venerdì 31 ottobre 2008
CHILDREN OF AFRICA
“Buongiorno, signore”
Malindi, Kenya. Nel 2008 è normale sentirsi apostrofare con un “ciao” dai bambini locali, al posto del loro morbido e colorato "Jambo".
Agitano le loro piccole mani, si appostano ai lati delle strade e urlano i loro saluti sorridenti per farsi notare. Chissà, quei bianchi si fermeranno e magari avranno una caramella o una moneta per noi, magari ci portano a fare un giro sulla loro bellissima automobile.
Gli italiani sono molti, da vent’anni a questa parte, a Malindi. La popolazione locale e specialmente i giovani, da sempre più ricettivi, hanno imparato i loro usi e costumi, conoscono le loro abitudini e si sono abituati al loro modo di fare. Sanno quando si può tentare un approccio o quando e meglio stare alla larga, perché gli italiani non sono tutti uguali. Quel che si può donare a tutti è un sorriso, accompagnato da un saluto. Non costa niente, soprattutto non provoca dolore, fatica e disagio.
Per quello c’è già la loro vita nelle capanne, la coda fuori dai fatiscenti ospedali, il lavoro duro nei campi della mamma e quello in cantiere di papà, che spacca blocchi di marmo per 2 euro al giorno.
Un sorriso.
Un saluto.
Eppure qualcosa distingue il saluto appassionato di Kaingu da quello degli altri bimbi vestiti di pochi stracci impolverati e di una gioia che prendono direttamente dalla terra, come radici che si nutrono di sole, frutti della natura e umidità. Kaingu dice “buongiorno, signore”, non “ciao”.
E’ l’equivalente del classico benvenuto keniota, che in swahili suona “Jambo bwana”.
C’è anche una canzoncina orecchiabile che illustra come il rito di ossequio per i nuovi arrivati sia praticamente l’inno nazionale, da queste parti.
Kaingu ha otto anni, forse. Forse sette, a scuola ci va da meno di due anni. Ma la sua età parte da quando è stato battezzato, lo stesso giorno i genitori lo hanno registrato all’anagrafe. Due doveri al prezzo di uno.
I suoi coetanei inseguono un paio di scarpe, una maglietta colorata, una bella penna da mostrare ai compagni di classe con orgoglio e far gonfiare d’invidia quelli che dicono “sei amico di un mzungu, di un bianco, non ti vergogni?” ma in realtà sognano una penna uguale, e un amico diverso dai soliti. Kaingu invece ha ricevuto un dono per lui preziosissimo: un dizionario italiano-swahili.
Lo ha stampato una signora italiana che abita a Mombasa. Ogni giorno Kaingu impara una parola nuova e la pronuncia davanti a un bianco per vedere l’effetto che fa. Quando qualcuno lo corregge sull’accento o sulla corretta pronuncia si corruccia, sgrana i grandi occhioni neri e chiede “scusa?” fino a che il bianco non gli ripete la parola. A quel punto il piccolo ed efficacissimo registratore nella testa del bambino è già in funzione. Non scorderà quella parola per il resto della vita.
Telefono cellulare, Quaderno, Pantaloni, Gelato, Macchina, Mangiare, Stanco, Correre.
Ogni giorno una decina di vocaboli nuovi. Da solo, a sette anni sta imparando una lingua nuova.
Ieri qualcuno gli ha detto un proverbio: “finchè c’è vita c’è speranza”, lo ripete tutto il pomeriggio e guarda nel suo dizionario, stretto tra le mani come un gioiello o un rosario.
Vita – speranza.
Adesso il suo saluto è completo e non può che far sorridere ma anche stringere il cuore: “Buongiorno, signore! Finchè c’è vita c’è speranza”.
giovedì 30 ottobre 2008
ROCCO TANICA E I FESCENNINI DI "SCRITTI SCELTI MALE"
“Scritti scelti male”, questo il significativo titolo dell’esordio letterario di Rocco Tanica, così dicono. Dopo attenta lettura, in realtà, siamo certi di dover affermare il contrario, ovvero che “Rocco Tanica” (Bompiani) è in realtà l’esordio letterario del promettente Scritti Scelti Male.
In effetti questa strabiliante e surreale raccolta di saggi, immaturi, articoli, editoriali, fescennini, calambour, sembra si sia scritta da sola, dopo aver composto “Rocco Tanica” e che la creatura “Rocco Tanica” abbia creato successivamente lo scrittore Sergio Conforti, fino ad allora esclusivamente musicista, compositore, arrangiatore, autore di testi, cabarettista, presentatore, corista, ma soprattutto autore di fescennini.
Italo Calvino era solito dire che i lettori sono personaggi di fantasia scaturiti dalla fantasia di chi scrive, in questo caso ci imbattiamo invece in uno scrittore creato ad arte dal senso della realtà di chi legge.
Nel libro di “Scritti scelti male”, dietro a una parvenza di Rocchitanici (o Roccotanici), convivono ingenui giornalisti free-lance che riesumano Janis Joplin con la stessa abilità con cui si telefona a Wanna Marchi, inseguono Huey Lewis in un fast-food, dialogano con Thom Yorke come fosse un amico d’infanzia e carpiscono i segreti dell’uncinetto da Mark Chapman (i lettori più disattenti troveranno non pochi piccati riferimenti a certi vezzi degli audioreferenziati critici di casa nostra). I cronisti affermati invece sono esperti di lepri a Venezia, di rettili mitologici a Genova e di moda in Vaticano. Aggiungiamo un “Cara ti amo” in versione gay, un quiproquo con un politico elvetico, un matrimonio regale alla Daniil Charms, leggende di navigatori da tastiera, altri fescennini e qualche brevissima autobiografia scottante che ci aiuta a far luce su alcuni degli episodi più controversi del secolo ed ecco…il granguignolesco e candido stile di Scritti Scelti Male è il vero segreto del divertente “Rocco Tanica”.
Da leggere come si legge il poetico biglietto d’auguri di uno sconosciuto, un volumetto geniale che langue da anni nei cassetti di un editor, la dichiarazione d’amore di una monaca di clausura, il mea culpa di un senatore, il testamento spirituale di un cursore di fascia destra o qualche altra cosa che mai ci si sarebbe aspettati di avere sotto mano.
Caro Scritti Scelti Male, grazie per questo “Rocco Tanica” e grazie soprattutto dei tuoi fescennini. Regalacene ancora, in questo mondo dell’ovvio, c’è quanto mai bisogno di intelligenza, ironia e fescennini.
ROCCO TANICA
“SCRITTI SCELTI MALE”
Bompiani – Grandi asSaggi
Pagg. 187
€ 14.00
mercoledì 29 ottobre 2008
NONNO KAZUNGU E LE RIFORME (seconda parte)
"E’ che per fare le riforme, c’è bisogno di tutti - disse Nonno Kazungu – la Costituzione è proprio come una casa: per quanto solida, ogni tanto va rinnovata, si deve cambiare il tetto di makuti marcito dopo le piogge, gli stipiti in legno della porta rosicchiati dalle tarme, il materasso ridotto a un ammasso informe di lana infeltrita"
"Che schifo!" disse Kibebe
"Come si è ridotta male la nostra costituzione…" sospirò Kamongo.
I muratori battevano con pesanti mazze sulla pietra bianca del pavimento, per appianarla. La casa africana, così come la vita da queste parti, è fatta a mano. Dalle fondamenta all’ultima finitura. E’ un processo lento e stancante, una tela di Penelope tribolata e senza termine ultimo, ma dà grande soddisfazione, anche perché difficilmente da queste parti ci sarà una seconda casa e quasi mai si ha la possibilità di una seconda vita.
"Mi ha detto la signora Ottavia che anche in Italia devono riformare tutto, altrimenti non riescono ad andare avanti a costruire nuove case e a restaurare quelle vecchie" aggiunse Kadenge a cui, anche per tenere vivo l’ardore dei muratori, questa metafora dello Stato-Casa piaceva.
Il nonno, come sempre, affievolì l’entusiasmo del nipote.
"Inutile avere un progetto per una casa meravigliosa, se hai pessimi muratori che la devono erigere"
I sette kibarua della casa di Kadenge si voltarono lentamente e degnarono Kazungu di un’espressione che sembrava voler dire: "Ehi, vecchio, noi non siamo di Kakoneni, massimo rispetto per le tue rughe, ma se ce l’hai con noi ti avvertiamo che una sera magari, ebbri di vino di palma e con qualche "bangi" di marijuana alle spalle, ci capiterà di passare dal tuo villaggio e avremo due cosette da dirti…".
Quello sguardo aveva raggelato perfino Kibebe lo scemo e le rondini in cielo avevano invertito il senso di rotazione del loro volteggiare.
"Che cosa incredibile il genere umano, occhi come specchi dell’anima, gestualità collegata all’istinto, mimica facciale come istanze del cuore" pensò il nonno, che sentendosi leggermente rattrappire il muscolo rettale, ebbe fiato omogeneo per aggiungere velocemente "chiaramente non mi riferisco alla tua ottima squadra di muratori, nipote…".
Gli specchi dell’anima s’illuminarono del sole in controluce e ripresero ad inquadrare le mazze e le cazzuole, la gestualità tornò ad essere ritmica fatica e la mimica facciale passò alle dipendenze dei bicipiti e divenne semplicemente smorfia.
"Vedi – sussurrò Kamongo all’indirizzo di Mwachiro, il vicino di casa di Kadenge, un macrocefalo nerboruto che sembrava essere stato partorito da un baobab – una casa per venire su bene ha bisogno di un buon ingegnere, bravi architetti e giusta manovalanza. Tutti gli elementi concorrono allo stesso modo e sono egualmente importanti".
Lo Svaporato in questo caso avrebbe pensato: "E io che consideravo Kamongo un conservatore…"
Ma lo Svaporato non c’era e nonno Kazungu non si era ancora del tutto ripreso dalla gaffe con i kibarua, per apprezzare l’intervento progressista del rappresentante.
"Non sono d’accordo – proclamò Kadenge Davide – se l’ingegnere è un incapace e il progetto fa pena, è inutile avere operai specializzati bravissimi"
"Gli unici che contano poco sono gli architetti, allora" disse Mwachiro.
"La classe di mezzo" confermò il nonno.
"In Kenya stanno lavorando proprio su questo…" lo rimbeccò Kadenge.
"Migliorare l’incidenza degli architetti?" chiese Mwachiro?
"No, stroncarli sul nascere! O sei ingegnere, o sei operaio…" disse sconsolato nonno Kazungu.
Kibebe lo scemo, a qualche metro di distanza, scacciava le mosche dalle grandi orecchie con ciuffi di piante secche che ogni tanto gli restavano impigliati tra i capelli lanosi.
Captò l’ombra di uno dei tre baobab del terreno di Kadenge e si incamminò balzellante. Poi, con aria soddisfatta di giaguaro all’inizio del processo di digestione, si accovacciò alla sua maniera ai piedi della grande pianta.
"L’ho sempre detto io, le case danno troppi problemi. Meglio dormire qui"
"Che schifo!" disse Kibebe
"Come si è ridotta male la nostra costituzione…" sospirò Kamongo.
I muratori battevano con pesanti mazze sulla pietra bianca del pavimento, per appianarla. La casa africana, così come la vita da queste parti, è fatta a mano. Dalle fondamenta all’ultima finitura. E’ un processo lento e stancante, una tela di Penelope tribolata e senza termine ultimo, ma dà grande soddisfazione, anche perché difficilmente da queste parti ci sarà una seconda casa e quasi mai si ha la possibilità di una seconda vita.
"Mi ha detto la signora Ottavia che anche in Italia devono riformare tutto, altrimenti non riescono ad andare avanti a costruire nuove case e a restaurare quelle vecchie" aggiunse Kadenge a cui, anche per tenere vivo l’ardore dei muratori, questa metafora dello Stato-Casa piaceva.
Il nonno, come sempre, affievolì l’entusiasmo del nipote.
"Inutile avere un progetto per una casa meravigliosa, se hai pessimi muratori che la devono erigere"
I sette kibarua della casa di Kadenge si voltarono lentamente e degnarono Kazungu di un’espressione che sembrava voler dire: "Ehi, vecchio, noi non siamo di Kakoneni, massimo rispetto per le tue rughe, ma se ce l’hai con noi ti avvertiamo che una sera magari, ebbri di vino di palma e con qualche "bangi" di marijuana alle spalle, ci capiterà di passare dal tuo villaggio e avremo due cosette da dirti…".
Quello sguardo aveva raggelato perfino Kibebe lo scemo e le rondini in cielo avevano invertito il senso di rotazione del loro volteggiare.
"Che cosa incredibile il genere umano, occhi come specchi dell’anima, gestualità collegata all’istinto, mimica facciale come istanze del cuore" pensò il nonno, che sentendosi leggermente rattrappire il muscolo rettale, ebbe fiato omogeneo per aggiungere velocemente "chiaramente non mi riferisco alla tua ottima squadra di muratori, nipote…".
Gli specchi dell’anima s’illuminarono del sole in controluce e ripresero ad inquadrare le mazze e le cazzuole, la gestualità tornò ad essere ritmica fatica e la mimica facciale passò alle dipendenze dei bicipiti e divenne semplicemente smorfia.
"Vedi – sussurrò Kamongo all’indirizzo di Mwachiro, il vicino di casa di Kadenge, un macrocefalo nerboruto che sembrava essere stato partorito da un baobab – una casa per venire su bene ha bisogno di un buon ingegnere, bravi architetti e giusta manovalanza. Tutti gli elementi concorrono allo stesso modo e sono egualmente importanti".
Lo Svaporato in questo caso avrebbe pensato: "E io che consideravo Kamongo un conservatore…"
Ma lo Svaporato non c’era e nonno Kazungu non si era ancora del tutto ripreso dalla gaffe con i kibarua, per apprezzare l’intervento progressista del rappresentante.
"Non sono d’accordo – proclamò Kadenge Davide – se l’ingegnere è un incapace e il progetto fa pena, è inutile avere operai specializzati bravissimi"
"Gli unici che contano poco sono gli architetti, allora" disse Mwachiro.
"La classe di mezzo" confermò il nonno.
"In Kenya stanno lavorando proprio su questo…" lo rimbeccò Kadenge.
"Migliorare l’incidenza degli architetti?" chiese Mwachiro?
"No, stroncarli sul nascere! O sei ingegnere, o sei operaio…" disse sconsolato nonno Kazungu.
Kibebe lo scemo, a qualche metro di distanza, scacciava le mosche dalle grandi orecchie con ciuffi di piante secche che ogni tanto gli restavano impigliati tra i capelli lanosi.
Captò l’ombra di uno dei tre baobab del terreno di Kadenge e si incamminò balzellante. Poi, con aria soddisfatta di giaguaro all’inizio del processo di digestione, si accovacciò alla sua maniera ai piedi della grande pianta.
"L’ho sempre detto io, le case danno troppi problemi. Meglio dormire qui"
martedì 28 ottobre 2008
NONNO KAZUNGU E LE RIFORME (prima parte)
Kakoneni era la solita oasi di pace.
Era una mattina "che più africana di così c’è solo nel Masai Mara", come era solito dire Kadenge Davide. L’orchestra di suoni della natura si intrecciava con le partiture jazz del genere umano, così il frullo dei passerotti e il cinguettio dei tordi coronati s’intrecciava a meraviglia con gli acuti gridolini degli alunni della "Kakoneni Primary School" nella radura intorno all’edificio, il belante sax soprano delle caprette alla corda sembrava accordarsi perfettamente con il contrabbasso della sega a mano che mordeva il vecchio banano.
Nonno Kazungu, come un abile direttore della filarmonica più antica del mondo, agitava lentamente la pipa come fosse una bacchetta e ogni tanto se la riaccendeva.
La pipa era un lascito della sua lunga militanza con gli inglesi, prima di diventare maggiordomo di fiducia di tanti italiani di Malindi, un vezzo che lo differenziava da ogni altro vecchio saggio di quei luoghi e anche per questo Kazungu, pur non essendo uno stregone, veniva tenuto in grande considerazione e rispettato da tutti.
Il nipote Kadenge, detto Davide l’Italiano per via delle cinque mogli bianche e di altrettanti figli messi al mondo con loro, era tornato al villaggio per controllare i progressi dei lavori di costruzione della sua casa per la vecchiaia.
"Alla soglia dei quarant’anni è ora che ci pensi seriamente" lo aveva rimproverato il nonno.
"Ma io ci ho sempre pensato, questo terreno lo comprai con l’aiuto della seconda moglie…"
Tutto vero.
La prima era una ragazzina, conosciuta sulla spiaggia di un villaggio turistico e rimasta incinta per caso. Il matrimonio, in un grigio e freddo febbraio veneto, era stato imposto dai genitori di lei ma il giovane Kadenge aveva resistito pochi mesi nell’azienda del suocero, non senza sperimentare l’attrazione sulle segretarie e alcune amiche della suocera. Afflitto e trafitto al cuore dalla nostalgia, era tornato a Malindi inventandosi una malattia del nonno.
"In Italia dicono che così ti ho allungato la vita" cercò di giustificare la balla.
"Guarda che conosco anch’io le cavolate degli italiani, quello succede quando mi sogni morto…"
Epico fu il discorso del giovane beach-boy alla ragazzina che dopo qualche mese aveva fatto ritorno in Kenya per cercare di convincerlo:
"Vedi, Sabrina, questa è la mia terra. Niente mi fa più felice di una passeggiata sulla battigia quando la marea sta per risalire. Guardare le onde infrangersi sulla barriera corallina e ascoltarne la voce, seguire con gli occhi i disegni sempre diversi delle nuvole basse che sfiorano l’orizzonte. La mia vita è qui, abbi cura di mio figlio. Ti voglio bene".
Kadenge non era un bastardo.
Gli assomigliava, ma non lo era.
Quando parlava era sincero e proprio per questo le conquistava tutte.
Alle femmine piace illudersi di avere trovato l’uomo ideale ma, alla resa dei conti con se stesse, sanno che si tratta di una chimera.
Proprio come i giochi delle nuvole quando si cammina sulla spiaggia.
Per un po’ le abbracci con lo sguardo e diventano ciò che vuoi tu, ti regalano sogni e prendono le forme della tua fantasia, ma alla fine ti accorgi che, per quanto candide e sinuose, rarefatte o gonfie di poesia, sono soltanto nuvole passeggere e nulla più.
Kadenge era una di quelle nuvole basse, in carne e muscoli, ma egli stesso sapeva plasmare le sue illusioni. Così bene che non lo si poteva mai biasimare, era come fosse parte della natura selvaggia dell’Africa.
E dalla Natura si accetta qualsiasi cosa.
La seconda, Mirella, invece sembrava già il grande amore e insieme avevano deciso di acquistare il terreno che nonno Kazungu aveva mostrato loro un giorno: non distante dalla strada, vicino alla chiesa ed esteso fino quasi ai confini del villaggio di famiglia. All’interno, due baobab secolari, decine di manghi, banani e un campo da seminare a grano grande mezzo acro.
Arrivò perfino un "architetto" indiano amico di lei, per gettare le fondamenta della casa, portò mattoni bianchi e pietre di corallo, sabbia finissima da cemento e barre di ferro per i muri portanti. Sarebbe stata la villetta più bella di Kakoneni, ma umile e senza fronzoli, nel rispetto della sua gente. Fu il padre, giunto dall’Italia come la furia di un uragano, a portarsela via quando già aspettava il frutto del loro amore. Gestivano un chiosco di frullati, l’uomo arrivò lì una mattina, mentre Mirella dormiva e cercò di corrompere Kadenge.
"Quanto vuoi per mia figlia?"
"In verità… dalle mie parti siamo noi che comperiamo le donne, ma non so se può portarsi sei capre e quattro vacche in aereo"
"Uè, alegher… ciapa minga per el cù… ti ho capito a te, fai il furbetti… vanno bene cinque?"
"Cinque vacche?"
