veloso e la panchina di Kharja. Sognerò un gol di Destro che per me non è scarso…no, però non è nostro…una doppietta di Rudolf. Ci arriviamo più invertebrati che mai, a questo appuntamento tradizionale. Come fosse la sagra delle puntarelle fuori stagione, come sapessimo già che finisce 0-0.
Mi spiace, amici; ma l’Italia mi ha veramente rotto i coglioni e non ci voleva Daniele Silvestri per capire che non sono il solo.
Me ne vado in Congo perché lì, quando un regime diventa ridicolo, si scende in strada e si fa la guerra.
Me ne vado in Congo perché in Africa c’è una logica delle cose: lagggiù non vedrai mai un disoccupato all’interno di una casa a rischio di crollo, con in mano un I-Phone.
Me ne vado in Congo perché voglio registrare un disco con una sublime band di musicisti di strada poliomielitici, che si chiama Staff Benda Bilili e se non ci credete, oltre ad essere cazzi mosci vostri, ascoltatevi il loro disco “Trés Trés Fort” e poi mi dite. Ma sottovoce, che mi sta sul culo quando la gente mi da ragione.
Me ne vado in Congo soprattutto per godermi la festa che ci sarà quando il Mazembe Football Club diventerà campione del mondo per club, dopo essersi inchiappettato i brasiliani.
Congo! Paese corrotto, incivile, zeppo di soprusi, governato da idioti pericolosi. Direte, dove sta la differenza? La differenza è che il divario tra ricchi e poveri è immenso, ma i ricchi sono lo 0,1 del Paese, non il 15 per cento!
Sono troppo incazzato e troppo poco furbo per commentare la fiducia al parlamento italiano, gli scontri di strada a Roma e degli infiltrati.
Per parlare dello schifo ho assunto un portavoce, l’ostricaro. E’ un personaggio che molti vorrebbero portassi con me in Congo e invece resterà, per scrivere un libro sulle memorie di Giorgio Bubba.
Ora però vi racconto una cosa vera: sono salito su un treno a Genova Brignole, ieri pomeriggio, e c’era un uomo che inveiva contro i passeggeri. A un certo punto ha tirato fuori il fontanile di carne e ha pisciato addosso a tutti! Ci sono volute cinque persone per bloccarlo, la polizia per identificarlo e un inserviente per disinfettare il vagone.
Il treno è partito con mezzora di ritardo e io avrei voluto tanto applaudire. Sui giovani d’oggi io ci scatarro sopra, sugli altri una bella pisciata magari sveglia.
Per calmare i nervi potrei parlare del Genoa, ma a chi interessa? Il nostro campionato, mi sembra di aver capito, si chiude domenica sera. Lo ha detto chi ne sa più di noi e io approvo parola per parola, lo sapete bene che sono aziendalista.
E’ un’annata iniziata male e progredita peggio. Non vedo l’ora che questa stagione finisca. Facciamo il derby, giusto perché è una partita storica, poi tutti in Congo, a vedere il Mazembe.
Oltretutto non c’è nemmeno la tessera del tifoso e si può andare a Kinshasa da Lumbumbashi con la sciarpa al collo. Al limite te la rubano i ragazzini che sniffano colla negli slum di periferia. Almeno si potessero giocare le partite in modalità manager, ci potremmo concentrare sul calciomercato di giugno.
Direi che si può tornare dal Congo giusto a giugno e luglio, quando lì piove e qui apre l’Ataquark.
Ci sono rimaste poche cose che danno soddisfazione, in questo stivale dei maiali. Mangiare, bere, la fica nostrana e un manipolo di tifosi rossoblu. Il resto lo trovi da qualsiasi altra parte. E anche il mangiare e bere, d’esportazione, se hai i soldi.
Ma il manipolo…di fronte al crollo verticale dell’Italia, prima di partire per il Congo, mi sono goduto uno di quei pranzi che non si dimenticano facilmente, se non con una lobotomia e una settimana di palestra. Tagliolini al tartufo bianco, tagliatelle al ragù di cinghiale, maiale al forno con patate, polenta e brasato e un numero compreso tra il cinque e il venti di varietà di dessert.
Tutto preparato da un uomo solo, con l’aiuto della moglie.
Potrei parlarvi dei vini, invece vi illumino sulla “verticale del Caroni”, unico antidoto contro un Paese allo sbando e contro i lanci morbidi di prima di Omar Milanetto.
Alla fine di un pasto del genere, di fianco a persone consenzienti (e che non vedono l’ora che ve ne andiate veramente in Congo) aprite una bottiglia di Caroni del 1993, che se lo sapete è un’annata unica nella storia del Caroni. Quell’anno i dipendenti della fabbrica misero in mora la società, ma non si chiamavano Meggiorini e Britos e la Caroni dovette chiudere. Per salvare quel che stava nelle botti, dato che la stagione era iniziata male e tutti speravano finisse presto, imbottigliarono il rum anzitempo.
Così invece di raggiungere il giusto invecchiamento e la famosa gradazione di 55,3°, si fermò “solo” a 44,5°. Si assaggi un bicchiere di Caroni 1993, lo si sorbisca piacevolmente, conversando e accompagnandolo con cioccolato fondente alla cannella.
Poi si passi al Caroni vero e proprio, dal 1992 a scendere. Dapprima sentirete il bruciore in gola che ho provato quando ho visto Gasparri saltare come Ricky Martin quando fa “un dos tres, alè alè alè”, poi respirerete roba forte come davanti a Montecitorio e infine capirete che ogni caduta verticale può essere compensata con un’ascesa di gusto.
Perché le stagioni, se vale la pena di vivere, non dovrebbero finire mai.
Solo una verticale, forse, ci salverà.
Io, intanto, me ne vado in Congo e mando cordialmente tutti quelli che non sono miei fratelli, a fare in culo.

giovedì 9 dicembre 2010

EUGENE E CHARLES: DAL SOGNO ALLA GIOIOSA REALTA'


Il ciak è da film neorealista, di quelli con Alain Delon nel grigio freddo invernale in un'imprecisata località di mare italiana. Passeggiano sulla ghiaia del bagnasciuga, lanciano sassi alle onde impetuose, ridono e cacciano le mani infreddolite in tasca.
Ma non è la Rimini di "La prima notte di quiete" di Zurlini, bensì la Pegli di SkySport 24. Attori: Charles Bruno e Eugene Moses. Ieri il capitano della Karibuni-Genoa di Malindi e il suo viceallenatore sedicenne, titolare della nazionale Under 20 keniota, hanno vissuto una delle più felici giornate della loro vita. La televisione sportiva li ha seguiti passo passo durante la loro esplorazione al Signorini. I loro occhioni sgranati nel seguire i movimenti di Ranocchia e Toni, le parate di Eduardo durante l'allenamento a porte chiuse, parlavano il sincero e muto linguaggio dell'entusiasmo. Dopo il battesimo con la nuova realtà, hanno incontrato i campioni. Bruno, centrocampista difensivo trasformato in difensore centrale, voleva stringere la mano a Ranocchia. "E' vero che se si gioca bene nel Genoa, poi si può andare facilmente all'Inter e al Milan?". Charles lo chiede sottovoce, Riccardo Re di Sky lo rilancia a Ranocchia che chiede gentilmente di glissare, ma si mette di fianco al suo "collega" di reparto. "Allora sarai il mio sostituto...ma non a gennaio, eh?". Si ride, ancor di più con Franco Zuculini, quasi un coetaneo. "Tra quattro anni, ci incontreremo ai mondiali, Argentina-Kenya...". Mentre i due ragazzi della scuola calcio rossoblu in Africa vagano estasiati tra le porsche e i suv dei giocatori del Grifone, passano alla spicciolata Rafinha, Kaladze ("come li capisco, anche i bambini in Georgia hanno gli stessi sogni" e infine il loro "sogno" di giornata: Luca Toni. "He's a world champion" spiega il "fratello maggiore" Charles al quattordicenne Eugene.
Si stringono la mano, Toni fa loro gli auguri per la carriera e per la partita dell'indomani, con i giovanissimi contro il Mondovì. Altre riprese in giro per Villa Rostan, occhi appesi agli affreschi e alle coppe. Ed ecco mister Ballardini. Parla in inglese con i ragazzi e prende sotto braccio Eugene. "Quanti anni hai, 14? Mio figlio ha un anno in più di te". Il sorriso reciproco è davvero quello di un padre e un figlio, per Eugene che ha perso il suo, soldato semplice nell'esercito, quando ancora non riusciva a dare calci al pallone.
"Voglio giocare nel Genoa, è il mio sogno" dice Charles Bruno all'uscita da Villa Rostan. Ed eccoci nel film di Zurlini. Le interviste in riva al mare, le riprese mentre mangiano la focaccia di Priano a Voltri, la più buona della riviera. L'immagine della giornata di gioia immensa avviene però a telecamere spente. In riva al mare, Charles fa il gesto di saltare in groppa al piccolo Eugene. I due esplodono in una risata contagiosa: "ti rendi conto di quanto siamo felici e fortunati?".
E' solo l'inizio della loro fortuna e speriamo anche di una felicità infinita.
Ma i più fortunati siamo noi, salvati dalla loro gioia e orgogliosi di ammirare nei loro occhi la serenità perduta dell'amare il calcio e la leggerezza nel coltivare i sogni come piante rare nel deserto dello smarrimento umano.