"Cinque zucche, zulù!
Cinque testoni, cinque milioni…quanti scellini sono cinque milioni di lire?"
Kadenge fece il conto mentalmente, usando come unità di misura i plot di Kakoneni e le tariffe delle sue amiche Lulù e Janet.
"Tanti…"
"Allora io ti do cinque milioni se ti dimentichi di Mirella, che torna con me in Italia"
"Lei non vuole tornare in Italia, siamo innamorati e ci sposeremo"
"E se ti trovasse a letto con un’altra…"
"Come?!?"
"Ma sì, dai…un bel paio di corna prima delle nozze zulù"
Kadenge lo squadrò come la mangusta che guarda un serpente presuntuoso.
"Tieniti i tuoi soldi, papà"
"Dieci?"
"No"
"Quindici?"
"Nemmeno per cento"
L’aveva sparata grossa, se si fossero materializzati cento milioni di lire lì davanti si sarebbe sbriciolato come un biscotto al cocco (perché, cinquanta no?).
Ma non si materializzarono e gli parve d’essere prigioniero di un incubo con i sottotitoli in brianzolo.
"Alegher, negher…tanto vinco io…"
Vinse lui.
Chissà, forse Mirella aveva accettato i cento milioni.
Forse ne avrebbe ricevuti di più.
In realtà la ragazza aveva pensato all’avvenire di suo figlio e aveva ottenuto dal genitore di potersi dedicare a tempo pieno al ruolo di mamma, senza entrare nei quadri dirigenziali dell’impresa di famiglia.
Una decisione sofferta, dolorosa, ma resa meno amara dall’atto d’amore per la vita che covava in grembo e per il giovane gioiello d’ebano con cui l’aveva concepito.
Dalla terza moglie in poi, la casa non aveva registrato progressi. Erano state erette otto colonne ma due si erano rivelate storte ed erano state tirate giù. Poi la divertente parentesi di Lawrence Kamongo, il rappresentante di telefonini, che si era improvvisato costruttore ("anche gli italiani a Malindi hanno iniziato così: uno in Italia era parrucchiere e ha aperto un ristorante, un altro faceva il buttafuori ed è direttore d’albergo, un altro ha iniziato come maestro di tennis ed è il più importante costruttore di villette a schiera…"). Kamongo aveva preso in mano la conduzione dei lavori ("mi pagherai alla consegna…") e nonno Kazungu era riuscito a fermarlo in tempo, prima che il sogno di Kadenge Davide si trasformasse in una cosa a metà tra un mausoleo nubiano e un hangar dell’aviazione eritrea.
Ora, con i proventi della campagna femminile di gennaio (in tempi di guerra e con l’età e la pancetta che avanzavano bisognava accontentarsi: nel carnet di carne anche due tedesche e un’ultrasessantenne tiratissima) aveva ripreso i lavori e veniva lui stesso a controllare due giorni alla settimana, con un giovane costruttore bergamasco, amico dello Svaporato. Uno spirito semplice, per cui il Kenya era soltanto un luogo selvaggio a novemila chilometri da Dalmine. Ci sarebbero voluti secoli a cementificarlo tutto!
"Ma voi la pagate l’Ici?" chiese il bergamasco a nonno Kazungu.
Per uno delle valli orobiche, magari ricevere uno sguardo di compassione da un "giriama" dell’Alto Galana può essere considerato anche motivo di vanto. In ogni caso, il sorriso abbelliva entrambi.
"Dopo vent’anni sono riuscito a pagare il titolo di proprietà del mio terreno, ma noi non siamo mai proprietari di nulla, tocca alla Natura pagare l’Ici…quel che abbiamo noi, e che avete anche voi, è una concessione per 99 anni, rinnovabile"
"Niente tasse sulla casa? Niente Ici?"
"Prova a fare causa a Madre Natura…"
Il bergamasco spiegava che con il ritorno al potere di Berlusconi, lo Stato Italiano avrebbe abolito alcune tasse sulla prima casa.
"Perché, quante case volete?"
"Ah, c’è chi ne ha anche venti!"
"Come gli arabi che costruiscono i condomini?"
"Esatto! E poi le affittano…"
"Ma qui non ci devono pagare le tasse…in Italia perché non le vendono e si tengono i soldi…"
"Perché sono un investimento…magari un giorno valgono di più…"
"Agli italiani piace giocare, al casinò e nella vita…al mondo occidentale piace perdere i soldi per poi rifarli e riperderli…altrimenti non si divertono"
Mentre Kadenge dava disposizioni al capomastro e urlava garbate bestemmie all’indirizzo dei kibarua che avevano approfittato di un suo attimo di distrazione per iniziare a murargli la finestra del bagno, si materializzò Kamongo, con l’aria di uno scienziato che aveva lavorato a lungo su un procedimento chimico che qualcuno, grazie a un colpo di fortuna, aveva trasformato in una formula vincente da premio Nobel.
"Viene bene…vedo che avete tenuto la mia concezione di spazio…"
"La parte esterna della veranda, dici? – disse Kazungu, poggiandogli una mano sulla spalla – sì, si potrà sempre andare sotto il baobab attraverso il prato…"
"Spiritoso…"
"Kamongo, lei paga le tasse?" interruppe il bergamasco, che evidentemente aveva un’ancestrale paranoia italica.
"Poca roba…ma adesso con le riforme cambia tutto…"
"In meglio?"
"Questo lo dirà la storia – sbuffò il rappresentante, sistemandosi la giacca – per me più è grande la coalizione, più fa male il suo bastone…"
"Fa anche rima!" disse Kibebe lo scemo, che nessuno aveva ancora notato, semi-seppellito sotto una montagna di sabbia da cemento.
(fine prima parte)
Era una mattina "che più africana di così c’è solo nel Masai Mara", come era solito dire Kadenge Davide. L’orchestra di suoni della natura si intrecciava con le partiture jazz del genere umano, così il frullo dei passerotti e il cinguettio dei tordi coronati s’intrecciava a meraviglia con gli acuti gridolini degli alunni della "Kakoneni Primary School" nella radura intorno all’edificio, il belante sax soprano delle caprette alla corda sembrava accordarsi perfettamente con il contrabbasso della sega a mano che mordeva il vecchio banano.
Nonno Kazungu, come un abile direttore della filarmonica più antica del mondo, agitava lentamente la pipa come fosse una bacchetta e ogni tanto se la riaccendeva.
La pipa era un lascito della sua lunga militanza con gli inglesi, prima di diventare maggiordomo di fiducia di tanti italiani di Malindi, un vezzo che lo differenziava da ogni altro vecchio saggio di quei luoghi e anche per questo Kazungu, pur non essendo uno stregone, veniva tenuto in grande considerazione e rispettato da tutti.
Il nipote Kadenge, detto Davide l’Italiano per via delle cinque mogli bianche e di altrettanti figli messi al mondo con loro, era tornato al villaggio per controllare i progressi dei lavori di costruzione della sua casa per la vecchiaia.
"Alla soglia dei quarant’anni è ora che ci pensi seriamente" lo aveva rimproverato il nonno.
"Ma io ci ho sempre pensato, questo terreno lo comprai con l’aiuto della seconda moglie…"
Tutto vero.
La prima era una ragazzina, conosciuta sulla spiaggia di un villaggio turistico e rimasta incinta per caso. Il matrimonio, in un grigio e freddo febbraio veneto, era stato imposto dai genitori di lei ma il giovane Kadenge aveva resistito pochi mesi nell’azienda del suocero, non senza sperimentare l’attrazione sulle segretarie e alcune amiche della suocera. Afflitto e trafitto al cuore dalla nostalgia, era tornato a Malindi inventandosi una malattia del nonno.
"In Italia dicono che così ti ho allungato la vita" cercò di giustificare la balla.
"Guarda che conosco anch’io le cavolate degli italiani, quello succede quando mi sogni morto…"
Epico fu il discorso del giovane beach-boy alla ragazzina che dopo qualche mese aveva fatto ritorno in Kenya per cercare di convincerlo:
"Vedi, Sabrina, questa è la mia terra. Niente mi fa più felice di una passeggiata sulla battigia quando la marea sta per risalire. Guardare le onde infrangersi sulla barriera corallina e ascoltarne la voce, seguire con gli occhi i disegni sempre diversi delle nuvole basse che sfiorano l’orizzonte. La mia vita è qui, abbi cura di mio figlio. Ti voglio bene".
Kadenge non era un bastardo.
Gli assomigliava, ma non lo era.
Quando parlava era sincero e proprio per questo le conquistava tutte.
Alle femmine piace illudersi di avere trovato l’uomo ideale ma, alla resa dei conti con se stesse, sanno che si tratta di una chimera.
Proprio come i giochi delle nuvole quando si cammina sulla spiaggia.
Per un po’ le abbracci con lo sguardo e diventano ciò che vuoi tu, ti regalano sogni e prendono le forme della tua fantasia, ma alla fine ti accorgi che, per quanto candide e sinuose, rarefatte o gonfie di poesia, sono soltanto nuvole passeggere e nulla più.
Kadenge era una di quelle nuvole basse, in carne e muscoli, ma egli stesso sapeva plasmare le sue illusioni. Così bene che non lo si poteva mai biasimare, era come fosse parte della natura selvaggia dell’Africa.
E dalla Natura si accetta qualsiasi cosa.
La seconda, Mirella, invece sembrava già il grande amore e insieme avevano deciso di acquistare il terreno che nonno Kazungu aveva mostrato loro un giorno: non distante dalla strada, vicino alla chiesa ed esteso fino quasi ai confini del villaggio di famiglia. All’interno, due baobab secolari, decine di manghi, banani e un campo da seminare a grano grande mezzo acro.
Arrivò perfino un "architetto" indiano amico di lei, per gettare le fondamenta della casa, portò mattoni bianchi e pietre di corallo, sabbia finissima da cemento e barre di ferro per i muri portanti. Sarebbe stata la villetta più bella di Kakoneni, ma umile e senza fronzoli, nel rispetto della sua gente. Fu il padre, giunto dall’Italia come la furia di un uragano, a portarsela via quando già aspettava il frutto del loro amore. Gestivano un chiosco di frullati, l’uomo arrivò lì una mattina, mentre Mirella dormiva e cercò di corrompere Kadenge.
"Quanto vuoi per mia figlia?"
"In verità… dalle mie parti siamo noi che comperiamo le donne, ma non so se può portarsi sei capre e quattro vacche in aereo"
"Uè, alegher… ciapa minga per el cù… ti ho capito a te, fai il furbetti… vanno bene cinque?"
"Cinque vacche?"
"Cinque zucche, zulù!
Cinque testoni, cinque milioni…quanti scellini sono cinque milioni di lire?"
Kadenge fece il conto mentalmente, usando come unità di misura i plot di Kakoneni e le tariffe delle sue amiche Lulù e Janet.
"Tanti…"
"Allora io ti do cinque milioni se ti dimentichi di Mirella, che torna con me in Italia"
"Lei non vuole tornare in Italia, siamo innamorati e ci sposeremo"
"E se ti trovasse a letto con un’altra…"
"Come?!?"
"Ma sì, dai…un bel paio di corna prima delle nozze zulù"
Kadenge lo squadrò come la mangusta che guarda un serpente presuntuoso.
"Tieniti i tuoi soldi, papà"
"Dieci?"
"No"
"Quindici?"
"Nemmeno per cento"
L’aveva sparata grossa, se si fossero materializzati cento milioni di lire lì davanti si sarebbe sbriciolato come un biscotto al cocco (perché, cinquanta no?).
Ma non si materializzarono e gli parve d’essere prigioniero di un incubo con i sottotitoli in brianzolo.
"Alegher, negher…tanto vinco io…"
Vinse lui.
Chissà, forse Mirella aveva accettato i cento milioni.
Forse ne avrebbe ricevuti di più.
In realtà la ragazza aveva pensato all’avvenire di suo figlio e aveva ottenuto dal genitore di potersi dedicare a tempo pieno al ruolo di mamma, senza entrare nei quadri dirigenziali dell’impresa di famiglia.
Una decisione sofferta, dolorosa, ma resa meno amara dall’atto d’amore per la vita che covava in grembo e per il giovane gioiello d’ebano con cui l’aveva concepito.
Dalla terza moglie in poi, la casa non aveva registrato progressi. Erano state erette otto colonne ma due si erano rivelate storte ed erano state tirate giù. Poi la divertente parentesi di Lawrence Kamongo, il rappresentante di telefonini, che si era improvvisato costruttore ("anche gli italiani a Malindi hanno iniziato così: uno in Italia era parrucchiere e ha aperto un ristorante, un altro faceva il buttafuori ed è direttore d’albergo, un altro ha iniziato come maestro di tennis ed è il più importante costruttore di villette a schiera…"). Kamongo aveva preso in mano la conduzione dei lavori ("mi pagherai alla consegna…") e nonno Kazungu era riuscito a fermarlo in tempo, prima che il sogno di Kadenge Davide si trasformasse in una cosa a metà tra un mausoleo nubiano e un hangar dell’aviazione eritrea.
Ora, con i proventi della campagna femminile di gennaio (in tempi di guerra e con l’età e la pancetta che avanzavano bisognava accontentarsi: nel carnet di carne anche due tedesche e un’ultrasessantenne tiratissima) aveva ripreso i lavori e veniva lui stesso a controllare due giorni alla settimana, con un giovane costruttore bergamasco, amico dello Svaporato. Uno spirito semplice, per cui il Kenya era soltanto un luogo selvaggio a novemila chilometri da Dalmine. Ci sarebbero voluti secoli a cementificarlo tutto!
"Ma voi la pagate l’Ici?" chiese il bergamasco a nonno Kazungu.
Per uno delle valli orobiche, magari ricevere uno sguardo di compassione da un "giriama" dell’Alto Galana può essere considerato anche motivo di vanto. In ogni caso, il sorriso abbelliva entrambi.
"Dopo vent’anni sono riuscito a pagare il titolo di proprietà del mio terreno, ma noi non siamo mai proprietari di nulla, tocca alla Natura pagare l’Ici…quel che abbiamo noi, e che avete anche voi, è una concessione per 99 anni, rinnovabile"
"Niente tasse sulla casa? Niente Ici?"
"Prova a fare causa a Madre Natura…"
Il bergamasco spiegava che con il ritorno al potere di Berlusconi, lo Stato Italiano avrebbe abolito alcune tasse sulla prima casa.
"Perché, quante case volete?"
"Ah, c’è chi ne ha anche venti!"
"Come gli arabi che costruiscono i condomini?"
"Esatto! E poi le affittano…"
"Ma qui non ci devono pagare le tasse…in Italia perché non le vendono e si tengono i soldi…"
"Perché sono un investimento…magari un giorno valgono di più…"
"Agli italiani piace giocare, al casinò e nella vita…al mondo occidentale piace perdere i soldi per poi rifarli e riperderli…altrimenti non si divertono"
Mentre Kadenge dava disposizioni al capomastro e urlava garbate bestemmie all’indirizzo dei kibarua che avevano approfittato di un suo attimo di distrazione per iniziare a murargli la finestra del bagno, si materializzò Kamongo, con l’aria di uno scienziato che aveva lavorato a lungo su un procedimento chimico che qualcuno, grazie a un colpo di fortuna, aveva trasformato in una formula vincente da premio Nobel.
"Viene bene…vedo che avete tenuto la mia concezione di spazio…"
"La parte esterna della veranda, dici? – disse Kazungu, poggiandogli una mano sulla spalla – sì, si potrà sempre andare sotto il baobab attraverso il prato…"
"Spiritoso…"
"Kamongo, lei paga le tasse?" interruppe il bergamasco, che evidentemente aveva un’ancestrale paranoia italica.
"Poca roba…ma adesso con le riforme cambia tutto…"
"In meglio?"
"Questo lo dirà la storia – sbuffò il rappresentante, sistemandosi la giacca – per me più è grande la coalizione, più fa male il suo bastone…"
"Fa anche rima!" disse Kibebe lo scemo, che nessuno aveva ancora notato, semi-seppellito sotto una montagna di sabbia da cemento.
(fine prima parte)
lunedì 27 ottobre 2008
POESIA: MILANO (dedicata alla mia città natale)
Milano
Ah, Milano...
Milano mia.
Milano, Milano
Avrei preferito
nascere a Windhoek.
Ah, Milano...
Milano mia.
Milano, Milano
Avrei preferito
nascere a Windhoek.
domenica 26 ottobre 2008
DENTRO I BAR
L’unica via da seguire - disse - resta l’ipocrisia
L’arte diventa inutile, ho rotto i ponti con la fantasia
Vorrei fondare un partito ma sono indeciso sul nome
Navigo in siti di borsa ho la soluzione
Dentro non si può fumare fuori inquinano la terra
Un banale mal di gola fa più vittime di una guerra
Oggi il commercialista si chiama creativo fiscale
E chi si sente di merda non sa chi chiamare
Ma vi lascio dentro i bar, me ne torno in riva al mare
Io vi lascio dentro i bar, ho ancora voglia di lottare
Ma vi lascio dentro i bar, non mi faccio abbindolare
No non posso più ascoltare le vostre grandi verità
Noi non cavalchiamo il passato, abbiamo fatto un lifting ai pensieri
Il nostro credo è cambiato e la memoria arriva fino a ieri
Non c’è morale che tenga, quello che conta è farsi largo
La libertà non è morta, si gode il letargo
Ma vi lascio dentro i bar, me ne torno in riva al mare
Ho bisogno di sperare, voi restate pure là
Ma vi lascio dentro i bar, a sparlare e compatire
A criticare e benedire come i santoni del lunedì
Forse arriverà qualcuno che mi chiamerà per nome
E non si affiderà alla maschera di un’impressione
Forse ci sarà qualcuno a bordo di un’emozione
Che ci raggiungerà e canteremo una canzone
io vi lascio dentro i bar, si vi lascio dentro i bar
voi restate pure là, io vi lascio dentro i bar… another tequila, Manuel?
Io vi lascio dentro i bar me ne torno in riva al mare
Io vi lascio dentro i bar, ho ancora voglia di lottare
Ma vi lascio dentro i bar, non mi faccio abbindolare
No non posso più ascoltare le vostre chiacchiere
Ma vi lascio dentro i bar me ne torno in riva al mare
Io non riesco a sopportare chi ha paura di sognare
Ma vi lascio dentro i bar, ho qualcosa in cui sperare
Un’onda se n’è appena andata, un’altra presto arriverà
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
L’arte diventa inutile, ho rotto i ponti con la fantasia
Vorrei fondare un partito ma sono indeciso sul nome
Navigo in siti di borsa ho la soluzione
Dentro non si può fumare fuori inquinano la terra
Un banale mal di gola fa più vittime di una guerra
Oggi il commercialista si chiama creativo fiscale
E chi si sente di merda non sa chi chiamare
Ma vi lascio dentro i bar, me ne torno in riva al mare
Io vi lascio dentro i bar, ho ancora voglia di lottare
Ma vi lascio dentro i bar, non mi faccio abbindolare
No non posso più ascoltare le vostre grandi verità
Noi non cavalchiamo il passato, abbiamo fatto un lifting ai pensieri
Il nostro credo è cambiato e la memoria arriva fino a ieri
Non c’è morale che tenga, quello che conta è farsi largo
La libertà non è morta, si gode il letargo
Ma vi lascio dentro i bar, me ne torno in riva al mare
Ho bisogno di sperare, voi restate pure là
Ma vi lascio dentro i bar, a sparlare e compatire
A criticare e benedire come i santoni del lunedì
Forse arriverà qualcuno che mi chiamerà per nome
E non si affiderà alla maschera di un’impressione
Forse ci sarà qualcuno a bordo di un’emozione
Che ci raggiungerà e canteremo una canzone
io vi lascio dentro i bar, si vi lascio dentro i bar
voi restate pure là, io vi lascio dentro i bar… another tequila, Manuel?