domenica 14 novembre 2010

EUGENE E CHARLES, IL SOGNO DEI GRIFONCINI ROSSOBLU SI AVVERA


L’avventura dei grifoncini kenioti sbarca a Genova, nella “Cantera” rossoblu.
Esattamente un anno fa la conferenza stampa di presentazione del progetto a Villa Rostan. Nata da un libro dello scrittore e tifosissimo genoano Freddie del Curatolo (“Genoa Club Malindi", edizioni Liberodiscrivere), promossa dalla vendita dei libri allo stadio da parte dei Grifoni in Rete e appoggiata da un importante Onlus, la Karibuni di Como, la prima scuola calcio di una squadra italiana in Kenya è stata sponsorizzata con gioia e disponibilità dal presidente Preziosi e dalla società.
Un progetto sociale che ha permesso a oltre mille ragazzini di uno dei distretti più poveri e problematici del paese di avvicinarsi al mondo del calcio e alla filosofia del Grifone. La scuola calcio Karibuni-Genoa fa studiare 24 ragazzini dai 10 ai 14 anni, offre loro assistenza medica, lezioni di educazione civica e di aggregazione, insegna l’italiano, propone eventi, trasferte, interscambi. Migliora ogni giorno la vita di questi ragazzi ed è d’esempio alla comunità intera di Malindi. Ogni sabato, per la partita, accorrono allo stadio centinaia di coetanei e i dati sul calo della microcriminalità adolescenziale, secondo il prefetto di Malindi Arthur Mugira, sono anche da ascrivere al buon lavoro della scuola calcio. A dirigerla una vecchia conoscenza delle giovanili genovesi, sponda doriana, però. Si tratta di Riccardo Botta, passato da centrale (con Sereni in porta e Vergassola a centrocampo) nella primavera blucerchiata, mentre i grandi erano Mancini e Vialli. Dopo la trafila nelle nazionali azzurre, qualche incidente e un’onesta carriera tra serie C (Savona, Latina) e campionati dilettanti (Vado, S.Vincent, Saviglianese). Poi la scelta di aprire un’accademia di calcio in Africa, la Malindi United a cui la scuola calcio Karibuni-Genoa si è affiliata.
Ora, dopo un anno di duro lavoro e di tanti problemi, ma anche grandi soddisfazioni, due talenti del Karibuni-Genoa e della Malindi United approdano a Genova per un “ministage” con i pari età rossoblu della “cantera”. Un’avventura straordinaria che i ragazzi si porteranno dentro per tutta la vita e che potranno raccontare ai coetanei al loro ritorno in Kenya, trasmettendo loro l’evocativa forza del sogno, che qui rende questo sport ancora qualcosa che può cambiare la vita e renderla migliore a migliaia di ragazzini. Eugene Moses, capitano del Genoa malindino, è stato tolto dalla strada, orfano di padre, e ora per seguire il suo sogno è diventato il più bravo di tutti a scuola. Ha solo 14 anni ma la serietà di un professionista. Quando segna, bacia lo stemma del Grifone della sua maglia rossoblu. Ringrazia chi gli ha dato questa grande opportunità.
Charles Bruno, sedici anni, da Malindi è già diventato titolare della Under 20 del Kenya e sogna di diventare il nuovo Mariga. Sbravati e Pinna non vedono l’ora di osservarlo all’opera. L’intento sociale e la grande avventura prima di tutto, ma questo talentino merita di essere seguito.
Eugene e Charles arriveranno a Genova il prossimo 6 dicembre e l’iniziativa sarà presentata con una conferenza stampa. Verrà anche girato un film documentario sulla loro avventura a tinte rossoblu.

lunedì 8 novembre 2010

ADDIO AL ROOTS, UNA PARABOLA AFRICANA


Questa è la storia di un grande albero che, con gli anni, ha l'umiltà di tornare alla terra, dopo ogni ascesa, e rinascere più forte e saggio di prima. Ma è anche la storia della crudeltà umana, di quell'animale capace di distruggere sogni e passioni per soddisfare i propri interessi. Nell'ultimo anno, a Malindi, centinaia di turisti e tanti residenti hanno scoperto la magia del Roots, un insolito locale costruito in mezzo a un ficus zanzibarica di novanta metri di diametro. Le sue radici aeree formavano delle robustissime grotte a pioggia, sulle quali erano state costruite due solide palafitte. Usiamo il passato, perchè nei giorni scorsi il legittimo proprietario di quell'albero e del terreno in cui è compreso, ha iniziato ad abbatterlo. Ci farà delle abitazioni, probabilmente. Ma soprattutto, chi ha creato quel luogo e la sua leggenda, non ha detto tutta la verità ai suoi ospiti e sostenitori. Noi di malindikenya.net, grazie a fonti sicure, documenti originali e ricostruzioni, ci siamo andati molto vicino: i proprietari del terreno su cui sorgeva il Roots, erano due tedeschi, marito e moglie. Alla morte del coniuge, la consorte Ute Shlitt, malata, decide di tornare in Germania e lascia una delega a un suo uomo di fiducia locale, per vendere o affittare la sua casa. L'uomo di fiducia dopo qualche anno ipoteca il terreno presso una banca e scappa con i soldi. Più avanti, la banca allo scadere dell'ipoteca decide di rivalersene e diventa proprietaria del terreno. Nel frattempo un amico della signora tedesca si fa fare un'altra delega, per evitare di perdere il terreno, ma è troppo tardi. La banca lo mette all'asta e trova un acquirente a cui del grande albero interessa relativamente. Così chi nel frattempo ha trasformato il terreno nel bar ristorante giriama che molti hanno visto e conosciuto, pur avendovi fatto partecipare la gente del vicino villaggio, è stato accusato di appropriazione indebita ed è finito in prigione. Tante però sono le ombre oscure dietro alla persona che gestiva il Roots. Al di là della triste vicenda, a noi spiace che quasi nessuno abbia seguito il nostro monito, di preservare il bellissimo ficus dalle radici aeree. Abbiamo provato a chiedere all'organismo che tutela le bellezze ambientali, ad associazioni locali. Forse anche noi siamo arrivati troppo tardi, il ficus zanzibarica del Roots avrebbe dovuto diventare monumento nazionale, e invece probabilmente le sue radici fatte a pezzi saranno il monumento alla ferocia dell'uomo. (tratto da malindikenya.net)

sabato 6 novembre 2010

FREDDIE BECCIONI: PER NON FARE I PESCI SPADA ALLA VUCCIRIA


Io sono già a Palermo, perché credo nella svolta.
E ve lo dico senza ironia, mordicchiando una stigghiola al mercato della Vucciria.
Ne avevo piene le palle dei caos mediatici, degli amici bulicci di destra che minacciano il suicidio, del figlio di Bondi che non sa più che pesci pigliare, dei figli vostri che hanno imparato a nuotare nella merda in cui da vent’anni indecorosamente anneghiamo.
Qui, nel bordello colorato della piazza del Garraffello, in questo concitato quadrilatero nel bel mezzo del Cassaro, i pesci che attirano la mia attenzione sono parenti del defunto Paul e le sarde che ti aprono e deliscano davanti.
Qui c’è vita, sangue, urla, respiro, sudore, tensione. Roba vera.

Io a Palermo godo. E’ una città coi controcazzi, credetemi. Questa è l’Italia che vorrei, mica la Brianza o Roma, che oltretutto è stata conquistata dai brianzoli.
I siciliani mi piacciono e, anche se preferiscono lo sticchio alla ciolla, non te lo direbbero mai in faccia, perché farsi vanto di un luogo comune non è da loro e sprecare un’offesa gratuita è come sparare a salve su chi ha importunato la tua mugghiera.
Io qui mi ripulisco, non importuno (son mica scemo), bevo poco e, vabbè, mi tiro qualche sega.
Ma questo mica ve lo devo dire per forza, eh?
Parliamo di calcio, piuttosto. Il Palermo è reduce dalla campagna di Russia, questa Europa League che tutti se la tirano quando la conquistano e poi non se la caga nessuno. Avevo una compagna del ginnasio che subiva questa strana sorte. Ma con lei c’era un motivo evidente, aveva dei peli lunghi, neri e resistenti sulle tette, in prossimità dell’areola. Mica uno o due, erano tanti! Ciuffi cattivi e selvaggi che sembrava potessero imbrigliarti ed annodarti a morte! Bisognava vedergli però quella gramigna antierezione, per rimanere inorriditi e fuggire via lontano. Il passaparola non funzionava, se cercavi di avvertire un compagno di scuola, quello pensava che glielo avevi detto perché avevi fatto cilecca. Quindi lei, che incomprensibilmente non interveniva con cesoie speciali, ti sguinzagliava sedici centimetri di lingua salmistrata in bocca e sul più bello, sparapam!
I capel-zzoli!
Qui invece c’è poco da capire e da agitarsi…probabilmente si ritiene troppo difficile e casuale arrivare in fondo, come ha fatto l’anno scorso l’Atletico Madrid, e si punta sul campionato, per sperare di arrivare ai preliminari di Champions League, senza lingua salmistrata, uscire subito e tornare in Europa League.
Ah, dolci problemi che finché c’è Gasperini non avremo. Lui questi problemi li risolve alla radice e non ha peli superflui, né sulle tette, né tantomeno sulla lingua.
Ma non sono qui per fare sterili polemiche. Sto bene, sono tranquillo, a Palermo. Posto ospitale dove non sanno cosa sia il Caroni ma ti offrono Syrah. Quindici gradi e vento primaverile, sento che sarà la svolta. Intanto Kaladze diventa titolare fino alla fine del campionato, poi la condizione fisica di chi è ancora vivo sta crescendo e Toni vuole tornare al gol.
Vedrete che non sarà il solito Genoa timido nella prima frazione di gioco, che poi va sotto e non riesce a recuperare. Sarà una partita d’epoca, della prima era gasperiniana, del pleistocene crotonese. Non faremo la fine dei pesci spada.
Il lavaggio del cervello in fondo è semplice come quello delle sarde insanguinate. Edo vale Rubinho? Direi di sì. Dainelli sarà meglio di De Rosa? Ranocchia non vale cinque Masielli? Rafinha è o non è un capitan Rossi coi piedi buoni? E vuoi mettere questo Mimmo con Danilo o Fabiano? Rudolf o Palacio con Leon? Se Zuculini farà lo sforzo di diventare bello e intelligente come Juric, possiamo senza difficoltà ripetere il divertente campionato del primo anno di serie A.
Questa sarà la partita del pressing, lo voglio e lo sento.
L’odore dei pomodori secchi mi porta via, come la fragranza di spezie in strada cantate dagli Yo Yo Mundi, che sono bravi ma quel cazzo di erre moscia del cantante non riesco a farmela andare giù, mi ricorda Mesto schierato all’ala.
Però il profumo dei limoni, l’emozione delle cucuzzedde, queste interiora d’agnello spalmate su melanzane o cipolle alla carbonella. Il Palermo gioca così, ti appassiona, ti diverte e fa un po’ di casino. E’ un mercato di piazza di folate, passaggi, con Pastore che condisce le cose fresche e preziose e gli sloveni che fanno un po’ di casino ma va bene lo stesso, con un pubblico di “abbanniati” a sgolarsi, pur senza dover vendere nulla.
E noi? Savoiardi al Moscato, rischiamo di fare la parte del dessert, che qua se ti “escono” i cannoli, facciamo ridere anche con il dolce. Bisogna tornare a pensare da camalli, ad agire da emigranti del riso con i chiodi negli occhi. Ma chi glielo dice ai nostri ragazzi?
Deve essere pressing, deve essere squadra corta, contropiede, grinta.
Altrimenti sarà la danza dei pesci spada alla Vucciria.
Ma almeno mi sarò goduto Palermo.

mercoledì 3 novembre 2010

PANTALONCINI NUOVI E UNA NUOVA SFIDA: LA GIOIA DEL GENOA YOUTH MALINDI


In Africa contano gli occhi.
Sguardi penetranti e vivi vestono la povertà di fame e paura, ma anche di curiosa libertà, il dolore di lacrime e stanchezza, ma pure di fratellanza e lotta.
Sono gli occhi a gioire, prima ancora di un sorriso strappato alla timidezza, all’ombra delle antiche angherie bianche.
Lo sguardo del piccolo Eugene, in mezzo al verde savana dello stadio di Malindi, porta con sé la fierezza del capitano e la felicità da condividere con i 23 compagni del Genoa Youth Karibuni.
Lui per primo ha ricevuto la divisa completa: le splendide maglie rossoblu che finalmente si possono abbinare a pantaloncini tutti uguali, bianchi, e a calzettoni che non sono quelli ufficiali ma almeno sono per ognuno e fanno sentire i ragazzi ancora più uniti.
Il regalo dei Grifoni in Rete è l’occasione per fare festa.
Tutti in fila per le foto ufficiali, con Eugene che di colpo si fa serio e mette in riga gli altri. Quattordici anni, figlio di un’agente penitenziaria e di un soldato dell’esercito morto durante la guerra civile, lui alla carriera da calciatore ci crede ma se non riuscisse a trovare spazio almeno nella Premier League keniota, sa che gli converrebbe prendere un fucile in mano, per guadagnarsi da vivere.
Intanto, con ottimi voti, si avvia verso la scuola superiore e, serio e diligente com’è, troverà sicuramente qualcuno che lo aiuterà fino almeno al diploma.
Eugene distribuisce pantaloncini e calzettoni, il primo ad accaparrarseli e Janji Mwangemi, il bomber della squadra.
Dodici anni, fisico da piccolo corazziere, movenze da pantera e un’intesa già buona, guarda caso, con il capitano.
Ha i numeri, Janji, ma deve essere seguito un po’ a scuola, perché spesso “dribbla” anche lo studio. Eugene e Janji sono le due stelline del Genoa di Malindi.
Ma la scuola calcio ha creato un gruppo affiatato, e lo si vede negli allenamenti settimanali, con mister Ben Ouma (ex portiere di Premier League con un’esperienza in Belgio) che impartisce ordini, sfogliando il librone degli allenamenti didattici della FGCI.
C’è Baraka, adottato a distanza da una coppia di genoani di Sestri Levante, che da terzino destro, una volta presa confidenza con il campo e i polpacci degli avversari, è diventato un ottimo centrale, c’è Mystic (il papà “rasta” gli ha dato questo nome perché ascoltava “Natural Mystic” di Bob Marley) che fa il medianaccio e copre le avanzate del capitano, che è sempre nel vivo dell’azione. Ci sono i minuti e velocissimi George e Nelson che fanno gli esterni di centrocampo nel 442 di Mister Ouma che diventa all’occorrenza un 4231, con la seconda punta Fahad che arretra.
Quel che sorprende, dei grifoncini rossoblu, è come assimilino in fretta schemi e modo di giocare.
Dopo le foto di rito con la divisa scintillante, la partita sulla carta si presenta ostica: di fronte c’è l’agguerrita compagine di Kisumundogo, quartiere “slum” della periferia malindina.
L’under 14 è formata da ragazzi che si spera non seguano le orme di fratelli spacciatori, ladruncoli che entrano ed escono di galera o, alla meglio, beach boys che adescano turisti e turiste in spiaggia e vivono alla giornata.
Per questo motivo, prima della partita, c’è l’incontro tra i nostri ragazzi e la squadra sfidante. Ci si presenta, si scambiano le esperienze e Eugene e compagni spiegano come attraverso il calcio e i buoni vuoti a scuola, si possa migliorare la propria vita e sia più facile trovare qualcuno che ti aiuti a portarla sulla via di un futuro senza patimenti e pericoli.
I “ravatti” di Kisumundogo assorbono la lezione, ma poco dopo, in campo, mostrano subito le unghie e i muscoletti.
Ma con i girpantaloncini non ce n’è per nessuno, i grifoncini kenioti sono concentrati e dinamici. Dopo dieci minuti, Janji sfrutta un errore della difesa e infila con un preciso diagonale. Eugene fa a sportellate e prende calci, da uno di questi nasce un’anelata punizione dai 18 metri che calza a pennello per il suo sinistro a girare: al ventesimo è già 2-0.
Il tempo si conclude con la perla del pomeriggio, trangolazione Fahad-Eugene-Janji, dribbling secco del nostro bomber e gran gol!
L’esultanza dei ragazzi è una cosa da film. Tutti insieme alla bandierina ad abbracciarsi come se in palio ci fosse la coppa dei campioni d’Africa.
Gli occhi compongono uno sguardo solo, di complice felicità. Gli sguardi sono al cielo equatoriale, sono ai fratelli che li applaudono dall’altra parte della rete di ferro, ai genitori che non ci sono più o che è come se non ci fossero mai stati, a quelli che si spaccano la schiena rompendo coralli, che intrecciano palme secche per fare i tetti, alle giovani madri che vendono coloratissimi parei, che trasportano taniche piene d’acqua lungo la grande strada asfaltata o di sera si offrono a rozzi e vecchi turisti.
Il Genoa Youth Karibuni è quello sguardo liberatorio, quel sorriso al futuro.
Si potrebbe discutere per ore su cosa sia la gioia, in cosa consista il benessere, cosa ci faccia sentire appagati. Io penso sempre ai coetanei italiani di Eugene e Janji, di Baraka e Mystic.
Alla loro noia, al nichilismo e allo sconforto, all’inconscio collettivo stuprato dall’immoralità e dallo schifo della classe governante.
Vorrei si potesse tornare all’origine delle cose, dei sentimenti, delle sorgenti della gioia, delle passioni. Poter dire loro, citando un filosofo dei nostri tempi, che “libertà è partecipazione”.

venerdì 29 ottobre 2010

CIAO RINO, BUON SESSANTESIMO COMPLEANNO!