Io vi lascio dentro i bar me ne torno in riva al mare
Io vi lascio dentro i bar, ho ancora voglia di lottare
Ma vi lascio dentro i bar, non mi faccio abbindolare
No non posso più ascoltare le vostre chiacchiere
Ma vi lascio dentro i bar me ne torno in riva al mare
Io non riesco a sopportare chi ha paura di sognare
Ma vi lascio dentro i bar, ho qualcosa in cui sperare
Un’onda se n’è appena andata, un’altra presto arriverà
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
sabato 25 ottobre 2008
NONNO KAZUNGU E LE NOTIZIE
Quel pomeriggio il sole rideva come quando le nuvole si prendono a calci da qualche altra parte, un vento consapevole trasportava l'odore della sterpaglia bruciata e delle vacche al pascolo, i canti giocosi dei bimbi e quelli di fatica delle donne, chine sul bucato o in piedi con la schiena fiera e i pesi in testa.
"Cosa c'è di più multimediale del vento – ragionava in italiano, parlando in swahili lo Svaporato – regala il suono d'ogni cosa, trasporta oggetti che puoi vedere, come quel sacchetto di plastica o quella foglia, e anche l'odore del mondo. Inventeranno mai un telefonino o una televisione che ti fa sentire l'odore del luogo da cui trasmette?"
Lo Svaporato non era stato soprannominato così per caso. Nonno Kazungu osservava quel ragazzo irsuto e ciondolante, figlio del suo storico datore di lavoro italiano di Malindi, che era passato a trovarlo a Kakoneni.
"Non ti seguo, ma ho capito" rispose.
"Che ci importa della televisione, quando abbiamo il vento?"
"Adesso ti seguo…ma non ti capisco. Uomo bianco, vieni in Africa e ci tratti come primitivi, te la prendi perché non capiamo un accidente, perché siamo indietro, perché non collaboriamo e viviamo alla giornata…e poi vorresti tornare indietro tu e ascoltare il vento?"
"Nooo, per carità! – sorrise lo Svaporato – ogni tanto sogno…e i sogni mica li puoi scegliere…arrivano da soli"
Nonno Kazungu fece segno di attraversare la strada, in lontananza un uomo portava a mano la sua bicicletta, carica di carbone.
"Allora facciamo che anche la televisione sia uno di quei sogni che non possiamo decidere di sognare…che ci importa delle notizie, abbiamo il vento!"
"Ah, Kazungu, quanto ci manca la tua saggezza a Malindi…"
Raggiunsero il Safari Bar che era già l'ora di una birretta, per lo Svaporato, e di un "ginger ale" per il nonno.
"Ah, oggi hai portato il mzungu! - esclamò l'enorme barista Kibonge, alla vista dell'italiano – così ci spiega perché agli americani piace mettere la gente nei guai per poi aiutarla e potersi vantare di avere aggiustato le cose. E' come sei io ti regalassi un cucciolo di leopardo per fare da guardia al tuo villaggio, quello cresce e un giorno ti sbrana due nipoti e distrugge mezza capanna. Allora arrivo e lo ammazzo con un colpo di fucile, proprio mentre sta per azzannarti alla gola e ti dico – se non ci fossi stato io, a quest'ora saresti bell'e morto, mio caro -".
"E magari ti convinco a comprare anche il fucile…a prezzo di favore, s'intende" aggiunse Makotsi, l'elettricista.
"Questo bar è un covo di reazionari - precisò nonno Kazungu all'ospite occidentale, sorseggiando il suo ginger ale tiepido – sono convinti che si stava meglio quando si stava peggio…ma loro stessi erano i primi a lamentarsi del presidente-dittatore. Al referendum votarono per la democrazia, festeggiarono le prime libere elezioni. Non è ridicolo tutto ciò?"
"La democrazia non va bene per l'Africa" lanciò Kibonge
"Ti meriti Amin Dada…" replicò Lawrence Kamongo, il venditore di telefonini
"E tu Hillary Clinton…"
"Brutta donna bianca grinzosa…"
"Sarà bella quella cicciona di tua moglie…"
"Baaastaaaa!" urlò il prete, vedendo che la discussione rischiava di degenerare nella volgarità.
"Credo che sia nella natura dell'uomo – disse lo Svaporato – ogni tanto sente il bisogno di cambiare, di evolversi. Ritiene il cambiamento un fatto positivo di per sé, senza preoccuparsi se porterà benefici o meno".
Nonno Kazungu sospirò.
"Mi parli di istinto. Ma l'uomo è un animale e qui siamo alle porte della Savana. Dimmi, ha mai sbagliato la Savana? Il grande esempio di coerenza della Savana non ci ha insegnato niente?"
"Eccome se vi ha insegnato…infatti abbracciate le idee democratiche soltanto duecento anni dopo la Rivoluzione Francese!"
"Nessuno ci aveva avvertito…"
La platea del Safari Bar scoppiò in una risata.
Anche Kibebe lo scemo che di tutto il discorso aveva compreso solo "animale" e "Savana".
"Gli animali sono animali, Kazungu…pensa cosa accadrebbe se un giorno una gazzella convincesse le altre che esiste un posto in cui il leone per legge non può sbranarle…"
"Non ci crederebbero!" gridò Kamongo, il venditore di telefonini.
"Le direbbero – vacci tu e poi mandaci una cartolina -!" rise Makotsi.
"No, un animale non lascerebbe mai la sua Savana, a costo di rischiare ogni giorno la sua vita"
"Vedete? L'uomo invece lo fa!"
"Perché l'uomo è più stupido degli animali!" sentenziò Kibonge.
"O perché è più coraggioso?"
"Incosciente, vuoi dire!"
"Insoddisfatto…"
"Affamato…vorace più di un coccodrillo"
"Intelligente…si vuol sempre migliorare…"
"Scemo…anche a costo di peggiorare!"
In quel momento il prete, che se n'era stato in disparte, si alzò e chiese gentilmente di fare silenzio.
"SSSHHHH. LE NOTIZIE!"
La televisione annunciava che una settimana di trattative serrate tra i due leader politici, con la mediazione di Koffi Annan, non era stata sufficiente a metterli d'accordo. Così il prossimo lunedì sarebbe sbarcata a Nairobi anche Condoleeza Rice in persona.
Il VERO presidente degli Stati Uniti, secondo alcuni, tra cui il barista Kibonge.
"Eccola! Viene ad ammazzare il leopardo…" disse Makotsi
"E a venderci il fucile!" rimbalzò il piccolo Kitsao, sollevando lo sguardo dal quaderno dei compiti.
"Ti sembra il luogo giusto, questo per studiare?" lo redarguì nonno Kazungu in tono burbero.
"E a te sembra il luogo giusto, un lussuoso resort in Savana e per discutere della crisi di una Nazione che si lascia centinaia di morti alle spalle?" rispose il saputello.
"Mi sa che questo ti diventa comunista…" disse lo Svaporato, appoggiando una mano sulla spalla del vecchio.
"Noooo…è soltanto rompicoglioni, con l'età si aggiusta…ma ha tanta voglia di studiare!"
"E noi lo manterremo" confermò il mzungu.
"Anche se ci si rivolterà contro…" sorrise Makotsi.
Il telegiornale si chiudeva rimandando tutto, per l'ennesima volta, alla prossima settimana.
Ribadiva però che gli scontri erano cessati e che le strade erano sicure, anche quelle per l'Uganda e le sterrate del Masai Mara.
Kibonge battè un cucchiaio sulla formica del bancone.
"E adesso vorrei sentire un parere dell'uomo bianco sulla situazione keniota!"
Lo Svaporato osservò dalle grate della finestra di fianco al suo tavolino il cielo che si colorava di lilla. Il sole aveva smesso di ridere, mandava vampate di luce rossa come sbadigli, velandosi di malinconia, dolce e aspro come un arancia.
Si sgranchì la gola e ordinò un'altra Tusker.
"La situazione keniota non differisce dalla situazione nel resto del pianeta. Nel mondo occidentale si vive di più ma si vive peggio, ci si ammala di altre malattie, si paga molto di più per essere curati leggermente meglio, si muore giorno dopo giorno e non di colpo, si diventa più ricchi fuori e più poveri dentro, più colti dentro e più ignoranti fuori. Nel mondo occidentale non si ascolta più il vento, ma la televisione…."
Sarebbe andato avanti per ore, e per tante altre Tusker. Ma era ora di tornare a Malindi, prima che il buio si impadronisse della strada. Lo Svaporato tornò in sé, valutò la platea e lo sguardo di nonno Kazungu implorante pietà.
"…Ehm…comunque ritengo che gli interessi mondiali in questo Paese siano tali per cui i due leader politici saranno obbligati a rigare dritto e trovare al più presto un compromesso, che rimetta in carreggiata il Kenya e limiti i danni arrecati all'economia. Arriveranno aiuti ai profughi e tornerà il turismo. Io sono ottimista, avremo presto buone notizie!"
"Bravo! Anche noi siamo ottimisti! Evviva le buone notizie" esclamò Kamongo!
"Avremo buone notizie!" fecero eco gli altri avventori!
"Con l'aiuto di Dio…" aggiunse il prete.
Makotsi lo salutò con affetto, Kibonge con un po' di commiserazione, intascando i soldi delle bevute.
"Alle buone notizie!"
Nonno Kazungu lo abbracciò.
Nell'aria si diffondeva odore di capretto alla brace e patate cotte nel carbone.
I due si guardarono negli occhi come animali della stessa razza.
I loro sguardi sembravano dire la stessa cosa.
"In ogni caso, abbiamo sempre il vento!"
"Cosa c'è di più multimediale del vento – ragionava in italiano, parlando in swahili lo Svaporato – regala il suono d'ogni cosa, trasporta oggetti che puoi vedere, come quel sacchetto di plastica o quella foglia, e anche l'odore del mondo. Inventeranno mai un telefonino o una televisione che ti fa sentire l'odore del luogo da cui trasmette?"
Lo Svaporato non era stato soprannominato così per caso. Nonno Kazungu osservava quel ragazzo irsuto e ciondolante, figlio del suo storico datore di lavoro italiano di Malindi, che era passato a trovarlo a Kakoneni.
"Non ti seguo, ma ho capito" rispose.
"Che ci importa della televisione, quando abbiamo il vento?"
"Adesso ti seguo…ma non ti capisco. Uomo bianco, vieni in Africa e ci tratti come primitivi, te la prendi perché non capiamo un accidente, perché siamo indietro, perché non collaboriamo e viviamo alla giornata…e poi vorresti tornare indietro tu e ascoltare il vento?"
"Nooo, per carità! – sorrise lo Svaporato – ogni tanto sogno…e i sogni mica li puoi scegliere…arrivano da soli"
Nonno Kazungu fece segno di attraversare la strada, in lontananza un uomo portava a mano la sua bicicletta, carica di carbone.
"Allora facciamo che anche la televisione sia uno di quei sogni che non possiamo decidere di sognare…che ci importa delle notizie, abbiamo il vento!"
"Ah, Kazungu, quanto ci manca la tua saggezza a Malindi…"
Raggiunsero il Safari Bar che era già l'ora di una birretta, per lo Svaporato, e di un "ginger ale" per il nonno.
"Ah, oggi hai portato il mzungu! - esclamò l'enorme barista Kibonge, alla vista dell'italiano – così ci spiega perché agli americani piace mettere la gente nei guai per poi aiutarla e potersi vantare di avere aggiustato le cose. E' come sei io ti regalassi un cucciolo di leopardo per fare da guardia al tuo villaggio, quello cresce e un giorno ti sbrana due nipoti e distrugge mezza capanna. Allora arrivo e lo ammazzo con un colpo di fucile, proprio mentre sta per azzannarti alla gola e ti dico – se non ci fossi stato io, a quest'ora saresti bell'e morto, mio caro -".
"E magari ti convinco a comprare anche il fucile…a prezzo di favore, s'intende" aggiunse Makotsi, l'elettricista.
"Questo bar è un covo di reazionari - precisò nonno Kazungu all'ospite occidentale, sorseggiando il suo ginger ale tiepido – sono convinti che si stava meglio quando si stava peggio…ma loro stessi erano i primi a lamentarsi del presidente-dittatore. Al referendum votarono per la democrazia, festeggiarono le prime libere elezioni. Non è ridicolo tutto ciò?"
"La democrazia non va bene per l'Africa" lanciò Kibonge
"Ti meriti Amin Dada…" replicò Lawrence Kamongo, il venditore di telefonini
"E tu Hillary Clinton…"
"Brutta donna bianca grinzosa…"
"Sarà bella quella cicciona di tua moglie…"
"Baaastaaaa!" urlò il prete, vedendo che la discussione rischiava di degenerare nella volgarità.
"Credo che sia nella natura dell'uomo – disse lo Svaporato – ogni tanto sente il bisogno di cambiare, di evolversi. Ritiene il cambiamento un fatto positivo di per sé, senza preoccuparsi se porterà benefici o meno".
Nonno Kazungu sospirò.
"Mi parli di istinto. Ma l'uomo è un animale e qui siamo alle porte della Savana. Dimmi, ha mai sbagliato la Savana? Il grande esempio di coerenza della Savana non ci ha insegnato niente?"
"Eccome se vi ha insegnato…infatti abbracciate le idee democratiche soltanto duecento anni dopo la Rivoluzione Francese!"
"Nessuno ci aveva avvertito…"
La platea del Safari Bar scoppiò in una risata.
Anche Kibebe lo scemo che di tutto il discorso aveva compreso solo "animale" e "Savana".
"Gli animali sono animali, Kazungu…pensa cosa accadrebbe se un giorno una gazzella convincesse le altre che esiste un posto in cui il leone per legge non può sbranarle…"
"Non ci crederebbero!" gridò Kamongo, il venditore di telefonini.
"Le direbbero – vacci tu e poi mandaci una cartolina -!" rise Makotsi.
"No, un animale non lascerebbe mai la sua Savana, a costo di rischiare ogni giorno la sua vita"
"Vedete? L'uomo invece lo fa!"
"Perché l'uomo è più stupido degli animali!" sentenziò Kibonge.
"O perché è più coraggioso?"
"Incosciente, vuoi dire!"
"Insoddisfatto…"
"Affamato…vorace più di un coccodrillo"
"Intelligente…si vuol sempre migliorare…"
"Scemo…anche a costo di peggiorare!"
In quel momento il prete, che se n'era stato in disparte, si alzò e chiese gentilmente di fare silenzio.
"SSSHHHH. LE NOTIZIE!"
La televisione annunciava che una settimana di trattative serrate tra i due leader politici, con la mediazione di Koffi Annan, non era stata sufficiente a metterli d'accordo. Così il prossimo lunedì sarebbe sbarcata a Nairobi anche Condoleeza Rice in persona.
Il VERO presidente degli Stati Uniti, secondo alcuni, tra cui il barista Kibonge.
"Eccola! Viene ad ammazzare il leopardo…" disse Makotsi
"E a venderci il fucile!" rimbalzò il piccolo Kitsao, sollevando lo sguardo dal quaderno dei compiti.
"Ti sembra il luogo giusto, questo per studiare?" lo redarguì nonno Kazungu in tono burbero.
"E a te sembra il luogo giusto, un lussuoso resort in Savana e per discutere della crisi di una Nazione che si lascia centinaia di morti alle spalle?" rispose il saputello.
"Mi sa che questo ti diventa comunista…" disse lo Svaporato, appoggiando una mano sulla spalla del vecchio.
"Noooo…è soltanto rompicoglioni, con l'età si aggiusta…ma ha tanta voglia di studiare!"
"E noi lo manterremo" confermò il mzungu.
"Anche se ci si rivolterà contro…" sorrise Makotsi.
Il telegiornale si chiudeva rimandando tutto, per l'ennesima volta, alla prossima settimana.
Ribadiva però che gli scontri erano cessati e che le strade erano sicure, anche quelle per l'Uganda e le sterrate del Masai Mara.
Kibonge battè un cucchiaio sulla formica del bancone.
"E adesso vorrei sentire un parere dell'uomo bianco sulla situazione keniota!"
Lo Svaporato osservò dalle grate della finestra di fianco al suo tavolino il cielo che si colorava di lilla. Il sole aveva smesso di ridere, mandava vampate di luce rossa come sbadigli, velandosi di malinconia, dolce e aspro come un arancia.
Si sgranchì la gola e ordinò un'altra Tusker.
"La situazione keniota non differisce dalla situazione nel resto del pianeta. Nel mondo occidentale si vive di più ma si vive peggio, ci si ammala di altre malattie, si paga molto di più per essere curati leggermente meglio, si muore giorno dopo giorno e non di colpo, si diventa più ricchi fuori e più poveri dentro, più colti dentro e più ignoranti fuori. Nel mondo occidentale non si ascolta più il vento, ma la televisione…."
Sarebbe andato avanti per ore, e per tante altre Tusker. Ma era ora di tornare a Malindi, prima che il buio si impadronisse della strada. Lo Svaporato tornò in sé, valutò la platea e lo sguardo di nonno Kazungu implorante pietà.
"…Ehm…comunque ritengo che gli interessi mondiali in questo Paese siano tali per cui i due leader politici saranno obbligati a rigare dritto e trovare al più presto un compromesso, che rimetta in carreggiata il Kenya e limiti i danni arrecati all'economia. Arriveranno aiuti ai profughi e tornerà il turismo. Io sono ottimista, avremo presto buone notizie!"
"Bravo! Anche noi siamo ottimisti! Evviva le buone notizie" esclamò Kamongo!
"Avremo buone notizie!" fecero eco gli altri avventori!
"Con l'aiuto di Dio…" aggiunse il prete.
Makotsi lo salutò con affetto, Kibonge con un po' di commiserazione, intascando i soldi delle bevute.
"Alle buone notizie!"
Nonno Kazungu lo abbracciò.
Nell'aria si diffondeva odore di capretto alla brace e patate cotte nel carbone.
I due si guardarono negli occhi come animali della stessa razza.
I loro sguardi sembravano dire la stessa cosa.
"In ogni caso, abbiamo sempre il vento!"
venerdì 24 ottobre 2008
PENNETTE ALLA FREDDIE
Che il gorgonzola e il salmone non stiano bene insieme
è una convenzione della borghesia culinaria.
Questa non è cucina creativa, è solo uno dei tanti modi per provare piacere.
La ricetta è per quattro persone.
Prendete un tegame e mettetelo sul fuoco, lento il fuoco, lento il fuoco
fatelo scaldare poi aggiungete una noce di burro,
trenta secondi e giù uno spicchio d’aglio sapientemente ripulito dell’anima.
Pizzico di sale, spolverata di pepe, grattugiatine di noce moscata,
poi il salmone fresco tagliato a cubetti o se preferite quello affumicato a frattaglie,
un paio d’etti e mezzo possono bastare.
Il tempo che da rosa il salmone diventi beige e via una spruzzata di vodka nel tegame.
Diciamo dieci centilitri, per chi non ha occhio.
Rimestare un attimo, far saltare il soffritto, rimestare un attimo far saltare il soffritto
La vodka è mezza evaporata e quel che resta ha fatto un guazzetto col salmone,
è ora di rimuovere lo spicchio d’aglio,
è ora di aggiungere il gorgonzola.
Ne bastano due etti, di quello cremoso.
Mescolate a fuoco lento fino a farlo sciogliere e alla fine
date un’annaffiata di panna fresca da cucina.
Fate cuocere le penne mi raccomando al dente le penne al dente
e poi fatele saltare un poco nel tegame.
Potete accompagnare il tutto con un bianco campano,
del Fiano di Avellino o una Falanghina leggermente aromatica
oppure con un Rossese di Dolceacqua o un buon Cabernet veneto.
Buon appetito.
(tratto dall'album di Freddie "Nel regno degli Animali")
è una convenzione della borghesia culinaria.
Questa non è cucina creativa, è solo uno dei tanti modi per provare piacere.
La ricetta è per quattro persone.