Chissà come si vestirebbe oggi Rino Gaetano. Cilindro e bastone sono evergreen che anche a sessant’anni farebbero la loro scena, d’altronde piacevano anche a Petrolini e Buscaglione, due idoli di gioventù del ragazzo di Calabria emigrato a Roma. Già, perché oggi il “fratello figlio unico” della canzone italiana festeggerebbe il suo sessantesimo compleanno. Se un maledetto frontale all’alba sulla Nomentana non se lo fosse portato via, ventinove anni fa, Rino sarebbe ancora lì a ridere di noi, di sé e degli altri e a raccontarci con poetica ironia quello che accadrà tra un paio di decenni. Già perché lui, la società attuale, l’ha già descritta e cantata negli anni Settanta. Vi sembrano versi anacronistici questi? “A te che odi i politici imbrillantinati, che minimizzano i loro reati, disposti a mandar tutto a puttana pur di salvarsi la dignità mondana” o “Beata è la guerra, chi la fa e chi la decanta, ma più beata ancora è la guerra quando è santa”.
E’ così lontana da noi la speculazione edilizia di “Fabbricando case” o l’indifferenza generale di “Nuntereggae più”? Rino forse sapeva di doverci lasciare presto, e ha immaginato per noi il mondo che sarebbe venuto. Graffiando e sorridendo, con uno sguardo agli ultimi ed uno ai poteri forti, guardandoli negli occhi. “Io scriverò sul mondo e sulle sue brutture”, prometteva, e questo ha fatto. Forse riusciremmo a immaginare i suoi vestiti, il ghigno agrodolce, lo sguardo oltre. Ma è alquanto azzardato tracciare un profilo di un ipotetico Gaetano sessantenne. Già negli ultimi mesi di vita aveva palesato una insofferenza per la discografia che lo etichettava come “giullare” sospeso tra ironia, spontaneità e satira di costume. La profonda onestà intellettuale non gli avrebbe fatto certo pubblicare dischi solo “per campare”, non sarebbe mai diventato un artista fotocopia di sé stesso, triste, deluso o sui generis come tanti suoi colleghi, per primo il caro amico Antonello Venditti da cui nel 1980 già prendeva le distanze. C’è chi lo vede “fustigatore”, una sorta di Beppe Grillo in musica, chi uomo di spettacolo alternativo alla Gaber del sud. Secondo l’amico di sempre, Bruno Franceschelli, Rino sarebbe tornato al suo primo amore: il teatro. Probabilmente ha ragione, chi meglio di lui ne conosceva le velleità artistiche e le tensioni umane. Con la società in continuo peggioramento, le canzoni non sarebbero bastate a contenere i suoi strali, i quesiti, gli urli di dolore e gli sberleffi. D’altronde aveva già previsto la P2, le lobby che mettevano d’accordo economia, politica, spettacolo, calcio e mondanità. Magari lo vedremmo girare i palatenda con Paolo Rossi, dividere il palco con Marco Travaglio o Sabina Guzzanti o chissà, starebbe lavorando a un grandioso musical sulla storia d’Italia...ma sono tutte supposizioni, soltanto parole forse inutili. Dettate solo dalla voglia di dire a Rino che, oggi più che mai, ci manca uno come lui che sappia farci ridere d’intelligenza senza prendersi troppo sul serio, che ci faccia guardare avanti senza paura e senza perdere di vista il presente. Quel che resta da fare è prendere un vecchio vinile (molto meglio di un’antologia remixata o di una fiction senza cuore) e mettersi a riascoltarlo. Se poi dovesse materializzarsi davanti a noi un signorino di una certa età, con bombetta e bastone, non avremmo altro da dirgli, se non “Ciao, Rino!”.

lunedì 25 ottobre 2010

I RAGAZZI DELLA SCUOLA CALCIO INCONTRANO GLI ORFANI DI "MAMA ANAKUJA"


Emozione e gioia per il secondo appuntamento organizzato da Malindikenya.net e Kenya Football Academy per fare incontrare le realtà giovanili di Malindi sostenute dai "mzungu" con la scuola calcio Karibuni-Genoa. Dopo la Hearts Children Home della settimana scorsa, sabato è stata la volta dell'orfanotrofio Mama Anakuja di Muyeye, gestito dalla mitica "mama" Liliana. I ragazzini di Mama Anakuja hanno passato una giornata insieme ai nostri piccoli calciatori, confrontandosi e assorbendo la filosofia della scuola calcio (educazione+disciplina come fondamenta per lo sport di gruppo), mentre i ragazzi del Genoa Youth ogni volta sono messi di fronte a chi come loro viene aiutato ma non ha la fortuna di avere i genitori. L'allenatore Ben Ouma prima e Freddie del Curatolo poi, hanno spiegato cosa unisce i progetti sociali di Malindi, parlando con il cuore. Dopodichè la sfida! I giovani di Muyeye hanno dato filo da torcere ai forti giovanissimi rossoblu, guidati dal capitano Eugene e dal bomber Janji. A differenza dei precedenti ospiti, che avevano perso 5-0, Mama Anakuja ha finito il primo tempo sul 1-1 per poi cedere nella seconda frazione di gioco, complice una gran punizione di Eugene e un contropiede di Janji (doppietta per lui). Nel ricordo della splendida giornata, alla quale hanno preso parte anche due "tifosi" rossoblu particolari (Geo e Donatella, liguri di Andora, sono genoani ma sostengono da anni Mama Anakuja) la più bella immagine è l'esultanza dei bambini più piccoli, arrivati da Muyeye a sostenere gli amici dell'orfanotrofio, che al gol del pareggio si sono rovesciati in campo esibendosi in festose capriole. Meraviglioso. I sabato pomeriggi sociali proseguiranno nelle prossime settimane. Uno spettacolo educativo e divertente che riempie l'anima di soddisfazione. Come diceva un grande: "Libertà è partecipazione".