Prendete un tegame e mettetelo sul fuoco, lento il fuoco, lento il fuoco
fatelo scaldare poi aggiungete una noce di burro,
trenta secondi e giù uno spicchio d’aglio sapientemente ripulito dell’anima.
Pizzico di sale, spolverata di pepe, grattugiatine di noce moscata,
poi il salmone fresco tagliato a cubetti o se preferite quello affumicato a frattaglie,
un paio d’etti e mezzo possono bastare.
Il tempo che da rosa il salmone diventi beige e via una spruzzata di vodka nel tegame.
Diciamo dieci centilitri, per chi non ha occhio.
Rimestare un attimo, far saltare il soffritto, rimestare un attimo far saltare il soffritto
La vodka è mezza evaporata e quel che resta ha fatto un guazzetto col salmone,
è ora di rimuovere lo spicchio d’aglio,
è ora di aggiungere il gorgonzola.
Ne bastano due etti, di quello cremoso.
Mescolate a fuoco lento fino a farlo sciogliere e alla fine
date un’annaffiata di panna fresca da cucina.
Fate cuocere le penne mi raccomando al dente le penne al dente
e poi fatele saltare un poco nel tegame.
Potete accompagnare il tutto con un bianco campano,
del Fiano di Avellino o una Falanghina leggermente aromatica
oppure con un Rossese di Dolceacqua o un buon Cabernet veneto.
Buon appetito.
(tratto dall'album di Freddie "Nel regno degli Animali")
giovedì 23 ottobre 2008
IL PASTORE DI ENDEBESS
A me di Kibaki e Odinga non è mai fregato un bel niente.
A me importa delle mie vacche, specialmente.
Poi anche dei miei figli, ma quelli muoiono anche se gli stai dietro, anche se li segui a vista.
Si lamentano e muoiono, prima di averti dato frutti. Le loro madri come frutto ti hanno dato quelle bestiole e se loro non hanno dato frutti ti sembra di avere vissuto per niente.
Mica puoi tenerli alla corda, i figli.
E allora trovati una moglie più giovane, falla scopare da tuo padre o da tuo fratello maggiore e, se è buona e resistente, scopala per un po’. Se hai fortuna in cinque anni non ti fa più di tre bambini.
Le mogli non sono fondamentali. A Kitale per scopare ci sono le ugandesi, che però vogliono tanti soldi. Anche a Tororo ci sono le ugandesi e costano di meno, ma quel che risparmi in soldi lo spendi in tempo e fatica: tre ore in camion (venti scellini per il passaggio) e poi valicare il confine, attraverso le gole di Walanga. Poi altre due ore di roccia con i piedi sanguinanti avvolti in pelle di antilope, fino alla strada ad aspettare un altro camion. Questo costa solo 10 scellini, se hai la moneta ugandese. Un safari di un giorno per trovarti una donna più nera di me che odora di erbe di città e si muove con lentezza, non come tua moglie che sembra sempre un animale braccato.
Cinque minuti ed è tutto finito. Quasi meglio scoparsi una capra.
L’ho fatto solo due volte. La prima ero ragazzino, la seconda avevo deciso di scappare e di fermarmi a lavorare a Tororo. La polizia ugandese mi ha rimandato indietro e per un anno non ho avuto il coraggio di guardare in faccia i miei vecchi.
Da allora ho pensato che le vacche sono meglio.
Con le vacche ci bevi il latte, ci cresci i tuoi figli che uno su quattro ti darà i frutti. Con le vacche ci puoi scopare, nel senso che più vacche hai e più mogli ti puoi comprare. Se la vacca si ammala te la puoi mangiare e vendere la carne. Ti puoi mangiare anche il vitello, se hai tanta fame da non aspettare che diventi un bue. Alle vacche basta l’erba e se hai la forza e la pazienza da salire fino al Grande Monte, trovi anche quella buona e ti fumi quella che cresce spontanea.
La più buona sta sulle colline di Kaptaleria. Se arrivi fino a là e ti piace il rischio, puoi andare a Eldoret una volta al mese e venderla. Puoi guadagnare anche 150 scellini. Sono i soldi per cinque chili di polenta. Non si può vivere solo con le vacche, ma senza di loro non avrei scoperto questo business.
A me di Kibaki e Odinga non frega niente. Adesso hanno fatto la pace, prima avevano scatenato la guerra. Ma qui a Endebess la guerra si è sempre fatta. Si muore e ci si uccide da quando c’è la parola per dire le cose. Ci si ammazza per le vacche, per la terra e per l’erba migliore.
Noi siamo tutti di una tribù, ma c’è qualcuno che si sente diverso, perché viene da Kimilili e dice che noi non siamo Kalenjin, ma mezzi Kamba. Dicono che tanti anni fa noi stavamo a Kapchorwa, dall’altra parte del Grande Monte. In Uganda. Ci hanno sempre ucciso se ci trovavamo dalle loro parti con le nostre vacche, hanno segnato la terra dei pascoli e distrutto le nostre capanne temporanee. Conoscono le nostre abitudini e ci aspettano. Qualcuno di loro non compra le vacche, aspetta le nostre. E se uno dei nostri ne incontra uno dei loro da solo, perché sta segnando un terreno o seguendo le orme di un percorso nuovo, dovrebbe ucciderlo.
Mio fratello lo ha fatto, io ho paura e non mi è mai capitato, ma so che dovrei farlo.
Quando siamo andati a votare abbiamo capito che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto. Erano due di loro a prendere le nostre schede, nella scuola elementare di Endebess. Erano venuti fino a qui da Kitale scortati da una Land Rover della polizia. Solo in queste occasioni si vede una Land Rover, in questo altissimo deserto di roccia e cespugli. Oppure quando arriva l’uomo bianco a regalarci stracci e a darci pastiglie che ci tolgono la febbre gialla.
Due giorni dopo le elezioni qualcuno è partito per Eldoret e non è più tornato. Alla luna nuova sono arrivati in venti e ci hanno rubato cinque vacche. Avevano un camion scassato, che non correva più di mio cugino Kapketirir, quello che è andato a Nairobi a quindici anni e ci manda ogni tanto cinquecento scellini perchè ha vinto una maratona. Così li abbiamo inseguiti cercando di salire sul camion e liberare le vacche, ma è spuntato un uomo grasso con la divisa da militare e ha sparato all’impazzata. Due di noi sono morti e uno oggi ha una gamba che non funziona.
Da quel giorno Endebess si è trasformata in un incubo. Leghiamo le nostre vacche e la notte dormiamo insieme a loro nella capanna, ci organizziamo in ronde per il villaggio e facciamo la guardia a turno. A volte appicchiamo fuochi per ostruire il passaggio e la vista a chi viene da fuori.
Ne abbiamo uccisi due, ma non sono sicuro che volessero le vacche, per me erano soltanto poveri senza tetto che cercavano da mangiare. Qualcuno ha anche festeggiato ubriacandosi di Chang’a.
Dopo un’altra luna, poi, sono arrivati i fuori strada dei bianchi.
C’erano altri neri con loro, perfino due indiani. Indiani così bianchi li avevo visti solo a Kitale, in un negozio di chiodi. I bianchi arrivano sempre dopo, a volte si dice che quando si fermano nel tuo villaggio, per un po’ non succederà niente, ma appena se ne vanno è meglio che te ne scappi anche tu. Così non abbiamo fatto, perché i bianchi e gli indiani che parlano swahili, ci hanno promesso che sarebbero tornati e hanno detto che Kibaki e Odinga hanno firmato la pace e che tutto il mondo li guardava dalla televisione.
Anche a Kitale è arrivata la televisione, e a Eldoret. Ha fatto vedere al mondo i loro morti, le loro case incendiate, i loro volti urlanti. Quelli dei Luo e dei Kikuyu. Per loro sono tutti Luo e Kikuyu, non sanno che ci sono anche i Kalenjin di un certo tipo e quelli di un altro, quelli con tante vacche e la terra migliore dove pascolare e quelli che la vorrebbero.
Così ci ammazziamo ancora adesso, che c’è la pace e che non c’è più la televisione.
E una questione di vacche, quelle avevamo prima, quelle cerchiamo di tenerci adesso e di aumentare.
Vacche, e la terra per pascolare.
NAIROBI - Li hanno assaliti e uccisi per rubar loro il bestiame: 20 persone sono morte cosi’ nella Rift Valley, nell’ovest del Kenya, durante e dopo un raid compiuto martedi’ scorso. Tra le vittime anche 5 banditi, uccisi dalla polizia. Un migliaio i capi di bestiame rubati dagli aggressori. (Agr)
Kitale - 19/03/2008 – Le comunità del Monte Elgon hanno chiesto ufficialmente al Governo di fermare la repressione delle forze di Polizia locali nei villaggi. Gli interventi dei militari si sarebbero resi necessari per sedare nuove faide tra clan per motivi territoriali e di bestiame e avrebbero causato altri morti e feriti. (Reuters)
A me importa delle mie vacche, specialmente.
Poi anche dei miei figli, ma quelli muoiono anche se gli stai dietro, anche se li segui a vista.
Si lamentano e muoiono, prima di averti dato frutti. Le loro madri come frutto ti hanno dato quelle bestiole e se loro non hanno dato frutti ti sembra di avere vissuto per niente.
Mica puoi tenerli alla corda, i figli.
E allora trovati una moglie più giovane, falla scopare da tuo padre o da tuo fratello maggiore e, se è buona e resistente, scopala per un po’. Se hai fortuna in cinque anni non ti fa più di tre bambini.
Le mogli non sono fondamentali. A Kitale per scopare ci sono le ugandesi, che però vogliono tanti soldi. Anche a Tororo ci sono le ugandesi e costano di meno, ma quel che risparmi in soldi lo spendi in tempo e fatica: tre ore in camion (venti scellini per il passaggio) e poi valicare il confine, attraverso le gole di Walanga. Poi altre due ore di roccia con i piedi sanguinanti avvolti in pelle di antilope, fino alla strada ad aspettare un altro camion. Questo costa solo 10 scellini, se hai la moneta ugandese. Un safari di un giorno per trovarti una donna più nera di me che odora di erbe di città e si muove con lentezza, non come tua moglie che sembra sempre un animale braccato.
Cinque minuti ed è tutto finito. Quasi meglio scoparsi una capra.
L’ho fatto solo due volte. La prima ero ragazzino, la seconda avevo deciso di scappare e di fermarmi a lavorare a Tororo. La polizia ugandese mi ha rimandato indietro e per un anno non ho avuto il coraggio di guardare in faccia i miei vecchi.
Da allora ho pensato che le vacche sono meglio.
Con le vacche ci bevi il latte, ci cresci i tuoi figli che uno su quattro ti darà i frutti. Con le vacche ci puoi scopare, nel senso che più vacche hai e più mogli ti puoi comprare. Se la vacca si ammala te la puoi mangiare e vendere la carne. Ti puoi mangiare anche il vitello, se hai tanta fame da non aspettare che diventi un bue. Alle vacche basta l’erba e se hai la forza e la pazienza da salire fino al Grande Monte, trovi anche quella buona e ti fumi quella che cresce spontanea.
La più buona sta sulle colline di Kaptaleria. Se arrivi fino a là e ti piace il rischio, puoi andare a Eldoret una volta al mese e venderla. Puoi guadagnare anche 150 scellini. Sono i soldi per cinque chili di polenta. Non si può vivere solo con le vacche, ma senza di loro non avrei scoperto questo business.
A me di Kibaki e Odinga non frega niente. Adesso hanno fatto la pace, prima avevano scatenato la guerra. Ma qui a Endebess la guerra si è sempre fatta. Si muore e ci si uccide da quando c’è la parola per dire le cose. Ci si ammazza per le vacche, per la terra e per l’erba migliore.
Noi siamo tutti di una tribù, ma c’è qualcuno che si sente diverso, perché viene da Kimilili e dice che noi non siamo Kalenjin, ma mezzi Kamba. Dicono che tanti anni fa noi stavamo a Kapchorwa, dall’altra parte del Grande Monte. In Uganda. Ci hanno sempre ucciso se ci trovavamo dalle loro parti con le nostre vacche, hanno segnato la terra dei pascoli e distrutto le nostre capanne temporanee. Conoscono le nostre abitudini e ci aspettano. Qualcuno di loro non compra le vacche, aspetta le nostre. E se uno dei nostri ne incontra uno dei loro da solo, perché sta segnando un terreno o seguendo le orme di un percorso nuovo, dovrebbe ucciderlo.
Mio fratello lo ha fatto, io ho paura e non mi è mai capitato, ma so che dovrei farlo.
Quando siamo andati a votare abbiamo capito che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto. Erano due di loro a prendere le nostre schede, nella scuola elementare di Endebess. Erano venuti fino a qui da Kitale scortati da una Land Rover della polizia. Solo in queste occasioni si vede una Land Rover, in questo altissimo deserto di roccia e cespugli. Oppure quando arriva l’uomo bianco a regalarci stracci e a darci pastiglie che ci tolgono la febbre gialla.
Due giorni dopo le elezioni qualcuno è partito per Eldoret e non è più tornato. Alla luna nuova sono arrivati in venti e ci hanno rubato cinque vacche. Avevano un camion scassato, che non correva più di mio cugino Kapketirir, quello che è andato a Nairobi a quindici anni e ci manda ogni tanto cinquecento scellini perchè ha vinto una maratona. Così li abbiamo inseguiti cercando di salire sul camion e liberare le vacche, ma è spuntato un uomo grasso con la divisa da militare e ha sparato all’impazzata. Due di noi sono morti e uno oggi ha una gamba che non funziona.
Da quel giorno Endebess si è trasformata in un incubo. Leghiamo le nostre vacche e la notte dormiamo insieme a loro nella capanna, ci organizziamo in ronde per il villaggio e facciamo la guardia a turno. A volte appicchiamo fuochi per ostruire il passaggio e la vista a chi viene da fuori.
Ne abbiamo uccisi due, ma non sono sicuro che volessero le vacche, per me erano soltanto poveri senza tetto che cercavano da mangiare. Qualcuno ha anche festeggiato ubriacandosi di Chang’a.
Dopo un’altra luna, poi, sono arrivati i fuori strada dei bianchi.
C’erano altri neri con loro, perfino due indiani. Indiani così bianchi li avevo visti solo a Kitale, in un negozio di chiodi. I bianchi arrivano sempre dopo, a volte si dice che quando si fermano nel tuo villaggio, per un po’ non succederà niente, ma appena se ne vanno è meglio che te ne scappi anche tu. Così non abbiamo fatto, perché i bianchi e gli indiani che parlano swahili, ci hanno promesso che sarebbero tornati e hanno detto che Kibaki e Odinga hanno firmato la pace e che tutto il mondo li guardava dalla televisione.
Anche a Kitale è arrivata la televisione, e a Eldoret. Ha fatto vedere al mondo i loro morti, le loro case incendiate, i loro volti urlanti. Quelli dei Luo e dei Kikuyu. Per loro sono tutti Luo e Kikuyu, non sanno che ci sono anche i Kalenjin di un certo tipo e quelli di un altro, quelli con tante vacche e la terra migliore dove pascolare e quelli che la vorrebbero.
Così ci ammazziamo ancora adesso, che c’è la pace e che non c’è più la televisione.
E una questione di vacche, quelle avevamo prima, quelle cerchiamo di tenerci adesso e di aumentare.
Vacche, e la terra per pascolare.
NAIROBI - Li hanno assaliti e uccisi per rubar loro il bestiame: 20 persone sono morte cosi’ nella Rift Valley, nell’ovest del Kenya, durante e dopo un raid compiuto martedi’ scorso. Tra le vittime anche 5 banditi, uccisi dalla polizia. Un migliaio i capi di bestiame rubati dagli aggressori. (Agr)
Kitale - 19/03/2008 – Le comunità del Monte Elgon hanno chiesto ufficialmente al Governo di fermare la repressione delle forze di Polizia locali nei villaggi. Gli interventi dei militari si sarebbero resi necessari per sedare nuove faide tra clan per motivi territoriali e di bestiame e avrebbero causato altri morti e feriti. (Reuters)
mercoledì 22 ottobre 2008
WILMA, KATANA E I QUESITI FONDAMENTALI
Lo svaporato.
Da solo.
Sulla riva del fiume.
Alle prime ore del mattino.
Non accende la radio e non ha gli occhi incollati da nessuna parte.
Vuole soltanto parlare con un ippopotamo.
Buongiorno, Wilma!
"'giorno"
Ecco!
"Questa parmigiana fa schifo. E' fatta con le melanzane grigliate"
Credo sia a causa della mancanza di olio di semi in casa.
"Piuttosto non cucinatele"
Pensavo che ti saresti arrabbiata, se fossi arrivato a mani vuote.
"Sono comunque arrabbiata. Sempre."
Wilma, ti sei mai posta le domande fondamentali?
"Quali sarebbero?"
Chi siamo...
"Ippopotami"
Da dove veniamo?
"Galana River"
Perchè siamo qui?
"Melanzane alla parmigiana...di merda"
Dove siamo diretti?
"Marikabuni Primary School"
C'è un'altra vita oltre a questa?
"Sì, ma fa ancora più schifo"
Grazie, Wilma, è piacevole conversare con chi ha le idee chiare.
Lo Svaporato resta solo.
Vorrebbe rivolgere le stesse domande a un Katana qualsiasi, qui sotto il ponte sul fiume Sabaki.
Lo sa, del mondo e anche del resto.
Lo sa che tutto va in rovina, ma di mattina...
Non che un Katana qualsiasi non si sia mai posto i quesiti fondamentali, anzi, probabilmente li ha risolti moooolto prima di noi.
Ecco un esempio di come il giriama modello ha affrontato la questione:
(d = domanda, r = risposta)
d. CHI SONO?
r. Un Katana qualsiasi
d. DA DOVE VENGO?
r. Da Mtangani, sulla strada per le prigioni di Malindi
d. DA DOVE VENIAMO TUTTI?
r. Io da Mtangani, alcuni miei parenti da Kaloleni, i cugini da Marafa. Gli altri, basta chiederglielo.
d. PERCHE’ SIAMO QUI?
r. Per i soldi, altrimenti ce ne stavamo al villaggio a farci i cavoli nostri (e anche le nostre mchiche) dalla mattina alla sera.
d. DA QUANTO TEMPO SIAMO QUI?
r. Parecchio, il matatu è in ritardo
d. DOVE SIAMO DIRETTI?
r. Dipende da chi guida e se ha fatto sufficiente benzina.
d. C’E’ UN ALTROVE?
r. Sì, ma il passaporto per andarci costa troppo e il viaggio non ne parliamo…
Da solo, lungo le rive del Sabaki.
Alle prime luci del mattino...
Da solo.
Sulla riva del fiume.
Alle prime ore del mattino.
Non accende la radio e non ha gli occhi incollati da nessuna parte.
Vuole soltanto parlare con un ippopotamo.
Buongiorno, Wilma!
"'giorno"
Ecco!
"Questa parmigiana fa schifo. E' fatta con le melanzane grigliate"
Credo sia a causa della mancanza di olio di semi in casa.
"Piuttosto non cucinatele"
Pensavo che ti saresti arrabbiata, se fossi arrivato a mani vuote.
"Sono comunque arrabbiata. Sempre."
Wilma, ti sei mai posta le domande fondamentali?
"Quali sarebbero?"
Chi siamo...
"Ippopotami"
Da dove veniamo?
"Galana River"
Perchè siamo qui?
"Melanzane alla parmigiana...di merda"
Dove siamo diretti?
"Marikabuni Primary School"
C'è un'altra vita oltre a questa?
"Sì, ma fa ancora più schifo"
Grazie, Wilma, è piacevole conversare con chi ha le idee chiare.
Lo Svaporato resta solo.
Vorrebbe rivolgere le stesse domande a un Katana qualsiasi, qui sotto il ponte sul fiume Sabaki.
Lo sa, del mondo e anche del resto.
Lo sa che tutto va in rovina, ma di mattina...
Non che un Katana qualsiasi non si sia mai posto i quesiti fondamentali, anzi, probabilmente li ha risolti moooolto prima di noi.
Ecco un esempio di come il giriama modello ha affrontato la questione:
(d = domanda, r = risposta)
d. CHI SONO?
r. Un Katana qualsiasi
d. DA DOVE VENGO?
r. Da Mtangani, sulla strada per le prigioni di Malindi
d. DA DOVE VENIAMO TUTTI?
r. Io da Mtangani, alcuni miei parenti da Kaloleni, i cugini da Marafa. Gli altri, basta chiederglielo.
d. PERCHE’ SIAMO QUI?
r. Per i soldi, altrimenti ce ne stavamo al villaggio a farci i cavoli nostri (e anche le nostre mchiche) dalla mattina alla sera.
d. DA QUANTO TEMPO SIAMO QUI?
r. Parecchio, il matatu è in ritardo
d. DOVE SIAMO DIRETTI?
r. Dipende da chi guida e se ha fatto sufficiente benzina.
d. C’E’ UN ALTROVE?
r. Sì, ma il passaporto per andarci costa troppo e il viaggio non ne parliamo…
Da solo, lungo le rive del Sabaki.
Alle prime luci del mattino...
martedì 21 ottobre 2008
PREFERISCO IL POLIZIESCO
A volte detesto l'uomo.
Spesso non credo che l’abbia creato lo stesso ingegnere che ha creato il creato.
Chi ha inventato il droghiere, pettegolo come un portiere di notte?
Chi ha inventato il corriere della droga che arriva in stazione alle sette?
Chi ha inventato il macellaio? La rude cordialità del casellante?
Da dove arriva l’usuraio? E il mafioso tarchiato con il suo mandante?
A volte non capisco l’uomo.
Spesso non credo che il cameriere sia così felice di versarmi da bere
Chi ha inventato il monsignore che prega ma in testa ha solo il sesso?
chi ha inventato il professore così piccolo nel raccontarti l’universo?
chi ha creato il parrucchiere che usa i bigodini al posto del cervello?
da dove arriva l’impiegato che uccide moglie figli e anche il cognato?
e i vigili, così vigili, che grandi figli di…vigili vigili
i vigili sempre vigili, proprio figli di… vigili vigili
qualcuno prima o poi li multerà?
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo il genere umano, meglio il poliziesco
Avevo dei valori, ma oggi non ci riesco
Non esiste più il genere umano, meritiamo il poliziesco
Ho sopravvalutato l’uomo.
Ho sperato in un mondo in cui nessuno sia il cacciatore e nessuno la preda
Ma chi ha inventato i politici (sia della prima repubblica che della seconda…)
Chi ha creato i dianetici (e i testimoni di Geova)
Chi ha inventato i fanatici (e non solo quelli islamici)
E ci giustifica i carnefici?
Giuro, ho amato l’uomo.
Ho sognato che il rispetto e la verità fanno parte del nostro Dna
Ma chi ha inventato i baristi che maggiorano i prezzi del 300%?
Chi ha inventato i giornalisti che non danno la notizia ma solo il commento?
I cassieri delle poste, che non salutano nemmeno se li paghi?
E i banditori delle aste che da un giorno all’altro diventano maghi?
e i vigili, così vigili, che grandi figli di… vigili, vigili
i vigili sempre vigili, proprio figli di… vigili vigili
qualcuno prima o poi li multerà?
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo è il genere umano, meglio il poliziesco
Avevo dei valori, ma oggi non ci riesco
Non credo più al genere umano, viva il poliziesco
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo il genere umano, preferisco il poliziesco
Non esiste più il genere umano, meritiamo il poliziesco
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
Spesso non credo che l’abbia creato lo stesso ingegnere che ha creato il creato.
Chi ha inventato il droghiere, pettegolo come un portiere di notte?
Chi ha inventato il corriere della droga che arriva in stazione alle sette?
Chi ha inventato il macellaio? La rude cordialità del casellante?
Da dove arriva l’usuraio? E il mafioso tarchiato con il suo mandante?
A volte non capisco l’uomo.
Spesso non credo che il cameriere sia così felice di versarmi da bere
Chi ha inventato il monsignore che prega ma in testa ha solo il sesso?
chi ha inventato il professore così piccolo nel raccontarti l’universo?
chi ha creato il parrucchiere che usa i bigodini al posto del cervello?
da dove arriva l’impiegato che uccide moglie figli e anche il cognato?
e i vigili, così vigili, che grandi figli di…vigili vigili
i vigili sempre vigili, proprio figli di… vigili vigili
qualcuno prima o poi li multerà?
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo il genere umano, meglio il poliziesco
Avevo dei valori, ma oggi non ci riesco
Non esiste più il genere umano, meritiamo il poliziesco
Ho sopravvalutato l’uomo.
Ho sperato in un mondo in cui nessuno sia il cacciatore e nessuno la preda
Ma chi ha inventato i politici (sia della prima repubblica che della seconda…)
Chi ha creato i dianetici (e i testimoni di Geova)
Chi ha inventato i fanatici (e non solo quelli islamici)
E ci giustifica i carnefici?
Giuro, ho amato l’uomo.
Ho sognato che il rispetto e la verità fanno parte del nostro Dna
Ma chi ha inventato i baristi che maggiorano i prezzi del 300%?
Chi ha inventato i giornalisti che non danno la notizia ma solo il commento?
I cassieri delle poste, che non salutano nemmeno se li paghi?
E i banditori delle aste che da un giorno all’altro diventano maghi?
e i vigili, così vigili, che grandi figli di… vigili, vigili
i vigili sempre vigili, proprio figli di… vigili vigili
qualcuno prima o poi li multerà?
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo è il genere umano, meglio il poliziesco
Avevo dei valori, ma oggi non ci riesco
Non credo più al genere umano, viva il poliziesco
Se questo è il genere umano, preferisco il poliziesco
Se questo il genere umano, preferisco il poliziesco
Non esiste più il genere umano, meritiamo il poliziesco
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
lunedì 20 ottobre 2008
LE RICETTE DEL BABBUINO ORAZIO: GAMBERONI AL MANGO
Una tovaglia quadrettata sulla riva del fiume Sabaki. Una rete da pesca dalle trame fitte. Una teglia pronta per l'ippopotamo Wilma: melanzane alla parmigiana. Ma il babbuino Orazio, cuoco sopraffino o, come ama definirsi lui stesso pensando in grande: "Chef d'Orang", ha altri pensieri per la testa. Osserva il dirupo che sbriciola argilla fin sotto il ponte e confonde il rosso vivo dei sentieri con il verde acceso degli argini. Orazio sta pescando gamberi di foce. Non sono i Jumbo di Lamu, ma ci si può accontentare. Per la sua nuova ricetta ha raccolto manghi maturi dagli alberi dell'immediato entroterra e si è procurato gli altri ingredienti, come sempre, fregandoli nelle cucine di un Resort di Mambrui. D'altronde ci lavora il suo amico cuoco da cui ha carpito i segreti della cucina italiana, per poi farli incontrare con i cibi esotici.
Et voilà, ecco i gamberoni al mango di Orazio!
GAMBERONI AL MANGO
Ingredienti per 4 wazungu
1 kilo di Gamberoni di Lamu (Jumbo prawns). Se sono stati pesati da chi li vende con la sua bilancia fasulla ne servono un kilo e mezzo. Se volete procurarveli voi, avete mezzora di tempo alla foce del Sabaki prima che arrivi Wilma. (45 minuti se viene distratta dalle melanzane alla parmigiana)
2 Manghi fregati da un albero (sono i più gustosi)
Due bustine di anacardi, acquistate in strada da un bambino insistente che però quando lo cercate non c'è mai, quindi fatene scorta quando vi viene a tampinare lui.
Uno spicchio d’aglio prestato dal vicino.
Un bicchiere di vino bianco italiano che non sappia di tappo (rarissimo, in Kenya sanno di tappo anche quelli in cartone) o di vino bianco sudafricano che ha il tappo di plastica ma non sa di vino.
Mezzo tot di Brandy locale. Safari o Furaha le marche più gettonate.
Olio d’oliva per chi ha i soldi, altrimenti il mitico Elianto di semi.
Sale e pepe quanto basta (all’houseboy per rovinarvi la cena)
Arrossate i gamberoni in una padella con un filo d’olio e due dita di vino bianco, a parte fate saltare il mango tagliato a dadini sottili con aglio, olio, sale e pepe e due dita dell'houseboy.
Unite i gamberi alla salsa dopo averli sgusciati lasciando la testa, aggiungendo mezzo tot di brandy e un goccio di tabasco. A parte sbriciolate gli anacardi, se non li ha già mangiati il giardiniere credendo fossero per lui. Preparate una terrina leggermente imburrata, rivestite il corpo nudo del gambero con gli anacardi e metteteli in forno alla temperatura media estiva di Marafa. Dopo una decina di minuti kenioti (dai quindici ai venti minuti italiani) estraeteli e guarniteli nel piatto con il resto della salsa.
Ringraziate il vostro cuoco africano e serviteli in tavola con l’aria orgogliosa di “questo l’ho fatto io!”.
Orazio
Et voilà, ecco i gamberoni al mango di Orazio!
GAMBERONI AL MANGO
Ingredienti per 4 wazungu
1 kilo di Gamberoni di Lamu (Jumbo prawns). Se sono stati pesati da chi li vende con la sua bilancia fasulla ne servono un kilo e mezzo. Se volete procurarveli voi, avete mezzora di tempo alla foce del Sabaki prima che arrivi Wilma. (45 minuti se viene distratta dalle melanzane alla parmigiana)
2 Manghi fregati da un albero (sono i più gustosi)
Due bustine di anacardi, acquistate in strada da un bambino insistente che però quando lo cercate non c'è mai, quindi fatene scorta quando vi viene a tampinare lui.
Uno spicchio d’aglio prestato dal vicino.
Un bicchiere di vino bianco italiano che non sappia di tappo (rarissimo, in Kenya sanno di tappo anche quelli in cartone) o di vino bianco sudafricano che ha il tappo di plastica ma non sa di vino.
Mezzo tot di Brandy locale. Safari o Furaha le marche più gettonate.
Olio d’oliva per chi ha i soldi, altrimenti il mitico Elianto di semi.
Sale e pepe quanto basta (all’houseboy per rovinarvi la cena)
Arrossate i gamberoni in una padella con un filo d’olio e due dita di vino bianco, a parte fate saltare il mango tagliato a dadini sottili con aglio, olio, sale e pepe e due dita dell'houseboy.
Unite i gamberi alla salsa dopo averli sgusciati lasciando la testa, aggiungendo mezzo tot di brandy e un goccio di tabasco. A parte sbriciolate gli anacardi, se non li ha già mangiati il giardiniere credendo fossero per lui. Preparate una terrina leggermente imburrata, rivestite il corpo nudo del gambero con gli anacardi e metteteli in forno alla temperatura media estiva di Marafa. Dopo una decina di minuti kenioti (dai quindici ai venti minuti italiani) estraeteli e guarniteli nel piatto con il resto della salsa.
Ringraziate il vostro cuoco africano e serviteli in tavola con l’aria orgogliosa di “questo l’ho fatto io!”.
Orazio
domenica 19 ottobre 2008
IL METALMECCANICO IN PENSIONE
Cosa direste a un metalmeccanico in pensione
Bravo! Ti senti realizzato oppure sei un coglione
Ma lui ha due figli di nome Emanuela e Mattia
Che a sedici anni è andato via
Colpito a morte dalla polizia
Dopo una sparatoria nei pressi di Verona
Per tutti quanti era una cavia umana
Gli hanno sparato alla testa
Lui protestava per l’aumento degli insaccati senza polifosfati
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Il giornale ha scritto che
Non era come han detto alla televisione dopo la pubblicità
Se metti un wurstel a tavola la luce si accenderà
Le antenne spesso oscurano le scene della vita quotidiana
E questo il nonno lo sapeva, lui al destino ci credeva
Da quando Emanuela aveva partorito
Due gemelle, però siamesi
Una si è salvata ma ha un emiparesi
E il vescovo in persona è venuto a battezzarla e ha voluto anche baciarla
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Hanno deciso di chiamarla Maria
Come la madonna ma anche come una zia
Che non sapeva parlare l’italiano correttamente
E aveva fatto il corso Radioelettra per corrispondenza
La grammatica le riusciva come un cavo che fa massa
Ed era anche molto grassa
E questo il nonno lo sapeva, sì questo il nonno lo sapeva
Era solo un metalmeccanico ma aveva cinquant’anni di attività alle sue spalle
Ogni giorno la moglie gli spazzolava il vestito e lucidava le scarpe
Col suo naso scintillante da bevitore di acquasanta
Controllava perfettamente le mosse del compagno di scala quaranta
In piazza e al circolo anziani ci andava raramente
E forse per questo che qualche amico lo trovava indisponente
Riciclava gli spazzolini per pulire i suoi modellini
Che vita abbia fatto chi lo sa, Socrate non l’ha predetto
Nemmeno Sant’Agostino o Pasolini, forse Costanzo o la Carrà
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Singolo presentato alle selezioni del Premio Recanati 2004
Bravo! Ti senti realizzato oppure sei un coglione
Ma lui ha due figli di nome Emanuela e Mattia
Che a sedici anni è andato via
Colpito a morte dalla polizia
Dopo una sparatoria nei pressi di Verona
Per tutti quanti era una cavia umana
Gli hanno sparato alla testa
Lui protestava per l’aumento degli insaccati senza polifosfati
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Il giornale ha scritto che
Non era come han detto alla televisione dopo la pubblicità
Se metti un wurstel a tavola la luce si accenderà
Le antenne spesso oscurano le scene della vita quotidiana
E questo il nonno lo sapeva, lui al destino ci credeva
Da quando Emanuela aveva partorito
Due gemelle, però siamesi
Una si è salvata ma ha un emiparesi
E il vescovo in persona è venuto a battezzarla e ha voluto anche baciarla
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Hanno deciso di chiamarla Maria
Come la madonna ma anche come una zia
Che non sapeva parlare l’italiano correttamente
E aveva fatto il corso Radioelettra per corrispondenza
La grammatica le riusciva come un cavo che fa massa
Ed era anche molto grassa
E questo il nonno lo sapeva, sì questo il nonno lo sapeva
Era solo un metalmeccanico ma aveva cinquant’anni di attività alle sue spalle
Ogni giorno la moglie gli spazzolava il vestito e lucidava le scarpe
Col suo naso scintillante da bevitore di acquasanta
Controllava perfettamente le mosse del compagno di scala quaranta
In piazza e al circolo anziani ci andava raramente
E forse per questo che qualche amico lo trovava indisponente
Riciclava gli spazzolini per pulire i suoi modellini
Che vita abbia fatto chi lo sa, Socrate non l’ha predetto
Nemmeno Sant’Agostino o Pasolini, forse Costanzo o la Carrà
Che vita abbia fatto chi lo sa
Forse Costanzo o la Carrà
Singolo presentato alle selezioni del Premio Recanati 2004
sabato 18 ottobre 2008
NONNO KAZUNGU E IL TURISMO SESSUALE
Quel pomeriggio al Safari Bar tirava aria di dibattito.
Nel preciso instante in cui nonno Kazungu faceva il suo ingresso, valutando il cigolio del cancelletto di ferro e aspettando la consueta risposta dell’upupa in amore sul baobab, il sole colorava la facciata dipinta di fresco color carta da zucchero.
All’interno del locale, in ordine sparso, la Kakoneni che conta: il prete, il rappresentante di telefonini Lawrence Kamongo, l’elettricista Makotsi, il barista Kibonge, il beach-boy imprenditore Kadenge Davide e il suo amico mzungu Svaporato, il vicino di casa Mwachiro e Kibebe, lo scemo.
Sui tavolini di formica ballavano bicchieri spessi dal fondo irregolari e troneggiavano parecchie Tusker Lager. In pratica tutti, tranne Kibebe, stavano bevendo birra, il prete addirittura una guinness, rigorosamente temperatura ambiente.
"Qui si parla di donne" pensò nonno Kazungu.
Uno dei quotidiani locali riportava i risultati di un’indagine dell’Unicef, presentata alcuni mesi prima a Nairobi ma ripresa dalla stampa mondiale ora che il Kenya faceva notizia.
In tempi di pace, di altre guerre bisogna parlare.
"Gli italiani sono al secondo posto" sentenziava Kadenge Davide, quasi a vantarsi della posizione sul gradino di mezzo del podio e battendo con la mano sulla spalla dello Svaporato.
Ormai a Kakoneni rappresentava gli italiani e non solo se ne era fatto una ragione, ma ci sguazzava come un coccodrillo nel Galana.
"Sì, ma noi siamo sempre i primi!" ribattè Kibonge.
Maratona?
Cinquemila metri piani?
Tremila siepi?
Quale altro sport avrebbe visto il Kenya al primo posto e l’Italia al secondo?
"Ciao nonno! Sapevi che il Kenya è una delle principali mete del turismo sessuale nel mondo?"
"Anche della residenza sessuale, a giudicare dalle statistiche" aggiunse lo Svaporato.
"Residenza sessuale?"
"Già, il 38% dei clienti delle ragazze locali siamo noi, i kenioti" disse Makotsi.
"Seguono gli italiani con il 18% e i tedeschi con il 12%..."
"E gli americani che hanno il 2% ma rappresentano il 70% degli incassi totali…" sputò Kadenge
"Ma questo non c’è scritto…?" disse il prete
"Te lo dico io…li ho visti in azione…"
"Basta…per favore! – gridò nonno Kazungu – Datemi un Ginger Ale e fatemi capire".
Cosa vuol dire turismo sessuale? Da quel che si leggeva nel giornale, c’è gente che viene in Kenya soltanto o soprattutto per andare con le ragazze locali, alcuni di loro (ma non ci sono numeri né percentuali) purtroppo cercano le minorenni.
"Secondo me invece è il nostro 38% che si riferisce alle minorenni - disse Kibonge – quanti di voi hanno sposato una ragazza maggiorenne?"
Mwachiro, Makotsi e Kazungu si guardarono allungando il labbro inferiore. Anche il prete annuì silenziosamente, pensando alle decine di matrimoni celebrati a Kakoneni.
"La mia seconda moglie aveva 14 anni"
"Conjestina ne aveva 15 – ricordò il nonno – ma io ne avevo 19…"
La terza moglie di Kokoto ne aveva 13, e lui più di quaranta…"
"Tutto legale?" chiese lo Svaporato.
"Se non le togli dalla scuola dell’obbligo e paghi la famiglia, è tutto a posto" ammise il prete.
"Secondo lei è giusto, padre?" chiese il mzungu.
Il prete prese un bel respiro.
"La nostra società si basa sulla famiglia – cominciò, con tono ieratico, quasi avesse ricevuto un transfer da Cardinal Tarcisio Bertone – che è la struttura portante di ogni villaggio. Prima si costituisce una famiglia e prima se ne hanno i frutti. Qui si è soliti dire che la donna è tale dal giorno in cui ha le mestruazioni…tuttavia i tempi sono cambiati".
"Certo! Oggi le ragazzine sono molto più sveglie…" saltò su Kibebe.
"Zitto, imbecille…" fece Mwachiro, colpendolo con il piede destro sullo stinco, come un panga in un banano.
"Questo è il punto – fece Kadenge – gli europei invece non sono abituati, a quell’età le loro figlie sono ancora bambine, non le darebbero mai in spose per venti capre…"
"Almeno cinquanta…" rise Kibebe e si prese una di quelle pangate che avrebbe saltellato su un piede solo per un paio di giorni.
Il vecchio Kazungu prese in mano la situazione e mollò il ginger ale.
"Non stiamo parlando di abitudini – disse – ma di costrizioni. Gli wazungu che vengono qui trovano due tipi di ragazze: quelle che non vedono l’ora di stare con loro per migliorare le loro condizioni di vita e quelle che invece non vorrebbero, ma vengono costrette dalla povertà, dall’insistenza del mzungu e a volte anche dai propri parenti".