mercoledì 20 ottobre 2010

FREDDIE BECCIONI: ROMA, L'OSTINATO ARCHITETTO E LA MAREMMA MAIALA


Per chi nella vita si può permettere di sudare per interposto imbecille, di viaggiare completamente spesato e di scaricare anche i vizi, grazie alla contabilità creativa, Roma può valere non solo una partita, ma anche un weekend lungo.
Infatti oltre al sottoscritto, ci puoi incontrare quasi tutti i parlamentari di questa Repubblica delle Papaye (altri direbbero “banane”, ma la differenza è sostanziale: le banane astringono, la papaya è lassativa).
Il vostro Beccioni, fin dal sabato pomeriggio in cui il patetico Baglioni implorava un uccellino di non andarsene affanculo, si è prodotto nell’esercizio di inutilità cosmica che lo ha portato ad assistere a Roma-Genoa.
Anticipo di poco valore, noiosa ed abulica sala d’attesa dell’incontro più importante della stagione: Genoa-Grosseto di Coppa Italia. Perché noi, quest’anno, alla Coppa Italia ci si tiene, eccheccazzo!
Sabato sera di merda, nel traffico della circonvallazione ostiense, nel grigio piscia dei porticati fascisti dove la vita vale un pugno in faccia a una rumena.
Per andare all’Olimpico il Caput Mundi si respira meno della cocaina nell’aria a piazza Argentina.
Solita mezza boccia di Dalwhinnie prima di sedere sugli spalti più lontano del mondo dal campo e poi, com’è andata lo sapete benissimo.
Bruciori di stomaco.
Gasptrite.
Della gara non parlo, d'altronde nel merito ci siete entrati fin troppo voi, cari amici.
Io, se riesco, preferisco entrare da qualche altra parte.
La carrellata dell’inutile prosegue in un’osteria di Testaccio (da Nando er Puzzone), tracannando un ordinario Tarquinia Rosso dei Monti della Tolfa, ideale per l’abbacchio allo scottadito, ma non per sciacquare via il ricordo di Palacio terzino. A Roma non si è mai mangiato male (bevuto sì), ma a fare il turista gastronomico de li mortacci tua, si perde sempre.
Come a fare i turisti del pallone all’Olimpico.
In compenso, nella Capitale, è talmente facile caricare una russa che mi ficco in un localino jazz e tento di portarmi a letto la cameriera, ciociara. Risultato: chiusura alle sei del mattino, lingua in bocca e invito ad andare sulla Nomentana a mangiare i maritozzi caldi da Alfio.
La cameriera però è simpatica, ama Rino Gaetano ed è figlia unica perché è convinta che Leo Messi non possa passare al Frosinone, squadra per cui fa il tifo.
Rino Gaetano era romanista e simpatizzava per il Genoa, la cameriera me lo conferma.
Solo una tifoseria nel mondo non lo sa. E canta le sue canzoni.
Le chiedo di Checco Moriero, ex frusinate e neo allenatore del Grosseto.
Dice che ha smesso.
“Anche lui?”
La riaccompagno a casa. Slinguazzata già più appassionata.
Se domani insisto, finisce che me la cede in prestito blindato.
Ogni tanto mi piacciono le avventure ordinarie.
Il 442 della conquista sessuale.
Risveglio pomeridiano con lingua felpata e molle come il passo di Kharja.
Di inutile, domenica, oltre all’affacciamento Papale, ci sarebbero talmente tante cose da fare che ho scelto la più gasperiniana di tutte.
Colosseo? Ma siamo matti? Banale e frequentato come il 4231, vogliamo farci riconoscere?
Fori Imperiali? Circo Massimo? Palatino? Come siete antichi, roba da catenaccio o al massimo da contropiede…noi innoviamo, ci eleviamo.
Su consiglio di Palma, la cameriera ciociara, ho scelto di andare al Museo Maxxi, un viaggio nell’architettura del secondo novecento.
Giovani ma non giovanissimi soldatini dell’arte al soldo di navigati capitani d’edilizia, finti rivoluzionari architettonici che si vendono e si arrendono al piano regolatore di Terni o Crotone.
Sì, mi piace! Intanto il Dalwinnie 16 anni va giù che è una goduria, guardando ‘sta robaccia postmoderna e ripensando alla partita del giorno prima, e non sento l’esigenza di fare come Ivan Graziani nella canzone Monnalisa, che entrava nottetempo nel Louvre per riportare in Italia la Gioconda ma finiva per tirare sganassoni al custode e massacrare l’opera di Leonardo con le unghie.
Proprio lì, davanti a una visione simil-Fuksas, penso che la reiterazione del Gasp non è più alto modernariato, ma necessità ostinata di lasciare un segno diverso, un’architettura unica, che possa passare alla storia breve e incolore del Terzo Millennio.
Fanculo all’architettura moderna a Roma. Lasciamo a Cesare quel che è di Cesare.
Il Museo Maxxi starà bene a Rovigo, a Brescia, a Latina. Ma nella Città Eterna è assurdo.
Un po’ come, nella culla del calcio, voler portare metodi applicabili solo da ignoti automi.
Come si può pensare di ridurre il potenziale emozionale di chi indossa la maglia rossoblu al Ferraris, a freddi schemi e catene tattiche? Ci credo che poi quando calcano campi lontani sono impauriti e spaesati.
Che bello non avere un cazzo da fare a Roma.
Mi sento ringiovanito, ho i vent’anni di Zuculini, e la stessa voglia di spaccare…se non il mondo almeno una persona! Invece divento premuroso e gentile, mi presento sotto casa di Palma e la porto fuori a cena nel mejo locale dei Parioli, poi mi porta lei in un postaccio al Fleming e si finisce che la infilo facilmente, come Borriello.
Lunedì sono già in ansia, la grande sfida incombe e parto prestissimo, verso le dieci del mattino, alla volta di Grosseto.
Devo misurare la loro voglia, quanto è sentita la sfida.
Ora di pranzo. Sono al Frantoio di Capalbio. Un luogo storico che se non ci siete stati sono onorevolmente cazzi vostri, ma dove lo trovate un ristorante-pub in piena maremma in cui al tavolo beccate un regista affermato, un buttero, un critico d’arte, un cantautore fallito, una velina, una contadina, un elettricista, un brigante pentito, una nobildonna fiorentina, un bagnino in pensione e Checco Moriero?
Porca miseria! Il proprietario interista Ado, un personaggio da neorealismo puro, mi ingozza di crostini, salamelle di cinghiale e pecorino al forno. Bevo un ottimo Caccia al Piano, cabernet di Bolgheri e chiedo alla velina se mercoledì vuol venire a Genova.
“A vedere il Grosseto?” chiede il buttero.
“Certo!” rispondo di scatto, evitando un rutto da cinghiale.
La contadina annuisce, anche il brigante pentito e il bagnino in pensione.
“Si fa la camionata! Tanto te tu c’hai il suvve!”
“Sì…ma io parto domani…”
“E che ci importa? Si va a vedere Genova!” sbraita la contadina.
Mi hanno fregato. Ma qui succede così, Maremma maiala.
Checco Moriero si schermisce…non pensava di trovare tanti ultras del Grosseto al Frantoio.
“Forza Grifone!” urla l’elettricista alzando il bicchiere.
“Forza Grifone!” ribadisco, e non capisco.
Già…anche il Grosseto, come noi e il Perugia, ha il Grifone come simbolo.
Non l’avevo mai notato.
Moriero agguanta la nobildonna fiorentina (ecco!), saluta ossequiosamente e se ne va.
“Checco! - Gli sfiato – facciamo l’impresa mercoledì?”
Il ricciolone si volta.
“Eh…magari…mi piacerebbe tornare a giocare al Meazza…”
Cazzo! La motivazione!
Fingo la ritirata al cesso e telefono alle mie conoscenze in società.
“Dite al Gasp che deve schierare una formazione decente, Moriero vuole qualificarsi”
“Non ti preoccupare – mi tranquillizzano – Sculli sarà titolare”
Sono calmissimo. Non hanno il Dalwhinnie, ma Ado mi porta sul tavolo una bottiglia di Caol Ila 18. Cavoli suoi.
La velina mi concede almeno la serata (un migliaio di euro compresi un paio di regalini in boutique di Orbetello) e cena alla spettacolare Osteria del Lupacante, le migliori zuppe di tutto l’Argentario.
Martedì pomeriggio, una nutrita spedizione maremmana alla conquista di Marassi, con lo sfigato che se li è caricati tutti in macchina e che li ospiterà in hotel a Nervi, che pensa ancora alla cameriera ciociara.
Cestino da viaggio: lonzetta di cinghiale, stracchino di Sorano, pecorino di Pienza, pane maremmano e Morellino di Scansano “Il Provveditore Riserva”.
Zuculini titolare, tutto il resto conta poco.
Come andrà, lo sapremo presto.
Il resto è architettura moderna nel Tempio, è il poco rispetto della storia, è l’ostinazione più cupa di fronte al fluire delle cose.
Altro che proclami, che ostentato ottimismo, il vero Genoa ad ottobre, il vero Genoa a novembre…il vero Genoa per fare cosa? Vivacchiare nella parte sinistra?
Quello per me è un Genoa finto, non è il vero Genoa.
Meglio la Maremma, che non ha fatto mai mistero di essere maiala.

martedì 12 ottobre 2010

UN MINUTO DI SILENZIO


Un minuto di silenzio per i soldati italiani che avevano deciso di guadagnarsi la pagnotta in un modo secondo loro giusto, virile e pieno di indennità e vantaggi che li avrebbe ripagati dei rischi e delle paure.
Un minuto per i morti sul lavoro che non sapevano fare altro e non avevano trovato da fare altro, a quelli che non sapevano che il loro lavoro era pericoloso, a quelli che non sapevano qual'era il loro lavoro, a quelli che ce li avevano mandati, che era per pochi giorni o che era da una vita.
Un minuto di silenzio per le vittime di stupri all'interno delle mura domestiche e nei garage, per i complici, i conniventi, gli innocui e gli innocenti.
Un minuto per chi è stato ammazzato due volte, la seconda da un'intervista, un reportage, una diretta televisiva.
Un minuto di silenzio per le mogli strangolate, le fidanzate uccise a colpi di martello, le madri assassinate col coltello, i padri freddati con un colpo di pistola, i figli a cui è stato negato un matrimonio che volevano solo loro.
Uno per chi è sfruttato dai suoi stessi fratelli e per chi fino all'ultimo credeva di avere un fratello, un parente, un concittadino.
Un minuto di silenzio per i cani investiti per la strada, per gli investitori massacrati, gli animali avvelenati e gli umani ammaestrati. Un minuto di silenzio per gli stranieri malmenati, le vittime di extracomunitari arrapati o ubriachi, per i territori occupati, gli innocenti criminalizzati, i criminali incensurati.
Un minuto di silenzio per i precari licenziati, i lavoratori bistrattati, i dipendenti presi per il culo perfino dai sindacati. Un minuto di silenzio per le vittime della malasanità, della malavita organizzata, delle malattie legalizzate, delle medicine prescritte e dei medici stressati. Un minuto di silenzio per i pensionati dimenticati, gli adolescenti suicidati, gli amanti depredati.
Per i banchi vuoti a scuola le bare senza nome e i volti avvolti da fredde lenzuola.
Un minuto di silenzio per chi subisce soprusi, corruzione, costrizione, pressione. Uno per le guerre di religione.
Per i ricattati morali, i minacciati virtuali, i perseguitati mondiali e i disgraziati reali.
Un minuto per chi è dato in pasto ai giornali, agli squali, o come perle ai maiali.
Un minuto di silenzio per chi muore solo e per chi ha vissuto solo fino a un attimo prima di morire.
Ogni giorno non basterebbe un giorno di silenzio e davanti al silenzio ci sentiremmo tutti disperatamente uguali.
Piccoli, spaventati, egoisti, urlanti esseri umani che aspettano solo il momento in cui qualcuno chiederà un minuto di silenzio anche per loro.
Ecco quello che vale la nostra vita: un minuto.

lunedì 11 ottobre 2010

I GRIFONCINI KENIOTI E IL LORO DERBY INFINITO


Il calcio, a volte, ti fa pensare che tra Africa e Liguria non ci siano poi queste grandi differenze. Anche a Malindi, ad esempio, esiste un derby, e anche qui la squadra avversaria dei Grifoncini kenioti è originaria di un quartiere della città, che si chiama Shela.
La compagine dei giovanissimi di Shela si chiama Myfem e, fino all'anno scorso, era la più quotata realtà giovanile della provincia.
Il primo derby, giocato quindici giorni fa, sembrava aver confermato questa leadership, la Myfem aveva battuto per 3-1 la Karibuni Genoa Malindi, che aveva alle spalle soltanto poche amichevoli e denunciava ancora problemi di adattamento dei ragazzi. Proprio come il Genoa dei più grandi in Italia, tanti volti nuovi che ancora si dovevano conoscere.
Dopo la salutare sconfitta contro il Gede imbottito di fuori quota, e due incoraggianti pareggi, il grande giorno della rivincita è arrivato: mister Ben Ouma ha caricato i ragazzi, all'allenamento è arrivato anche un tifoso genoano di Chiavari in vacanza, Mauro Fogola, con due bimbi che indossano le maglie di Rossi e Criscito.
Così il derby ha inizio: il capitano Eugene prende per mano la squadra e organizza il gioco, Janji è imprendibile sulla fascia (anche se a volte fa un po' troppo di testa sua) e Fahad Abdallah, il centravantino alto e robusto che già i compagni chiamano “Lucatoni”, si fa largo tra le maglie dei “cugini” della Myfem. La partita, comunque è in perfetto equilibrio fino a quando è proprio il capitano Eugene (un talentino con un futuro assicurato, almeno a livello continentale) a realizzare con un preciso diagonale, dopo sponda di Fahad e passaggio di Mwangemi. E' un calcio vero, che emoziona per la sua purezza, l'ingenuità, la voglia di inseguire un sogno che rotola insieme ad un pallone e che a volte si riesce ad avverare, effimero e illuminante come il sorriso di un bambino in Africa dopo un gol, o appagante e duraturo, come la vittoria della partita più difficile da queste parti, quella di una vita dignitosa appena sopra la soglia della povertà.