"Sì, ma dov’è lo sfruttamento di cui si parla del giornale? Alla fine è sempre una scelta delle ragazze, non c’è costrizione" interruppe Makotsi.
"Infatti non si parla di violenza sessuale – disse a questo punto lo Svaporato – è il potere dei soldi a farle decidere"
"Ma è così anche in Italia!" ribattè Kadenge Davide, che si ricordò l’offerta di un’amica della suocera della prima moglie vicentina.
"Lo scambio corpo-soldi o sesso-benessere esiste da sempre in tutto il mondo - disse nonno Kazungu – la pedofilia anche, ma è un sopruso e dobbiamo combatterla. Cosa succede se becchiamo un membro del nostro villaggio con una delle nostre figlie non ancora sviluppate?"
"Lo ammazziamo a pangate!" strepitò il grosso Mwachiro, lanciando un’occhiata a Kibebe che ancora girava su sé stesso come una trottola.
"La violenza è sempre da punire" disse il prete "ma ammazzare non è cristiano…"
"Seppellire vivo?" chiese Mwachiro.
"Una bella scossa nei coglioni a 200 volt?" Makotsi.
"E lo sfruttamento?"
"Quello c’è in Italia, dove la prostituzione è in mano alla mafia, al racket della droga e alla malavita - spiegò lo Svaporato – qui finchè resta in mano alle ragazze è semplicemente uno scambio di piaceri. Come fai a considerare prostituzione la ragazza maggiorenne che cammina mano nella mano con il mzungu in spiaggia? Bisogna vigilare piuttosto sui locali notturni che offrono da bere alle ballerine per ubriacarle e renderle consenzienti e consigliare loro i clienti…quella è una brutta abitudine che abbiamo importato noi europei e che porta verso lo sfruttamento".
"Quindi il nostro 38% è diverso dal 18% degli italiani?" chiese Kibonge, guardando Kadenge come a farlo scendere dal podio virtuale.
"Se considerano prostituzione anche pagare una moglie dieci vacche, sì – disse nonno Kazungu – ma quando pubblicheranno i dati dei matrimoni misti in Kenya? Delle coppie che convivono e che continuano a considerare la loro unione uno scambio di carezze e soldi? Ci sono statistiche del genere? Chi le pubblica?".
Quest’ultima domanda era diretta allo Svaporato, che diede l’ultimo sorso alla Tusker e sentì gli occhi di tutto il Safari Bar addosso.
Il sole aveva lasciato una pennellata di tramonto sull’intonaco esterno e si occupava di regalare scie lilla e rosa al cielo della savana.
"Non si possono chiudere in una statistica le ragioni del cuore e quelle del piacere sessuale – disse lo Svaporato, impegnandosi alquanto – l’uomo è un animale da conquista a cui piace tenere la preda in cattività, piuttosto che sbranarla. Tuttavia c’è chi lo fa con amore e rispetto e ci sono anche donne che non conoscono altro modo di vivere di una dorata prigionia".
Nessuno capì nulla, ad eccezione del vecchio Kazungu che, alzandosi, salutò la compagnia.
"Stiamo più vicini alle nostre bambine – fu il suo monito serale – e diamo una controllata ai bianchi che trattano male le nostre donne. Gli europei hanno brutte abitudini, ma per fortuna quasi tutti lasciano a casa il loro lato peggiore, quando vengono qui. Speriamo sia sempre così".
Nel preciso instante in cui nonno Kazungu faceva il suo ingresso, valutando il cigolio del cancelletto di ferro e aspettando la consueta risposta dell’upupa in amore sul baobab, il sole colorava la facciata dipinta di fresco color carta da zucchero.
All’interno del locale, in ordine sparso, la Kakoneni che conta: il prete, il rappresentante di telefonini Lawrence Kamongo, l’elettricista Makotsi, il barista Kibonge, il beach-boy imprenditore Kadenge Davide e il suo amico mzungu Svaporato, il vicino di casa Mwachiro e Kibebe, lo scemo.
Sui tavolini di formica ballavano bicchieri spessi dal fondo irregolari e troneggiavano parecchie Tusker Lager. In pratica tutti, tranne Kibebe, stavano bevendo birra, il prete addirittura una guinness, rigorosamente temperatura ambiente.
"Qui si parla di donne" pensò nonno Kazungu.
Uno dei quotidiani locali riportava i risultati di un’indagine dell’Unicef, presentata alcuni mesi prima a Nairobi ma ripresa dalla stampa mondiale ora che il Kenya faceva notizia.
In tempi di pace, di altre guerre bisogna parlare.
"Gli italiani sono al secondo posto" sentenziava Kadenge Davide, quasi a vantarsi della posizione sul gradino di mezzo del podio e battendo con la mano sulla spalla dello Svaporato.
Ormai a Kakoneni rappresentava gli italiani e non solo se ne era fatto una ragione, ma ci sguazzava come un coccodrillo nel Galana.
"Sì, ma noi siamo sempre i primi!" ribattè Kibonge.
Maratona?
Cinquemila metri piani?
Tremila siepi?
Quale altro sport avrebbe visto il Kenya al primo posto e l’Italia al secondo?
"Ciao nonno! Sapevi che il Kenya è una delle principali mete del turismo sessuale nel mondo?"
"Anche della residenza sessuale, a giudicare dalle statistiche" aggiunse lo Svaporato.
"Residenza sessuale?"
"Già, il 38% dei clienti delle ragazze locali siamo noi, i kenioti" disse Makotsi.
"Seguono gli italiani con il 18% e i tedeschi con il 12%..."
"E gli americani che hanno il 2% ma rappresentano il 70% degli incassi totali…" sputò Kadenge
"Ma questo non c’è scritto…?" disse il prete
"Te lo dico io…li ho visti in azione…"
"Basta…per favore! – gridò nonno Kazungu – Datemi un Ginger Ale e fatemi capire".
Cosa vuol dire turismo sessuale? Da quel che si leggeva nel giornale, c’è gente che viene in Kenya soltanto o soprattutto per andare con le ragazze locali, alcuni di loro (ma non ci sono numeri né percentuali) purtroppo cercano le minorenni.
"Secondo me invece è il nostro 38% che si riferisce alle minorenni - disse Kibonge – quanti di voi hanno sposato una ragazza maggiorenne?"
Mwachiro, Makotsi e Kazungu si guardarono allungando il labbro inferiore. Anche il prete annuì silenziosamente, pensando alle decine di matrimoni celebrati a Kakoneni.
"La mia seconda moglie aveva 14 anni"
"Conjestina ne aveva 15 – ricordò il nonno – ma io ne avevo 19…"
La terza moglie di Kokoto ne aveva 13, e lui più di quaranta…"
"Tutto legale?" chiese lo Svaporato.
"Se non le togli dalla scuola dell’obbligo e paghi la famiglia, è tutto a posto" ammise il prete.
"Secondo lei è giusto, padre?" chiese il mzungu.
Il prete prese un bel respiro.
"La nostra società si basa sulla famiglia – cominciò, con tono ieratico, quasi avesse ricevuto un transfer da Cardinal Tarcisio Bertone – che è la struttura portante di ogni villaggio. Prima si costituisce una famiglia e prima se ne hanno i frutti. Qui si è soliti dire che la donna è tale dal giorno in cui ha le mestruazioni…tuttavia i tempi sono cambiati".
"Certo! Oggi le ragazzine sono molto più sveglie…" saltò su Kibebe.
"Zitto, imbecille…" fece Mwachiro, colpendolo con il piede destro sullo stinco, come un panga in un banano.
"Questo è il punto – fece Kadenge – gli europei invece non sono abituati, a quell’età le loro figlie sono ancora bambine, non le darebbero mai in spose per venti capre…"
"Almeno cinquanta…" rise Kibebe e si prese una di quelle pangate che avrebbe saltellato su un piede solo per un paio di giorni.
Il vecchio Kazungu prese in mano la situazione e mollò il ginger ale.
"Non stiamo parlando di abitudini – disse – ma di costrizioni. Gli wazungu che vengono qui trovano due tipi di ragazze: quelle che non vedono l’ora di stare con loro per migliorare le loro condizioni di vita e quelle che invece non vorrebbero, ma vengono costrette dalla povertà, dall’insistenza del mzungu e a volte anche dai propri parenti".
"Sì, ma dov’è lo sfruttamento di cui si parla del giornale? Alla fine è sempre una scelta delle ragazze, non c’è costrizione" interruppe Makotsi.
"Infatti non si parla di violenza sessuale – disse a questo punto lo Svaporato – è il potere dei soldi a farle decidere"
"Ma è così anche in Italia!" ribattè Kadenge Davide, che si ricordò l’offerta di un’amica della suocera della prima moglie vicentina.
"Lo scambio corpo-soldi o sesso-benessere esiste da sempre in tutto il mondo - disse nonno Kazungu – la pedofilia anche, ma è un sopruso e dobbiamo combatterla. Cosa succede se becchiamo un membro del nostro villaggio con una delle nostre figlie non ancora sviluppate?"
"Lo ammazziamo a pangate!" strepitò il grosso Mwachiro, lanciando un’occhiata a Kibebe che ancora girava su sé stesso come una trottola.
"La violenza è sempre da punire" disse il prete "ma ammazzare non è cristiano…"
"Seppellire vivo?" chiese Mwachiro.
"Una bella scossa nei coglioni a 200 volt?" Makotsi.
"E lo sfruttamento?"
"Quello c’è in Italia, dove la prostituzione è in mano alla mafia, al racket della droga e alla malavita - spiegò lo Svaporato – qui finchè resta in mano alle ragazze è semplicemente uno scambio di piaceri. Come fai a considerare prostituzione la ragazza maggiorenne che cammina mano nella mano con il mzungu in spiaggia? Bisogna vigilare piuttosto sui locali notturni che offrono da bere alle ballerine per ubriacarle e renderle consenzienti e consigliare loro i clienti…quella è una brutta abitudine che abbiamo importato noi europei e che porta verso lo sfruttamento".
"Quindi il nostro 38% è diverso dal 18% degli italiani?" chiese Kibonge, guardando Kadenge come a farlo scendere dal podio virtuale.
"Se considerano prostituzione anche pagare una moglie dieci vacche, sì – disse nonno Kazungu – ma quando pubblicheranno i dati dei matrimoni misti in Kenya? Delle coppie che convivono e che continuano a considerare la loro unione uno scambio di carezze e soldi? Ci sono statistiche del genere? Chi le pubblica?".
Quest’ultima domanda era diretta allo Svaporato, che diede l’ultimo sorso alla Tusker e sentì gli occhi di tutto il Safari Bar addosso.
Il sole aveva lasciato una pennellata di tramonto sull’intonaco esterno e si occupava di regalare scie lilla e rosa al cielo della savana.
"Non si possono chiudere in una statistica le ragioni del cuore e quelle del piacere sessuale – disse lo Svaporato, impegnandosi alquanto – l’uomo è un animale da conquista a cui piace tenere la preda in cattività, piuttosto che sbranarla. Tuttavia c’è chi lo fa con amore e rispetto e ci sono anche donne che non conoscono altro modo di vivere di una dorata prigionia".
Nessuno capì nulla, ad eccezione del vecchio Kazungu che, alzandosi, salutò la compagnia.
"Stiamo più vicini alle nostre bambine – fu il suo monito serale – e diamo una controllata ai bianchi che trattano male le nostre donne. Gli europei hanno brutte abitudini, ma per fortuna quasi tutti lasciano a casa il loro lato peggiore, quando vengono qui. Speriamo sia sempre così".
venerdì 17 ottobre 2008
CRONACHE DA UN TOUR: ARONA 1978
L'insegna, manco a dirlo, è rossa.
Quante saranno le Case del Popolo, disseminate e ancora non disinnescate, sul territorio italiano?
In Lombardia di certo meno delle sale bingo, meno delle Spa.
L'edificio sembra conoscere la parola "resistenza" e si comporta di conseguenza. Le stagioni non pesano, ristagnano. Sarà il lago che tutto ammanta, anche gli anni galoppanti di inflazioni e liberismi eccessivi, che tutto riveste di una patina melmosa e che, miracolosamente, lascia intatti alcuni simboli di un età che non torna.
Di un'età povera, ingenua, anche un po' ignorante come può essere chi vede solo il rosso o il nero a guisa della pallina di una roulette o di un romanzo di Stendhal impolverato in una libreria in finto palissandro; di chi vede gli esseri umani come realmente sono, pecore e capre brucanti e brulicanti in cerca di una guida saggia e, perchè no, dispotica e costretti ogni tanto a inventarsene una per non disperdersi.
L'edificio, giallo scrostato, avverte nel tazebao protetto da una teca in astinenza da vetril, che questa sera nei locali del circolo andrà in scena lo spettacolo "Malindi, Italia" di Freddie del Curatolo, con la partecipazione di Franco Cufone. Dal disegno della locandina spiccano pizze sbocciate da un baobab e ancora non è dato sapere in che anno siamo. Anche gli avventori delle sei di sera, bianchino spruzzato campari alla mano e sguardi da allunato dimenticato dalla Nasa e svestito dello scafandro dall'alcool, non lo rivelano. C'è lo scemo del paese e il piccolo boss, così grosso da coprire le scritte di una lavagna e un'altra insegna all'ingresso.
Dentro è la Storia. La nostra recente commedia di provincia. Bancone e sedie in fòrmica, vetrinetta a specchio che mette in mostra la Vecchia Romagna e la grappa Nardini ma piange di polvere la perdita del Punt e Mes, dell'Amaro 18 Isolabella, del Cordial.
Dalla radio gracchiante arriva "Heartbreaker" di Dionne Warwick, l'accoglienza è delicata come si addice a chi non è capitato qui per caso. La siciliana tuttofare ci mostra lo stanzone, l'ala convegni, la dance hall, l'aula magna, la sala ristorante, l'area concerti. Quaranta metri quadri di tavoli da briscola e un palco giallo con un tappeto persiano a coprirne le disgrazie.
Impianto e mixer d'avanguardia, se veramente siamo nel 1978, all'alba della distruzione degli ideali e dell'invenzione del digitale.
La siciliana apparecchia i tavoli. Come dev'essere, non c'è un bicchiere uguale all'altro ed anche le forchette si guardano tra loro come camerieri di etnie diverse al primo giorno di lavoro in una pensioncina di Viserbella. Prove microfono, chitarra secca e bianco fermo spruzzato campari.
Sarà il rosso dell'aperitivo, sarà la data sotto la testata della bibbia rosa, ma la Casa del Popolo inizia a roteare e la forza di gravità appiccica alle pareti vent'anni di storia: fotografie di eroi che diventano terroristi ingialliscono, bandiere di partiti che non esistono più stingono, articoli di giornali che raccontavano la vita diventano leggenda.
Si fatica a crederci, siamo nel 2008.
Accanto all'insegna rossa appare un'altro cartello: "Taverna Etnica del Faraone", dietro alla lavagna c'è un poster che pubblicizza sette diversi tipi di kebab. Il Faraone è in cucina, suo nipote rimesta lo spezzatino al curry. Gli ho portato il cocco, per trasformarlo in un piatto africano.
"Siamo due africani finti" gli dico.
"No, io sono egiziano".
Torno nella sala concerti.
Venti coperti prenotati, michette e caraffe di vino, buffet.
Pubblico delle piccole occasioni, quelle che ricordi per lungo tempo e d'improvviso, roteando, un giorno ti si attaccheranno alle pareti.
Uno spettacolo straordinario, dirigenti d'azienda, operai, copyrighters, liberi professionisti, pensionati, sindacalisti, casalinghe in viaggio come su uno sgangherato e divertente charter keniota. Parole, e non vola una mosca, se non quelle che amano le verdure grigliate. Canzoni, e scattano le mani a tempo con le turbolenze della vita, quelle che poi si aggiustano fino all'atterraggio finale, salutato da un applauso ai piloti che per una volta non è liberatorio, ma gioioso. Equipaggio e viaggiatori insieme a bere birra, ad accorciare le distanze, ad annullare fusi orari.
Africa andata e ritorno con una macchina del tempo e dello spazio.
Infatti siamo tornati dove eravamo: ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1978.
Ai tempi delle Piramidi.
Quante saranno le Case del Popolo, disseminate e ancora non disinnescate, sul territorio italiano?
In Lombardia di certo meno delle sale bingo, meno delle Spa.
L'edificio sembra conoscere la parola "resistenza" e si comporta di conseguenza. Le stagioni non pesano, ristagnano. Sarà il lago che tutto ammanta, anche gli anni galoppanti di inflazioni e liberismi eccessivi, che tutto riveste di una patina melmosa e che, miracolosamente, lascia intatti alcuni simboli di un età che non torna.
Di un'età povera, ingenua, anche un po' ignorante come può essere chi vede solo il rosso o il nero a guisa della pallina di una roulette o di un romanzo di Stendhal impolverato in una libreria in finto palissandro; di chi vede gli esseri umani come realmente sono, pecore e capre brucanti e brulicanti in cerca di una guida saggia e, perchè no, dispotica e costretti ogni tanto a inventarsene una per non disperdersi.
L'edificio, giallo scrostato, avverte nel tazebao protetto da una teca in astinenza da vetril, che questa sera nei locali del circolo andrà in scena lo spettacolo "Malindi, Italia" di Freddie del Curatolo, con la partecipazione di Franco Cufone. Dal disegno della locandina spiccano pizze sbocciate da un baobab e ancora non è dato sapere in che anno siamo. Anche gli avventori delle sei di sera, bianchino spruzzato campari alla mano e sguardi da allunato dimenticato dalla Nasa e svestito dello scafandro dall'alcool, non lo rivelano. C'è lo scemo del paese e il piccolo boss, così grosso da coprire le scritte di una lavagna e un'altra insegna all'ingresso.
Dentro è la Storia. La nostra recente commedia di provincia. Bancone e sedie in fòrmica, vetrinetta a specchio che mette in mostra la Vecchia Romagna e la grappa Nardini ma piange di polvere la perdita del Punt e Mes, dell'Amaro 18 Isolabella, del Cordial.
Dalla radio gracchiante arriva "Heartbreaker" di Dionne Warwick, l'accoglienza è delicata come si addice a chi non è capitato qui per caso. La siciliana tuttofare ci mostra lo stanzone, l'ala convegni, la dance hall, l'aula magna, la sala ristorante, l'area concerti. Quaranta metri quadri di tavoli da briscola e un palco giallo con un tappeto persiano a coprirne le disgrazie.
Impianto e mixer d'avanguardia, se veramente siamo nel 1978, all'alba della distruzione degli ideali e dell'invenzione del digitale.
La siciliana apparecchia i tavoli. Come dev'essere, non c'è un bicchiere uguale all'altro ed anche le forchette si guardano tra loro come camerieri di etnie diverse al primo giorno di lavoro in una pensioncina di Viserbella. Prove microfono, chitarra secca e bianco fermo spruzzato campari.
Sarà il rosso dell'aperitivo, sarà la data sotto la testata della bibbia rosa, ma la Casa del Popolo inizia a roteare e la forza di gravità appiccica alle pareti vent'anni di storia: fotografie di eroi che diventano terroristi ingialliscono, bandiere di partiti che non esistono più stingono, articoli di giornali che raccontavano la vita diventano leggenda.
Si fatica a crederci, siamo nel 2008.
Accanto all'insegna rossa appare un'altro cartello: "Taverna Etnica del Faraone", dietro alla lavagna c'è un poster che pubblicizza sette diversi tipi di kebab. Il Faraone è in cucina, suo nipote rimesta lo spezzatino al curry. Gli ho portato il cocco, per trasformarlo in un piatto africano.
"Siamo due africani finti" gli dico.
"No, io sono egiziano".
Torno nella sala concerti.
Venti coperti prenotati, michette e caraffe di vino, buffet.