martedì 5 ottobre 2010

FREDDIE BECCIONI: ROSARIO, IL PONTETTO E LA SCOMPARSA DI PIERFLAVIO


La notizia della misteriosa scomparsa di Pierflavio ha colto tutti di sorpresa.
Tutti tranne me, che me ne vado allo stadio fischiettando, in sella al suo motorino.
Zia Esterina non è riuscita a stendere come si deve la pasta delle lasagne e quella rumenta di suo marito ha fatto un pesto di merda. Ero convinto che non gli importasse molto di quel figlio uscito storto come un torcetto biellese in una scatola di crumiri di Casale.
Da una settimana non da notizie di sé.
La fidanzata, con cui ormai si vedeva per interposto i-phone solo su Facebook, crede sia in un campo di addestramento militare del Movimento Cinque Stelle, l’amico brocker gode perché non gli ha chiesto indietro gli introvabili vinili di musica "prog" degli anni Settanta, la compagnia del pub irlandese giura che non è né al Matteotti di Rapallo né al O’Donaghy di Dublino.
Mi rimane solo il Pontetto.
Ci passo poco prima dell’inizio della partita, sperando di non essere riconosciuto dai miei detrattori. Lo faccio solo per fare un favore ai due vecchi che mi hanno sempre trattato come un figlio. Mio fratello è figlio unico.
Mi hanno chiesto quasi piangendo di indagare su dove potrebbe essere finito.
Qualche idea ce l’avrei. Un vecchio ragazzo mai cresciuto come lui, deve essere nascosto non troppo lontano da qui. Non è il tipo da lasciare la sua Zena, e non ha abbastanza fantasia per superare gli angusti confini della tv via satellite.
Sicuramente è deluso e amareggiato, come un mister qualsiasi dopo una sconfitta per 5-0, quando non può nemmeno appellarsi alla sfortuna, all’arbitro o alla gastroenterite di due titolari.
Mio cugino aveva avuto la prima botta a giugno con la conferma di Gasperson, poi la Tessera del Tifoso, il mancato trasferimento di Sculli. Infine la bestemmia di Berlusconi, l’altro giorno, deve averlo messo definitivamente kappaò.
C’è gente abbrutita al Pontetto, tra omoni che sembra ce la mettano tutta per non arrivare a fine mese, altri che “Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna” e ragazzotte che ridono sempre come se non sapessero di essere concittadine di Paolo Villaggio.
Si imbenzinano di birra alla spina da due lire e ruttano in faccia al Grifone sentenze sulla presidenza, sul Gaspensiero e sulla maggioranza dei tifosi rossoblu, che hanno solo il demerito di crederci. Alla fine anche i maschi, qui al Pontetto, hanno il sorriso stampato, come si volessero bene tra di loro. Tiro fuori la bottiglietta da mezzo litro di acqua minerale San Benedetto, che ho riempito di Dalwhinnie, e trinco senza pietà.
Mi arriva anche una canna di straforo. Darei nell’occhio se la rifiutassi.
Faccio un'espressione gaia tipo imbecille stralunato arrivato ieri dal Kenya.
Uno spinello, pensa te. L’ultimo me l’aveva offerto Morgan a un concerto in Abruzzo, quando cantava De Andrè alla maniera dei Marillion.
Cerco, origliando i discorsi dei pontificatori del Pontetto, di intuire qualcosa. Ci deve essere stata una migrazione, perché non manca solo Pierflavio, si dice che hanno dato forfait dopo decine di anni anche intellettuali zapatisti, emigranti del riso non cinese, ex punk-rocker calvi, storici della resistenza di Ponte Carrega e operosi topi di grifoteca.
La tessera del tifoso nella mano destra, “Noi genoani” nella sinistra, faccio il mio ingresso trionfale nella Nord.
E’ il primo anno che ci metto piede, ho sempre amato vedere le sue coreografie dai distinti o dalla tribuna succhiando una caramella, ma quest’anno mi sembra vivibile e meno coreografica. Daltronde siamo il Grifone, mica Nureyev... Che bellezza! Non sono obbligato a fare nessun coro, non ci sono occhiatacce nei miei confronti, ho rincontrato anche due miei compagni di liceo, che ai tempi tifavano Juventus.
Genoa-Bari sta per cominciare in una quasi-atmosfera: lo stadio è quasi gremito, la squadra in campo è quasi quella che vorrei, il terreno di gioco è quasi impraticabile, io sono quasi perso.
Respiro aria nuova e ancora erba di casa loro. Fischi a Ventura, ovazione al Gaspallecoperte.
L’hashish non fa un bell’effetto agli alcolizzati, nei primi venti minuti mi sembra di vedere un Genoa stranamente sbilanciato in avanti, pur subendo il gioco del Bari e lo trovo tecnicamente impossibile.
Finisco il Dalwhinnie ma sciaguratamente mi arriva un’altra zaffata di Pakistan in faccia.
Poi passiamo in vantaggio e cresce il mio stato confusionale, perché finalmente ora il Bari gioca in contropiede come se stesse vincendo lui, e questo lo trovo assolutamente incredibile! Ahaha, ma che succede? Mi diverto! Appoggio anche la mano sulla spalla del mio vicino che mi guarda come fossi Lele Mora. E non è nemmeno attraente come Fabrizio Corona!
Sono davvero fuori, ragazzi, disarmonico e scoordinato nei movimenti e nei pensieri, come un armadio a muro in un trullo. L’unico vantaggio è che solo ora (sarà la droga o la Nord?) comprendo appieno il gioco di Gasperini! L’effetto sballo però continua, infatti sono convinto di vedere che, dopo aver pareggiato ed essere rimasti noi in dieci uomini, il Bari arretri ancor di più il baricentro, roba da fumetti! Ahahaha come sto messo…noi in dieci senza un giocatore nel suo ruolo originario che mettiamo sotto il Bari in superiorità numerica, fisica e con la razionalità di chi gioca da sempre un 442 con le ali alte. Dio bonino, Mimmo mi sembra meglio di Dani Alves, Rafinha mi fa godere, Mesto sembra più allucinato di me, Chico pare stia giocando un’altra partita ma non la gioca male e soprattutto si vince quando finalmente si rompe Veloso ed entra Milanetto. La Nord esplode in pieno recupero, e io mi faccio anche due gocce di pipì sotto dall’entusiasmo! Che viaggio mi sono fatto! Il grande cuore del Genoa mi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, le magagne e le privazioni che non ho mai avuto. Ma meglio una dimenticanza preventiva che un ricordo fasullo, no? Io vivo nel presente, mica voglio fare il nostalgico, mica mi voglio perdere questo spettacolo per una questione di principio! Grifone sempre e comunque!
Mentre sfilo davanti al Little Club, mi si avvicina uno veramente losco, col giubbotto di pelle e i capelloni brizzolati annodati alla peggio.
Un cazzo di apache metropolitano.
“Tu sei Beccioni?”
Merda. Pensavo di averla scampata.
Questo non è il presente, è il passato prossimo che m’insegue.
Coraggio.
“Sì, caro, in persona…”
“Bella la canzone…e anche tu, come metafora non sei male”
Vaffanculo. Secondo me tu non hai mai assaggiato il Caroni.
Metafora sarà tua sorella e se me la porti qui, ti faccio vedere anche la metà dentro.
Sorriso di circostanza.
”Grazie fratello! Alla prossima…”
Fa per andarsene e ci provo.
“Ascolta…sai per caso che fine ha fatto mio cugino Pierflavio?”
Allunga il passo, come non avesse sentito.
Poi si gira e sorride.
Agita una mano.
“Rosaaarioooo!!!” mi urla con l’espressione dell’oritteropo nella stagione della riproduzione.
“Nooo, Pierflavioooo!” dico io.
“Ahahahaaaa!”
Ma che cazzo ti ridi, anacronistico!
La prossima volta bevo anch’io le birrette del cazzo del Pontetto, mi sparo tre cannoni uno in fila all’altro ed entro allo stadio convinto di assistere a Genoa-Montevarchi.
Sembra comunque che faccia bene allo spirito.
Altro che le camel, altro che ‘sto cazzo di whisky.
Magari è la vecchia remissività che si trasforma in nuova resistenza.
Che cazzo bisogna fare per inventarsi la propria felicità, domenica per domenica…
Fanculo!
Brindiamo alla vittoria del Grifone e allo Spirito!
Quello perduto di Pierflavio e quello allegro dell’amico del capellone.
Rosario.

giovedì 30 settembre 2010

UN IPPOPOTAMO ROSA: CHE NE PENSA WILMA?


Chissà cosa ne pensa l'ippopotamo Wilma, che tempo fa popolava questo blog.
Fino ad oggi eravamo certi che certi animali colorati di rosa facessero parte solamente della fantasia di qualche sceneggiatore di cartoni animati o del mondo demenziale di bevitori o di creativi pubblicitari. Abbiamo adorato la pantera rosa, pur sapendo che non in realtà non esiste, abbiamo a che fare con i "pink elephant" sia nella moda che altrove. I cigni rosa sono solo di porcellana e lo struzzo maschio prende quel colore solo quando è arrapato. Ma grazie a Will e Matt Burrard-Lucas, due fratelli inglesi, fotografi per diletto, ora sappiamo che l'ippopotamo rosa esiste e vive in Kenya! Che si sappia ce n'è un solo esemplare, ma dai giorni scorsi è partita la caccia (fotografica, s'intende) dopo che il Daily Mail ne ha pubblicato la foto. L'esemplare, la cui immagine provoca istintivamente un po' di ilarità e tenerezza, vive lungo il corso del fiume Mara.
L'ippopotamo rosa è privo della sua classica colorazione grigia a causa di un problema di pigmentazione. Questo ippopotamo viene definito leucistico per non essere completamente chiaro visto che presenta alcuni punti scuri sul corpo e ha occhi neri. «Ci aveva avvertito una guida locale - raccontano i fratelli Burrard-Lucas - e quando abbiamo scorto la sua sagoma elevarsi dall'acqua, non ci potevamo credere! Sembrava una creatura di un altro pianeta. Abbiamo mollato tutto e ci siamo messi a scattare decine di foto. Per sua fortuna ha una stazza notevole, altrimenti sarebbe stato già azzannato dai predatori del parco». (da malindikenya.net)

martedì 28 settembre 2010

FREDDIE BECCIONI: COME UNA CHITARRA SENZA CORDE


Sbullonatemi i testicoli con una chiave del quindici e toglietemi il whisky scozzese a vita, ma io questa cosa ve la devo dire: il Genoa di Gasperini, così come è scesa in campo a Milano, è una squadra senza palle.
E mi affatico nell’affermarlo, mi si chiude l’esofago e ho bisogno all’istante di un inibitore della pompa protonica. Si faccia avanti chi ha visto segni di lotta, di cattiveria agonistica, di qualcosa che andasse oltre al giudizioso sussiego del soldatino. Alzi la mano chi si è divertito, secondo me nemmeno i fulminati del giorno dopo lo possono scrivere sul giornale o sul social network di turno.
Corinna annuisce mentre mi cambia le corde della chitarra. Ho trovato una escort musicista e sarà dura liberarmene, anche se ho molte più alternative di Preziosi.
Io lo capisco, non è che Ballardini ti dia tutte ‘ste sicurezze. L’ho visto in tivù senza i rayban e sembrava una via di mezzo tra Daniele Piombi e un meccanico di Faenza. “E questo dovrebbe cambiare le palle ai nostri come Corinna cambia la muta di corde alla mia Ovation?” mi sono detto.
Suonala ancora Prez, suonala tu che quell’altro, per me, è già suonato per conto suo. Non sparate sul pianista, ma Jerry Roll Gasperson per me è già Morton. Non c’è più l’effetto novità, non ha più niente da dire o da dimostrare, come può pizzicare le palle di Veloso, di Rafinha e farne uscire un arpeggio vincente? Meglio un nuovo compositore, quasi quasi un traghettatore (no, non Salvemini…), anche Beretta, forse ma forse.
Tanto non è quel posto in più, quell’arrivare settimo piuttosto che undicesimo che ti fa la differenza, però una volta ci si divertiva, invece ora…altro che corde della chitarra, quello non rinuncia ai suoi schemi nemmeno se gli cambiano i connotati. E senza Juric, senza Rossi, non c’è cristiano che si prenda la briga di mostrare il fuoco sacro. E sapete perché? Perché questi giocatori non AMANO Gasperini! E se va avanti così, finisce che non rispetteranno nemmeno più questa maglia. Perché se si scazza Marchino, se Criscito si deprime perché non lo chiamano più in nazionale e non c’è più Bocchetti a raccontargli le barze, se Sculli sognava l’Inter e meriterebbe il Portogruaro, se Scarpi si rompe i coglioni di menarla con la storia della serie C e della genoanità che non ci crede nemmeno più lui, qui siamo finiti. Ci vuole un nuovo conducator, che diamine! Oppure un’iniezione di sana bava alla bocca che arrivi dall’alto, dal vertice della piramide.
Vada per le tattiche estreme, vada per la vecchia guardia, vada anche per il catenaccio mascherato da possesso palla alla catalana, ma io voglio le palleeee!
Corinna mi osserva in tralice mentre accorda la chitarra. Questo Genoa oggi ha suonato in minore, un blues palloso dei negri. E dopo il primo tempo si era spento anche quel po’ di sezione fiati.
E il blues, si sa, non apre le porte. Ci si chiude dentro, inseguito dai cani.
Nel secondo tempo si è annoiata, Corinna.
Ora forse anche lei vuole le palle.
Dal Grifone ho sempre accettato tutto, in cambio della grinta e della dedizione, del sudore denso sulla maglia a fine partita. Ho apprezzato Ambrogioni come fosse John Terry, Marulla come Romario e Pasquale Jachini per me era più forte di Platini. Dai, siamo fatti uguale io e molti di voi, ammettetelo! Sì, magari voi non avete tutto questo andirivieni di fica dell’est, e non siete così amici di Scantamburlo e di Luca Bizzarri, però sul Genoa ci capiamo. Undici Grifoni adunghianti, tutti con la faccia di Torrente e le vene di Ruotolo, con la dedizione di Signorini e la cattiveria di Gorin, con la lucida follia del professor Scoglio e la passione intellettuale di Onofri. Noi li vorremmo talmente attaccati alla maglia che gliela stireresti addosso a crudo, roba che Marchino Rossi è un grande, per carità, ma solo una discreta imitazione del grifone ideale.
Allora non so voi giovani genoani rampanti, cresciuti senza ricordi e con la noia delle generazioni XYZ, non so voi quarantenni con le membrane rifatte e la verginità postuma, non vi conosco e non vi capisco, ma sono solo santuari di cazzi vostri.
Io preferisco salvarmi all’ultima giornata con un manipolo di lottatori che per tutta la vita ricorderanno la maglia rossoblu come il primo pompino alle superiori, piuttosto che campare di rendita nella mezza classifica. Sarò masochista? Meglio che lobotomizzato.
Non saprei che farmene di una chitarra senza corde, di una squadra senza i controcoglioni.
Ero in tribuna al Meazza, lo volete sapere? Con Corinna, che conosceva anche due o tre mogli di giocatori rossoneri, e le palle dei loro mariti. Ma anche questi sono stracazzi suoi.
Li ho sentiti i commenti dei vip rossoblu a fine partita. Non sapevano che minchia dire, erano tutti basiti dalla sconfortante reazione dei nostri dopo il gol preso.
Non avevo bevuto abbastanza per provocarli, ma ci ho provato.
“Ma che cacchio vi aspettavate? Ve le ricordate le trasferte dell’anno scorso?”
Uno piccolo e brizzolato mi si avvicina con l’alito intonso. Mi fa quasi schifo.
“No, non me le ricordo”
“Mi spiace proprio, credo che lei sia vittima di un processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule cerebrali, e che la renderà presto incapace di una vita normale”
“Veramente…io sono milanista”
“Ah, ecco…”
Gli altri attendono il verbo del Grande Capo.
Che è talmente incazzato da non riuscire nemmeno ad articolare in irpino.
Lo abbiamo visto tutti Kharja indirizzare decine di palloni molli e poco convinti, Mesto e Rafinha comparse in un film di Tornatore, Palacio operoso ma solingo e incompreso come un rivoluzionario ad Andorra.
Ci siamo spompati in un primo tempo laborioso ma poco produttivo, che alla fine ci ha portato una sola vera azione gol, il colpo di testa di Chico, più un palo casuale di Palacio. Tutto questo per annullare il temibilissimo diavolo, lo stesso che ne aveva lasciate almeno cinque nel primo tempo in casa col Catania.
Ne avvicino un altro, lo prendo anche per la giacca. Questo è calvo come Galliani ma avvenente come suo figlio.
“Ma ci sarà un perché non abbiamo mai vinto fuori casa con una grande? Qualche pareggio striminzito e un sacco di batoste”
“Ci sarà, ma intanto siamo in progressivo miglioramento caro, vedrai che anche quest’anno ci toglieremo delle belle soddisfazioni…”
Ripenso alle soddisfazioni che mi sono levato l’anno scorso, dopo il 3-0 nel derby d’andata.
Non ne trovo, forse sono io che sbaglio. Forse è quello che ho mangiato ieri sera e che poi ci ho dovuto bere sopra di conseguenza.
Dice Corinna che la squadra è ben costruita, è forte. Le piace Veloso e anche a me, ma di fianco gli devi mettere uno che lotta. Magari Zuculini non è la soluzione, ma di certo aiuta.
Sfila davanti a noi l’Altissimo, colui che potrebbe dare una svolta, un senso a questo mezzo copione già scritto a cui molti di noi vorremmo sfuggire.
Avrebbe dovuto giocare lui, perché ha gli occhi iniettati di rabbia, il furore che lo costringerà all’ennesimo controllo medico. Se non fosse stramiliardario, direi addirittura che è genoano.
Si ferma, forma un crocicchio per partenogenesi, osserva affilato chi conosce e chi non ha mai cagato ed esprime il suo parere sul match appena concluso.
“Sono furibondo, e non per il risultato. La mia squadra non ha le palle”
Corde della sua chitarra.
E così sia.