Pubblico delle piccole occasioni, quelle che ricordi per lungo tempo e d'improvviso, roteando, un giorno ti si attaccheranno alle pareti.
Uno spettacolo straordinario, dirigenti d'azienda, operai, copyrighters, liberi professionisti, pensionati, sindacalisti, casalinghe in viaggio come su uno sgangherato e divertente charter keniota. Parole, e non vola una mosca, se non quelle che amano le verdure grigliate. Canzoni, e scattano le mani a tempo con le turbolenze della vita, quelle che poi si aggiustano fino all'atterraggio finale, salutato da un applauso ai piloti che per una volta non è liberatorio, ma gioioso. Equipaggio e viaggiatori insieme a bere birra, ad accorciare le distanze, ad annullare fusi orari.
Africa andata e ritorno con una macchina del tempo e dello spazio.
Infatti siamo tornati dove eravamo: ad Arona, sul Lago Maggiore, nel 1978.
Ai tempi delle Piramidi.
giovedì 16 ottobre 2008
NEL REGNO DEGLI ANIMALI
Non mi guardare male non è mica colpa mia
È per trovare un’occupazione che ho lasciato la fattoria
Ho preso un monolocale appena fuori dalla città
E tutti gli animali mi han seguito fino a qua
C’è un cane bastardino che si chiama Montezuma
Si è comprato il pedigree e non tollera chi fuma
La gatta ora lo corteggia si crede una velina
Gli passa sotto il naso e ogni tanto si strofina
Il gufo è sul balcone e fa l’intellettuale
Se non la pensi come lui ti guarda molto male
C’era anche un pappagallo, di lui mi son fidato
Ho lasciato la gabbia aperta e non è più tornato
Anche noi siamo animali - Tutti noi siamo animali
Nervosi come gli squali - Onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
C’è una tigre della Malesia che è diventata vegetariana
Da quando ha visto un elefante parlar male della Savana
La zebra commenta il calcio, il mandrillo va in discoteca
La gazza ladra ha l’immunità e l’ippopotamo è sempre a dieta
Nel salotto sta il coccodrillo, la politica è il suo mestiere
Piange dopo aver mangiato, ma poi chiede anche da bere
Ai varani e alle lucertole ha fatto il lavaggio del cervello
E hanno già trasformato la mia casa in un bordello
Anche noi siamo animali - Tutti noi siamo animali
Nervosi come gli squali - Onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
La puzzola manager veste elegante ma continua a emettere gas
Gli scarafaggi senza permesso li elimina il mio mastino Boss
Come il bruco con la farfalla i vermi diventano avvoltoi
Le oche si appendono al calendario, i polli chiedono più pollai
Gli ho proposto di ribellarsi, ma vogliono stare in cattività
E l’ha capito anche il portinaio che nella mia casa non c’è libertà
Anche noi siamo animali, tutti noi siamo animali
Branchi di lupi mannari sugli agnelli sacrificali
Ci sentiamo bene solo dentro il regno degli animali
Anche noi siamo animali, tutti noi siamo animali
nervosi come gli squali, onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
È per trovare un’occupazione che ho lasciato la fattoria
Ho preso un monolocale appena fuori dalla città
E tutti gli animali mi han seguito fino a qua
C’è un cane bastardino che si chiama Montezuma
Si è comprato il pedigree e non tollera chi fuma
La gatta ora lo corteggia si crede una velina
Gli passa sotto il naso e ogni tanto si strofina
Il gufo è sul balcone e fa l’intellettuale
Se non la pensi come lui ti guarda molto male
C’era anche un pappagallo, di lui mi son fidato
Ho lasciato la gabbia aperta e non è più tornato
Anche noi siamo animali - Tutti noi siamo animali
Nervosi come gli squali - Onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
C’è una tigre della Malesia che è diventata vegetariana
Da quando ha visto un elefante parlar male della Savana
La zebra commenta il calcio, il mandrillo va in discoteca
La gazza ladra ha l’immunità e l’ippopotamo è sempre a dieta
Nel salotto sta il coccodrillo, la politica è il suo mestiere
Piange dopo aver mangiato, ma poi chiede anche da bere
Ai varani e alle lucertole ha fatto il lavaggio del cervello
E hanno già trasformato la mia casa in un bordello
Anche noi siamo animali - Tutti noi siamo animali
Nervosi come gli squali - Onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
La puzzola manager veste elegante ma continua a emettere gas
Gli scarafaggi senza permesso li elimina il mio mastino Boss
Come il bruco con la farfalla i vermi diventano avvoltoi
Le oche si appendono al calendario, i polli chiedono più pollai
Gli ho proposto di ribellarsi, ma vogliono stare in cattività
E l’ha capito anche il portinaio che nella mia casa non c’è libertà
Anche noi siamo animali, tutti noi siamo animali
Branchi di lupi mannari sugli agnelli sacrificali
Ci sentiamo bene solo dentro il regno degli animali
Anche noi siamo animali, tutti noi siamo animali
nervosi come gli squali, onnivori come i maiali
Ci sentiamo bene solo dentro regno degli animali
(dall'album di Freddie "Nel regno degli animali")
mercoledì 15 ottobre 2008
L'IPPOPOTAMO WILMA E L'ANIMA DA VIVI
Un uomo bianco, enorme.
La barba incolta.
I capelli ancora più ignoranti.
La pelle aragostata dal sole, il lento e solitario galoppare dell'aragosta.
La foce del Sabaki, dove tutto è argilla e magia, ha tutte le tonalità di rosso e marrone possibili, che a Siena neanche immaginano ci sia questa terra.
L'uomo si siede sulla riva e attende. Non è cinese e non aspetta il nemico.
E' italiano e attende un ippopotamo.
Wilma, a differenza della sorella, non è puntuale. Ha passato i suoi anni migliori nell'ansa davanti alla scuola elementare di Msufini, dove gli scolari arrivavano a scuola sempre a metà della prima lezione e il maestro li puniva con dieci giri del campo sportivo all'ora di pranzo. Regolarmente, caldi e sudati come manghi sulle bancarelle, si tuffavano nel fiume e l'ippopotamo li spaventava.
Ma Wilma non ha mai masticato un essere umano.
“Mi fanno talmente schifo che non riesco nemmeno ad ammazzarli”.
Più tranquilla e serafica (se è possibile) della sorella defunta, molle e pigra ma più estrema. Wilma si presenta al cronista, ora in piedi a qualche metro dalla riva.
“Buongiorno Wilma, le ho portato tre chili di sedano”
“Te lo puoi ficcare minuziosamente nell'orifizio anale”
“Mi scusi?”
“Pinzimoniati il culo, rimbambito”
Si riconoscono i tratti di famiglia. L'occhio è apparentemente più rilassato.
“A me piacciono le melanzane, alla parmigiana”
“Senza la mano dell'uomo che tu detesti, non le potresti mangiare...”
“E chi te l'ha detto? C'è una scimmia di Marikebuni, Orazio, che le fa da dio...ha imparato da un cuoco del Palm Tree Club. Noi animali siamo in grado di fare tutte le cose utili che fa l'uomo”
“Guidare una macchina?”
“Perchè no?”
“Dirigere un'azienda?”
“Beh, ci vorrà mica una gran testa...questione di tatto ed esperienza...”
“E l'alta finanza? Gli scenziati? I professori universitari? Gli ingegneri nucleari? I politici?”
“Ho detto le cose UTILI che fa l'uomo”
Wilma è pacata, il suo linguaggio di versi arrochiti dall'acqua limacciosa con cui fa i gargarismi, è piacevole come un drenaggio renale. Ma appartiene a una razza in via d'estinzione, quella degli animali dotati di sense of humour, che sanno ascoltare e amano ancora incuriosirsi.
“Devi ammettere, Wilma, che qualche umano è da salvare...”
“Piero Angela? Licia Colò”
“magari Padre Kizito Sesana, oppure Gino Strada...”
“Mica è un veterinario...”
“Papa Ratzinger”
“Quello lo è già di più...”
“Wilma!”
“Mica sono cattolica io, sono animista. Credo alla reincarnazione. In un'altra vita ero Michele Zarrillo, in questa sono stata promossa...un gradino in più nella scala verso l'illuminazione”
“Sei buddista?”
“Anche”
“Molti uomini e donne lo stanno diventando”
“Lo sono sempre stati e tornano ad esserlo”
“Come mai, secondo te?”
“Oggi hanno paure più importanti e immediate di quella della morte, così se ne fottono dell'immortalità e tornano a coltivare l'anima da vivi”
“Beh, anche questo è il genere umano?”
“Sì, ma al genere umano continuo a preferire il poliziesco”.
C'è un uomo enorme che lascia l'argine del fiume e scala a fatica un facile dirupo, utilizzando curiosamente gambi di sedano come fossero picchetti da roccia. Sta riflettendo sulla coltivazione dell'anima da vivi e sogna un piatto di melanzane alla parmigiana cucinato da una scimmia.
La meravigliosa storia dell'uomo che parlava con gli ippopotami continua.
La barba incolta.
I capelli ancora più ignoranti.
La pelle aragostata dal sole, il lento e solitario galoppare dell'aragosta.
La foce del Sabaki, dove tutto è argilla e magia, ha tutte le tonalità di rosso e marrone possibili, che a Siena neanche immaginano ci sia questa terra.
L'uomo si siede sulla riva e attende. Non è cinese e non aspetta il nemico.
E' italiano e attende un ippopotamo.
Wilma, a differenza della sorella, non è puntuale. Ha passato i suoi anni migliori nell'ansa davanti alla scuola elementare di Msufini, dove gli scolari arrivavano a scuola sempre a metà della prima lezione e il maestro li puniva con dieci giri del campo sportivo all'ora di pranzo. Regolarmente, caldi e sudati come manghi sulle bancarelle, si tuffavano nel fiume e l'ippopotamo li spaventava.
Ma Wilma non ha mai masticato un essere umano.
“Mi fanno talmente schifo che non riesco nemmeno ad ammazzarli”.
Più tranquilla e serafica (se è possibile) della sorella defunta, molle e pigra ma più estrema. Wilma si presenta al cronista, ora in piedi a qualche metro dalla riva.
“Buongiorno Wilma, le ho portato tre chili di sedano”
“Te lo puoi ficcare minuziosamente nell'orifizio anale”
“Mi scusi?”
“Pinzimoniati il culo, rimbambito”
Si riconoscono i tratti di famiglia. L'occhio è apparentemente più rilassato.
“A me piacciono le melanzane, alla parmigiana”
“Senza la mano dell'uomo che tu detesti, non le potresti mangiare...”
“E chi te l'ha detto? C'è una scimmia di Marikebuni, Orazio, che le fa da dio...ha imparato da un cuoco del Palm Tree Club. Noi animali siamo in grado di fare tutte le cose utili che fa l'uomo”
“Guidare una macchina?”
“Perchè no?”
“Dirigere un'azienda?”
“Beh, ci vorrà mica una gran testa...questione di tatto ed esperienza...”
“E l'alta finanza? Gli scenziati? I professori universitari? Gli ingegneri nucleari? I politici?”
“Ho detto le cose UTILI che fa l'uomo”
Wilma è pacata, il suo linguaggio di versi arrochiti dall'acqua limacciosa con cui fa i gargarismi, è piacevole come un drenaggio renale. Ma appartiene a una razza in via d'estinzione, quella degli animali dotati di sense of humour, che sanno ascoltare e amano ancora incuriosirsi.
“Devi ammettere, Wilma, che qualche umano è da salvare...”
“Piero Angela? Licia Colò”
“magari Padre Kizito Sesana, oppure Gino Strada...”
“Mica è un veterinario...”
“Papa Ratzinger”
“Quello lo è già di più...”
“Wilma!”
“Mica sono cattolica io, sono animista. Credo alla reincarnazione. In un'altra vita ero Michele Zarrillo, in questa sono stata promossa...un gradino in più nella scala verso l'illuminazione”
“Sei buddista?”
“Anche”
“Molti uomini e donne lo stanno diventando”
“Lo sono sempre stati e tornano ad esserlo”
“Come mai, secondo te?”
“Oggi hanno paure più importanti e immediate di quella della morte, così se ne fottono dell'immortalità e tornano a coltivare l'anima da vivi”
“Beh, anche questo è il genere umano?”
“Sì, ma al genere umano continuo a preferire il poliziesco”.
C'è un uomo enorme che lascia l'argine del fiume e scala a fatica un facile dirupo, utilizzando curiosamente gambi di sedano come fossero picchetti da roccia. Sta riflettendo sulla coltivazione dell'anima da vivi e sogna un piatto di melanzane alla parmigiana cucinato da una scimmia.
La meravigliosa storia dell'uomo che parlava con gli ippopotami continua.
martedì 14 ottobre 2008
LA NUOVA ROTTA DELLA NAVE-KENYA DOPO LA TEMPESTA
La storia del genere umano e, probabilmente, anche il più breve e insignificante dei percorsi di ogni singolo individuo, ci insegnano che per cambiare rotta, per migliorarsi, per prendere una decisione netta e sicura, bisogna prima attraversare una tempesta.
Ci vuole uno shock, un avvertimento, un segnale del cielo o degli inferi.
Così potrebbe essere stato per il Kenya. L'aura di Paese tra i più pacifici e sereni dell'Africa e anche del mondo (in quasi cinquant'anni di indipendenza, mai un accenno di guerra civile, mai un governo militare, mai rilevanti tumulti di piazza), la consapevolezza di un luogo in cui non girano armi, in cui la criminalità è un fatto isolato e soprattutto non ancestrale, ha subito un brusco tracollo all'inizio dell'anno. E' bastato un litigio, un vuoto di potere, una rivolta dei sobborghi, come alla vigilia della rivoluzione francese. Nessuno in questa tranquilla Nazione aveva mai tentato di negare il concetto di Jamhuri, di Repubblica. Senza mai chiedersi cosa fosse veramente la libertà (ma perché, noi occidentali lo sappiamo?) nessun keniota aveva mai conosciuto l'anarchia, la ribellione estesa e sfociante nel caos. Forse anche per questo motivo l'effetto è stato devastante, ancorché risibile rispetto ai dati delle sommosse che ogni giorno, da anni, sconvolgono il nostro vecchio globo. Quando non te l'aspetti, ogni singolo abuso, ogni capanna bruciata, ogni bambino caduto durante gli scontri, è un grido di dolore di un intero mondo.
E se il mondo ti sta guardando, quelle grida sono amplificate a dismisura e ti tornano indietro come un eco impietoso e distorto che entra nelle vene e scuote le coscienze.
Ecco perché il Kenya e chi ci vive oggi non può ignorare né dimenticare, ma si sente più forte e consapevole.
Tutti abbiamo capito che la serenità, la pace, il benessere mentale che abbiamo imparato ad assorbire come un medicinale da inalare, presente nell'aria, fino a respirarlo come fosse parte della natura, è un bene prezioso da salvaguardare, perché è il segreto stesso della meraviglia di questa parte d'Africa.
Il sorriso con cui si viene accolti e che ricambiamo d'istinto, i ritmi del vivere, il calarci in una realtà povera e minimale, l'aiutare senza pretendere nulla in cambio… gesti e modi naturali che tornano ad essere l'essenza dell'integrazione, ma che possono dotarsi di una marcia in più: la consapevolezza.
Così da manna caduta dal cielo, da regalo di un dio primordiale e sorridente eternamente sdraiato su un'amaca, oggi consideriamo la bellezza, la spensieratezza, il rilassante "mood" del Kenya come qualcosa che (senza troppo affanno) ci dobbiamo guadagnare ogni giorno.
Ecco che tutto questo si traduce in fatti: impariamo a tenere di più al nostro presente per costruire un po' di futuro in un Paese in cui "vivere alla giornata" è sempre stata un'arte.
Si muovono in questo senso gli imprenditori, gli operatori turistici, buona parte dei governanti.
Ci sono investimenti importanti, promozione mirata, aperture a nuovi mercati, accordi fino a poco tempo fa impensabili.
Ecco la direzione da intraprendere, la giusta rotta che la Nave-Kenya ha ritrovato dopo le minacce della tempesta più grande della sua breve traversata nell'Oceano della storia.
Ecco perché, se passeggiate per Milano, Roma o altre città d'Italia, potete vedere un leone ruggire su un autobus, la spiaggia di Watamu in metropolitana e le nevi del Kilimanjaro allo svincolo dell'autostrada. Ecco perché vi potete tuffare per una manciata di secondi in mezzo alla savana dalla poltrona di casa vostra, davanti alla televisione.
Sulla Nave-Kenya si rema tutti nella stessa direzione, e anche questa è una prima volta.
Speriamo che questa grande voglia di coltivare la meraviglia, di curare il nostro convalescente paradiso, diventi una costante e non sia un rimedio "una tantum".
Perché un'altra, spiacevole, verità riguardo alla natura dell'uomo, è che egli è capace di dimenticare in un giorno quello che, per imparare, ci ha messo una vita intera.
(da www.malindikenya.net)
Ci vuole uno shock, un avvertimento, un segnale del cielo o degli inferi.
Così potrebbe essere stato per il Kenya. L'aura di Paese tra i più pacifici e sereni dell'Africa e anche del mondo (in quasi cinquant'anni di indipendenza, mai un accenno di guerra civile, mai un governo militare, mai rilevanti tumulti di piazza), la consapevolezza di un luogo in cui non girano armi, in cui la criminalità è un fatto isolato e soprattutto non ancestrale, ha subito un brusco tracollo all'inizio dell'anno. E' bastato un litigio, un vuoto di potere, una rivolta dei sobborghi, come alla vigilia della rivoluzione francese. Nessuno in questa tranquilla Nazione aveva mai tentato di negare il concetto di Jamhuri, di Repubblica. Senza mai chiedersi cosa fosse veramente la libertà (ma perché, noi occidentali lo sappiamo?) nessun keniota aveva mai conosciuto l'anarchia, la ribellione estesa e sfociante nel caos. Forse anche per questo motivo l'effetto è stato devastante, ancorché risibile rispetto ai dati delle sommosse che ogni giorno, da anni, sconvolgono il nostro vecchio globo. Quando non te l'aspetti, ogni singolo abuso, ogni capanna bruciata, ogni bambino caduto durante gli scontri, è un grido di dolore di un intero mondo.
E se il mondo ti sta guardando, quelle grida sono amplificate a dismisura e ti tornano indietro come un eco impietoso e distorto che entra nelle vene e scuote le coscienze.
Ecco perché il Kenya e chi ci vive oggi non può ignorare né dimenticare, ma si sente più forte e consapevole.
Tutti abbiamo capito che la serenità, la pace, il benessere mentale che abbiamo imparato ad assorbire come un medicinale da inalare, presente nell'aria, fino a respirarlo come fosse parte della natura, è un bene prezioso da salvaguardare, perché è il segreto stesso della meraviglia di questa parte d'Africa.
Il sorriso con cui si viene accolti e che ricambiamo d'istinto, i ritmi del vivere, il calarci in una realtà povera e minimale, l'aiutare senza pretendere nulla in cambio… gesti e modi naturali che tornano ad essere l'essenza dell'integrazione, ma che possono dotarsi di una marcia in più: la consapevolezza.
Così da manna caduta dal cielo, da regalo di un dio primordiale e sorridente eternamente sdraiato su un'amaca, oggi consideriamo la bellezza, la spensieratezza, il rilassante "mood" del Kenya come qualcosa che (senza troppo affanno) ci dobbiamo guadagnare ogni giorno.
Ecco che tutto questo si traduce in fatti: impariamo a tenere di più al nostro presente per costruire un po' di futuro in un Paese in cui "vivere alla giornata" è sempre stata un'arte.
Si muovono in questo senso gli imprenditori, gli operatori turistici, buona parte dei governanti.
Ci sono investimenti importanti, promozione mirata, aperture a nuovi mercati, accordi fino a poco tempo fa impensabili.