sabato 11 settembre 2010

FREDDIE IL CLOWN (con il suo cappello di capelli)


Avrebbe voluto passare volentieri per saltimbanco. Sarebbe stata un'ottima maniera - pensava - per ricacciare nel profondo del cuore quella malinconia del vivere che gli era cresciuta nel corpo come il grasso in eccesso. Ah, se fosse nato in una famiglia di artisti circensi! O, ancora meglio, da padre macchiettista e madre attrice di teatro. Papà commercialista e mamma casalinga lo avevano convinto a non prendersi mai troppo sul serio. Così decise di non tagliarsi quasi mai i capelli, che crescevano in altezza e non cadevano mai sulle spalle, e di ingrassare. Diventò una persona seria, ma mai all'apparenza.

giovedì 2 settembre 2010

ESORDIO PER LA SCUOLA CALCIO IN AFRICA (dal sito ufficiale del Genoa Cfc)


GENOVA – La prima partita? E’ come il primo amore, non si scorda mai. Le emozioni scorrono sul campo, situato a Gede tra Malindi e Watamu, s’infilano dentro e aprono porte sul futuro. Quello dei ragazzi della Scuola Calcio Karibuni onlus Genoa. Scesi in campo con l’orgoglio di indossare le casacche arrivate da Genova. Con l’ambizione di giocarsela al cospetto di avversari più in età, nella prima trasferta affrontata con il cuore in gola. E’ finita due a zero per il Gede, che schierava qualche fuoriquota di troppo. Un particolare che non è andato giù al team manager Freddie del Curatolo, uno dei deus ex machina, il quale aveva un diavolo per capello all’inizio, ma poi una parola buona per tutti. Con i consigli di mister Ben Ouma, i 13enni Baraka, Janji, Eugene, Njanyi, Juma e tanti altri hanno dato l’anima e si sono divertiti. In attesa della rivincita.

domenica 29 agosto 2010

FREDDIE BECCIONI: UDINE, KAKA KAZAN E LA PATAFISICA DEL PICCOLO INVERTITORE


Tanto per sgombrare il campo, e anche il mio divano rossoblu, da ogni dubbio odoroso: ieri pomeriggio ho goduto come una seppia in inzimino. Quando si vince così, diciamo un po’ all’italiana d’altri tempi, c’è un gusto particolare. E’ come corteggiare la meno avvenente delle due sorelle e ritrovarti quella più fica che ti si “rovescia” addosso. Quasi qualcuno dall’alto ti volesse premiare perché ti stavi accontentando. Ogni tanto riesce, la sorte s’inverte e oggi di invertitori parleremo. Altro che rovesciate!
Poi ci sono delicate sfumature: l’espressione tirata del prete rancoroso, come se l’avessero preso in infilata in prossimità del gran premio della montagna di Arabba, la vana ostinazione di Domizzi, testa grande e cervello finto, che quando gioca contro di noi vorrebbe fare tre ruoli contemporaneamente (secondo me anche perché sa di piacere tanto al Gasparagnino).
E il gol? Ogni cuore grifone in quel momento ha esultato tre volte: una perché si iniziava a soffricchiare e a subodorare il clou di un film già visto in troppe Gaspartite in trasferta, due perché un gol così ti toglie il fiato e tre perché la prima di campionato è la prima di campionato. Roba da dimenticare all’istante le microsofferenze patite nel secondo tempo, la difficoltà relativa nel contenere un Udinese in ritardo e con problemi sulle fasce (più la decisa involuzione di Asamoah). Con una rovesciata volante di Mesto, poi! Roba da scomodare Alfred Jarry e il teatro dell’assurdo. Far entrare un laterale al posto di una punta, quando hai già un’aletta a fare il centravanti e un vivace ectoplasma dall’altra parte, è pura patafisica. Ma siccome una partita è uno spaccato di vita (e anche uno spaccato di coglioni, talvolta) l’assurdo ci sta eccome.
Ma andiamo cronologicamente e senza vergogna, come un libro di Bruno Vespa.
Sono tornato in tempo per il fischio di inizio, in aereo da Kazan. Avevo promesso ad alcuni amici un pellegrinaggio russo e io sono uno che onora le scommesse e rispetta le decisioni prese. Oltretutto ho visto anche i tartari senza deserto e il deserto senza Buzzati. E anche i tartari con gli occhi strabuzzati. Gli hanno comprato Sasà per 11 milioni. Ragazzi, il Prez è un grande venditore quando vuole (ogni giorno ne vende uno diverso/chissà che cosa gli racconta/per me è la fabbrica che c’ha che conta), su questo non ci piove, e non solo nel deserto. A Kazan se ne sono fatti una ragione e si sono fatti il loro film…nonostante non ci sia più Elia, ma questa è per cinefili doc. Da Kazan a Kaka sono poche ore d’aereo, avessi saputo che ci buttavamo sul bollitone georgiano, partendo da Milano, avrei riportato in patria l’uomo dallo sguardo triste e l’ingaggio milionario, che invece ha deciso di venire a svernare da noi. In questo mercato stitico, Preziosi indubbiamente kaka.
Tornato a casaccia just in time per godermi l’esordio assoluto del campionato numero 0 dell’anno maroniano. Stadi non ancora deserti, ma si provvederà, i gestori di autogrill contenti fino a un certo punto (quelli non sai mai da che parte stanno) e i noleggiatori di pullman in rovina. In compenso s’impennano le vendite di pantofole e le mie amiche rumene riprendono a lavorare di buona lena anche la domenica pomeriggio.
Nell’ordine:
1. Non capisco la formazione, poi la capisco e poi non la ricapisco. Se fosse un 433 Rafinha non starebbe sulla fascia, se fosse un 343 Rossi starebbe a sinistra. Dimmi perché uno che reclamizza Rossi interno e ha un brasiliano che ha sempre giocato terzino destro deve ridursi così. Secondo me è una malattia. Da piccolo gli hanno infilato un invertitore da qualche parte. E lui prende e inverte: Mesto laterale? Ala! Sculli ala? Centravanti! Veloso regista? Incontrista! Destro centravanti di riserva?
L’invertitore ne inventa una delle sue per disorientare come sempre Guidolin. E’ una fatica immergersi nel 361 ad assetto variabile del Gasp. D’altronde i grandi geni sono quelli “avanti”, che verranno capiti dopo la loro dipartita. Tra qualche mese, forse, lo capiremo come merita. Ma io preferirei cullarmi nell’ignoranza tra le prime quattro, per tutta la vita.
2. Mi innamoro di Ranocchia e vorrei baciarlo, nonostante i pericoli già accennati in passato. Ora come ora è più utile dove sta, piuttosto che se si trasformasse in Principe.
3. Apprezzo le geometrie di Veloso e lo immagino magro, veloce, propositivo e con un altro nome e cognome. Comunque anche lui è di un altro pianeta rispetto a Zapater e qualcosa imparerà da Milanetto. Speriamo non a stare a tavola.
4. Spero che Moratti non stia vedendo la partita, ma subito Beppone finalizza l’unica nostra azione pericolosa del primo tempo. Miracolo di Handanovic. Guarda, Massimino, guarda!
5. Spero che il Prez stia vedendo Toni e inizi a sfogliare il postal market del centravanti. Al limite anche uno come il Bogdani che vedrò sbattersi qualche ora dopo mi va bene. Basta che non arrivi un invertibile o un invertito.
6. Secondo tempo. Pur di non vedere più Sculli centravanti mi faccio mettere una bottiglia semivuota di Caroni nel culo durante un amplesso.
7. Palacio comunque è leggerino. Bisogna dirlo.
8. Al confronto di Palladino, Palacio è un elefante namibiano.
9. Quando al 55’ abbassiamo il baricentro, dentro me sento nascere un uomo nuovo, che non vuole più soffrire, che è pronto in qualche modo ad arruolarsi in Al Shaabab o tornare immediatamente a Kazan e rinverdire i fasti di Giovanni Drogo.
10. Al 60’ mi drogo. Anche senza Giovanni.
11. Entra Mesto. Mesto acagàsotto.
12. Godo! Godo! Godo! Sei entrato improvvisamente nel mio sistema linfatico con una rovesciata volante imparabile. Ti ho sempre amato, per quella capacità di essere terzino anche quando sei ala e ala quando dovresti essere terzino. Viva gli invertiti e gli invertitori!!!
13. Ansia finale, contenuta e speranzosa.
14. Sto bene. Eduardo mi fa sentire sicuro come fece mia cugina ventenne quando ne avevo quattordici.
15. Ho sete.
16. Buona la prima.
Estraggo la bottiglia di Caroni, trinco l’altra metà in modo da poter evitare di esprimermi sulla bottiglia mezza vuota o mezza piena. La bottiglia è finita e ce n’è un’altra pronta, tutta piena, per l’esordio casalingo con il Chievo. Almeno quella non la invertono!