Ecco la direzione da intraprendere, la giusta rotta che la Nave-Kenya ha ritrovato dopo le minacce della tempesta più grande della sua breve traversata nell'Oceano della storia.
Ecco perché, se passeggiate per Milano, Roma o altre città d'Italia, potete vedere un leone ruggire su un autobus, la spiaggia di Watamu in metropolitana e le nevi del Kilimanjaro allo svincolo dell'autostrada. Ecco perché vi potete tuffare per una manciata di secondi in mezzo alla savana dalla poltrona di casa vostra, davanti alla televisione.
Sulla Nave-Kenya si rema tutti nella stessa direzione, e anche questa è una prima volta.
Speriamo che questa grande voglia di coltivare la meraviglia, di curare il nostro convalescente paradiso, diventi una costante e non sia un rimedio "una tantum".
Perché un'altra, spiacevole, verità riguardo alla natura dell'uomo, è che egli è capace di dimenticare in un giorno quello che, per imparare, ci ha messo una vita intera.
(da www.malindikenya.net)
lunedì 13 ottobre 2008
NONNO KAZUNGU E LA CRISI ECONOMICA
Nonno Kazungu guardava il suo campo di pomodori.
I rossi riflessi dei frutti al sole regalavano alle sue cataratte lunghe scie d'aeroporto in Savana.
Da lì ogni sera decollavano i succulenti piatti di ugali a cui per niente al mondo avrebbe rinunciato. Ma che spaghetti, quali risotti del mzungu! Polenta, sugo di pomodoro e mchicha, o carne al sabato. Non era un autodifesa da poveri, non c'è mai stato bisogno di convincersi, tra giriama, che è meglio il cibo di sostentamento dell'arte culinaria del mondo evoluto. La “sima” è buona, punto e basta.
La sera prima al Safari Bar aveva ascoltato bene le parole della coppia di kikuyu che commenta le notizie del telegiornale alla KBC. Parlavano della crisi dei mercati finanziari e di Obama, un keniota che salverà l'umanità!
“Cosa c'è da salvare? Nemmeno il papa ce la farebbe...figuriamoci un africano” aveva commentato l'elettricista Makotsi.
“Forse dovrebbe tornare Gesù, a questo punto...” ridacchiava il barista Kibonge, stappando una Tusker fredda.
“Ma perchè – chiese il piccolo Kitsao, unico ragazzino a cui era concesso di stare sveglio fino alle sette per vedere le news – cosa c'è di tanto grave nel mondo? Non era peggio quando c'era la guerra in Iraq o quando c'erano gli scontri a Nakuru e Eldoret?”
Lawrence Kamongo scosse la testa. Quell'uomo era considerato l'uomo moderno, il pioniere della nuova era a Kakoneni perchè aveva capito prima degli altri quale sarebbe stato il mestiere del terzo millennio in Africa: rappresentante di telefonini cellulari.
“La situazione può diventare gravissima, piccolo Kitsao – disse Kamongo, lavorandosi il pizzetto – l'economia è in crisi, nessuno compera più niente perché ha paura che i soldi possano finire presto, così si produce meno e c'è meno lavoro per tutti”.
“Niente più telefonini?” lanciò Kibebe lo scemo al suo indirizzo, tanto che gli fece andare il blackcurrant di traverso.
“Niente più fuoristrada da polverone!” fece eco Charo.
“Niente più aiuti degli wazungu” aggiunse Kibonge, stappando una tusker temperatura ambiente.
Nonno Kazungu sorrise. C'erano i pro e i contro, gli pareva di capire, ma non riusciva a immaginare cosa sarebbe cambiato per la comunità rurale di Kakoneni nell'immediato.
I pomodori e la mchicha, il grano, l'acqua nei pozzi. Quel che aveva sempre regolato la vita da quelle parti non sarebbe cambiato. Il problema si sarebbe creato a Malindi, forse. Meno wazungu in vacanza, meno residenti a cui fare da giardinieri, da autisti, da maggiordomi per poi portare soldi a casa per mandare i figli a scuola o curare le mogli.
“Ma se in Italia è ancora peggio, chi ci vorrà tornare? Non succederà invece che arriveranno molti più wazungu?” pensò ad alta voce.
“Che ce ne facciamo dei bianchi poveri?” salto sù Makotsi.
In effetti i bianchi poveri erano considerati solo una seccatura, magari erano anche gente simpatica, di compagnia, ma nessuno credeva che preferissero la sima con fagioli a una bella pizza, il problema era che non avevano soldi per la pizza e venivano a scroccarti un piatto di polenta, fingendo che quello era amore per l'Africa.
Non si tratta di razzismo: lo Svaporato l'aveva già spiegato una volta alla truppa. La filosofia è semplicemente all'antitesi di quella del mondo occidentale.
“Se noi italiani nel nostro Paese incrociamo un nero, di primo acchito siamo convinti che sia povero. Se scopriamo che è benestante, ci viene da pensare che deve essere una persona colta e intelligente. Così fate voi africani: se v'imbattete in un bianco, credete subito si tratti di un ricco. Se invece vi rendete conto che è povero quasi come voi, lo considerate un imbecille. Come fa un mzungu, che viene da una terra dove tutti sono milionari, a non avere un soldo?”
Makotsi ricordava le parole dell'amico mzungu, e faceva sì con la testa.
“Non sono tutti così, però...” spiegò Kazungu, che ne aveva visti tanti, come il romano che voleva fare il tassista e aveva preso un sacco di botte dai “colleghi” africani, o il rapper che avrebbe voluto la pelle nera e viveva negli slum, ma dopo un po' i kenioti lo chiamavano mzungu e i bianchi “giriama”.
“Quasi tutti...” precisò Kamongo.
“E vengono a rubare i lavori più umili a noi” aggiunse preoccupato Charo.
“Invece di fare gli alberghi faranno i safari bar...” lamentò Kibonge, versandosi una tusker appena stappata.
Già, allora questo ci si doveva aspettare, con la crisi economica. Vedersi arrivare una marea di mzungu poveri con cui dividere i propri campi, la mchicha e la sima.
“Speriamo che la grande crisi dei mercati azionari non abbia ripercussioni sull'economia reale” blaterò il piccolo kitsao, con fastidioso accento kikuyu da telegiornale.
“Invece io ci spero!”
Per un attimo calò un silenzio di savana all'alba nel locale. Le teste si voltarono alla moviola e apparve all'uscio la sagoma inconfondibile di Kibebe lo scemo.
Kamongo fece un gestaccio con la mano, il nonno se la rideva e Kibonge stappo una tusker liberatoria.
“E perché?” sghignazzò Kamongo.
“Perchè la mchicha e i pomodori glieli venderemo noi, mica i cinesi come i tuoi telefonini!”
“Kibebe ha ragione” disse il nonno “questa è la nostra economia reale e fino a prova contraria ne siamo noi i padroni. Ci hanno tenuto a mchicha e pomodori per una vita, ora finalmente si accorgeranno quanto sono buoni...magari un po' più cari di una volta, ma moooolto buoni!”
La risata fu generale, roba che anche le jene dello Tsavo ne avrebbero parlato il giorno dopo.
Venite bianchi, venite alle porte della savana, nel paradiso dell'economia reale.
I rossi riflessi dei frutti al sole regalavano alle sue cataratte lunghe scie d'aeroporto in Savana.
Da lì ogni sera decollavano i succulenti piatti di ugali a cui per niente al mondo avrebbe rinunciato. Ma che spaghetti, quali risotti del mzungu! Polenta, sugo di pomodoro e mchicha, o carne al sabato. Non era un autodifesa da poveri, non c'è mai stato bisogno di convincersi, tra giriama, che è meglio il cibo di sostentamento dell'arte culinaria del mondo evoluto. La “sima” è buona, punto e basta.
La sera prima al Safari Bar aveva ascoltato bene le parole della coppia di kikuyu che commenta le notizie del telegiornale alla KBC. Parlavano della crisi dei mercati finanziari e di Obama, un keniota che salverà l'umanità!
“Cosa c'è da salvare? Nemmeno il papa ce la farebbe...figuriamoci un africano” aveva commentato l'elettricista Makotsi.
“Forse dovrebbe tornare Gesù, a questo punto...” ridacchiava il barista Kibonge, stappando una Tusker fredda.
“Ma perchè – chiese il piccolo Kitsao, unico ragazzino a cui era concesso di stare sveglio fino alle sette per vedere le news – cosa c'è di tanto grave nel mondo? Non era peggio quando c'era la guerra in Iraq o quando c'erano gli scontri a Nakuru e Eldoret?”
Lawrence Kamongo scosse la testa. Quell'uomo era considerato l'uomo moderno, il pioniere della nuova era a Kakoneni perchè aveva capito prima degli altri quale sarebbe stato il mestiere del terzo millennio in Africa: rappresentante di telefonini cellulari.
“La situazione può diventare gravissima, piccolo Kitsao – disse Kamongo, lavorandosi il pizzetto – l'economia è in crisi, nessuno compera più niente perché ha paura che i soldi possano finire presto, così si produce meno e c'è meno lavoro per tutti”.
“Niente più telefonini?” lanciò Kibebe lo scemo al suo indirizzo, tanto che gli fece andare il blackcurrant di traverso.
“Niente più fuoristrada da polverone!” fece eco Charo.
“Niente più aiuti degli wazungu” aggiunse Kibonge, stappando una tusker temperatura ambiente.
Nonno Kazungu sorrise. C'erano i pro e i contro, gli pareva di capire, ma non riusciva a immaginare cosa sarebbe cambiato per la comunità rurale di Kakoneni nell'immediato.
I pomodori e la mchicha, il grano, l'acqua nei pozzi. Quel che aveva sempre regolato la vita da quelle parti non sarebbe cambiato. Il problema si sarebbe creato a Malindi, forse. Meno wazungu in vacanza, meno residenti a cui fare da giardinieri, da autisti, da maggiordomi per poi portare soldi a casa per mandare i figli a scuola o curare le mogli.
“Ma se in Italia è ancora peggio, chi ci vorrà tornare? Non succederà invece che arriveranno molti più wazungu?” pensò ad alta voce.
“Che ce ne facciamo dei bianchi poveri?” salto sù Makotsi.
In effetti i bianchi poveri erano considerati solo una seccatura, magari erano anche gente simpatica, di compagnia, ma nessuno credeva che preferissero la sima con fagioli a una bella pizza, il problema era che non avevano soldi per la pizza e venivano a scroccarti un piatto di polenta, fingendo che quello era amore per l'Africa.
Non si tratta di razzismo: lo Svaporato l'aveva già spiegato una volta alla truppa. La filosofia è semplicemente all'antitesi di quella del mondo occidentale.
“Se noi italiani nel nostro Paese incrociamo un nero, di primo acchito siamo convinti che sia povero. Se scopriamo che è benestante, ci viene da pensare che deve essere una persona colta e intelligente. Così fate voi africani: se v'imbattete in un bianco, credete subito si tratti di un ricco. Se invece vi rendete conto che è povero quasi come voi, lo considerate un imbecille. Come fa un mzungu, che viene da una terra dove tutti sono milionari, a non avere un soldo?”
Makotsi ricordava le parole dell'amico mzungu, e faceva sì con la testa.
“Non sono tutti così, però...” spiegò Kazungu, che ne aveva visti tanti, come il romano che voleva fare il tassista e aveva preso un sacco di botte dai “colleghi” africani, o il rapper che avrebbe voluto la pelle nera e viveva negli slum, ma dopo un po' i kenioti lo chiamavano mzungu e i bianchi “giriama”.
“Quasi tutti...” precisò Kamongo.
“E vengono a rubare i lavori più umili a noi” aggiunse preoccupato Charo.
“Invece di fare gli alberghi faranno i safari bar...” lamentò Kibonge, versandosi una tusker appena stappata.
Già, allora questo ci si doveva aspettare, con la crisi economica. Vedersi arrivare una marea di mzungu poveri con cui dividere i propri campi, la mchicha e la sima.
“Speriamo che la grande crisi dei mercati azionari non abbia ripercussioni sull'economia reale” blaterò il piccolo kitsao, con fastidioso accento kikuyu da telegiornale.
“Invece io ci spero!”
Per un attimo calò un silenzio di savana all'alba nel locale. Le teste si voltarono alla moviola e apparve all'uscio la sagoma inconfondibile di Kibebe lo scemo.
Kamongo fece un gestaccio con la mano, il nonno se la rideva e Kibonge stappo una tusker liberatoria.
“E perché?” sghignazzò Kamongo.
“Perchè la mchicha e i pomodori glieli venderemo noi, mica i cinesi come i tuoi telefonini!”
“Kibebe ha ragione” disse il nonno “questa è la nostra economia reale e fino a prova contraria ne siamo noi i padroni. Ci hanno tenuto a mchicha e pomodori per una vita, ora finalmente si accorgeranno quanto sono buoni...magari un po' più cari di una volta, ma moooolto buoni!”
La risata fu generale, roba che anche le jene dello Tsavo ne avrebbero parlato il giorno dopo.
Venite bianchi, venite alle porte della savana, nel paradiso dell'economia reale.
sabato 11 ottobre 2008
TUTTI CON LE MANI IN TUSKER
Ieri in Kenya si celebrava il Moi Day. Secondo un'usanza antica come la giovane repubblica keniota, che ha più o meno l'età di Barack Obama, il compleanno dei presidenti equivale a una "national holiday". Per fortuna (o no?) il Kenya fino ad oggi ha avuto soltanto tre capi di Stato: Jomo Kenyatta il padre della patria, Daniel Arap Moi appunto e l'attuale Mwai Kibaki. In Italia con un decreto del genere si farebbe festa ogni giorno, tranne il 29 settembre. In compenso nell'Africa orientale non esiste ancora il ponte e se esistesse lo chiamerebbero in un altro modo, perchè qui i ponti crollano facilmente. Sulla strada tra Thika e Nairobi, tutta saliscendi col contorno di verdeggianti colline, un camion della Tusker Breweries si è rovesciato su un fianco, perdendo un centinaio di casse di birra. L'autista (come ogni dipendente della Tusker leggermente alticcio, uno che farebbe cambiare colore anche ai palloncini del luna park) come sempre in questi casi, benché ammaccato si è dato alla fuga. E in men che non si pronunci la parola "asante mwungu" in swahili (grazie Signore) dalle verdeggianti colline e dalle marroneggianti capanne è uscito il mondo intero tra Thika e Nairobi. Tusker nelle tasche, in mano, in larghi cesti sulla testa. Mamas con i parei traboccanti a saltellare di qua e di là della carreggiata, qualcuna rotolante e un paio seminascoste dietro un baobab che provano l'ebbrezza della birra per la prima volta nella loro vita. Bambini scattanti e furbi pronti a vendere l'indomani le loro bottiglie a chi sarà già in crisi d'astinenza, per comprarsi un paio di Bata da basketball, vecchi con stampelle e senza denti. Tripudio di tappi levati con qualsiasi espediente, dalle pietre ai molari, decine di etichette francobollate sulla fronte, cartoline di gioia insperata. Fiumi tiepidi di malto liquido riversati in gole capaci di tutto. Chi se la spruzza addosso, come Shumacher sul podio, chi arriva con la damigiana da dieci litri della paraffina e stappa senza sosta. Canti, balli, scherzi e risate alcoliche e appiccicose fino a tarda notte. Una festa nella festa, neanche fosse stato Pilsner Kubwa l'ex presidente da festeggiare. Noi occidentali, con le nostre vite piene di tutto, i nostri fine settimana tra lungomari ed autostrade, tra code agli impianti di risalita e geloni davanti al camino, non ci ricordiamo cosa abbiamo fatto il 25 aprile di tre anni fa o il 2 giugno dell'anno scorso. Per tutti invece, a Thika, un Moi Day indelebile nella memoria. Fino al prossimo presidente, o fino al prossimo camion.
venerdì 10 ottobre 2008
L'IPPOPOTAMO WILMA E IL GENERE UMANO
Ogni mattina, con una puntualità che è tutto fuorché africana, sulle rive del fiume Sabaki, proprio dove il mare viene ad abbeverarsi d'acqua dolce, un ippopotamo emerge dall'acqua argillosa.
Si tratta sempre dello stesso esemplare, anche se i vecchi del luogo assicurano che abbia almeno tre sosia. E' una femmina, solitamente astiosa ed efferata. L'ìppopotamo è vegetariano, ma nutre una cattiveria insensata (o forse no) nei confronti del genere umano che lo porta a masticare e sputare immediatamente dopo, disgustato, il poveretto che gli dovesse capitare a tiro. In pochi hanno convinto il mondo con una teoria credibile sull'odio dell'hyppo per il genere umano. Si dice sia per il fatto che non esiste una sana e ancestrale rivalità legata alla natura (non si tratta di due carnivori che possono contendersi le stesse prede o divorarsi a vicenda, all'uomo non piace la carne di ippopotamo né con la sua pelle ne ricava vesti o calzature, all'ippopotamo non piacciono i reality show e la cocaina) ma una teoria più credibile rivela che potrebbe essere ancora incazzato per l'insulsa pubblicità dei pannolini che lo ha mostrato alle famiglie come un idiota bonaccione e incontinente.
L'ippopotamo del fiume Sabaki si chiama Wilma e, giorno dopo giorno, ha creato una sorta di linguaggio per il quale non è impossibile decifrarne i pensieri.
L'ineffabile reporter italiano Adelchi Maria Frediani ha fatto suo questo linguaggio è riuscito a intervistare Wilma.
F - Buongiorno, Wilma
W - “Ha mica del sedano? Lo uso indifferentemente come contorno e come stuzzicadenti”
F – Perché il suo disprezzo per la razza umana?
W - “Si è guardato bene, prima di uscire, stamattina?”
F – Che c'entra, anche lei, rispetto alla grazia dei felini, all'eleganza della giraffa, alla statuarietà dell'elefante...
W - “Appunto, a voi fa schifo l'ippopotamo e a noi l'uomo. 1-1 palla al centro”
F – Sì, ma a noi non state antipatici, anzi con la vostra mole e i dentoni fate tenerezza!
W - “Invece voi con il vostro opportunismo, il non saper stare più nel branco, la vostra falsità, mi fate solo e semplicemente cagare”
F – La mettiamo in politica?
W - “La mettiamo che se la prossima volta non ti presenti con il sedano, mentre mi intervisti qui sulla riva del fiume e mi troverai insolitamente gioviale e affabile, ti arriva nel culo un coccodrillo che se va bene ti lascia fuori i coglioni e il cellulare, degna rappresentazione dell'uomo moderno”
F- Ci vediamo tra qualche giorno con parecchio sedano, Wilma! Arrivederci.
W – “Ciao, imbecille.”
Ogni mattina, alle 10.30, con puntualità disarmante, alla foce di un placido fiume africano che incontra il maestoso tumulto dell'Oceano Indiano, un ippopotamo dalle movenze lente e dallo sguardo penetrante, attende l'uomo per sfidarlo su un campo inusuale, la logica, convinto che ultimamente, com'era migliaia d'anni fa, ci sia partita anche da quel punto di vista.
Si tratta sempre dello stesso esemplare, anche se i vecchi del luogo assicurano che abbia almeno tre sosia. E' una femmina, solitamente astiosa ed efferata. L'ìppopotamo è vegetariano, ma nutre una cattiveria insensata (o forse no) nei confronti del genere umano che lo porta a masticare e sputare immediatamente dopo, disgustato, il poveretto che gli dovesse capitare a tiro. In pochi hanno convinto il mondo con una teoria credibile sull'odio dell'hyppo per il genere umano. Si dice sia per il fatto che non esiste una sana e ancestrale rivalità legata alla natura (non si tratta di due carnivori che possono contendersi le stesse prede o divorarsi a vicenda, all'uomo non piace la carne di ippopotamo né con la sua pelle ne ricava vesti o calzature, all'ippopotamo non piacciono i reality show e la cocaina) ma una teoria più credibile rivela che potrebbe essere ancora incazzato per l'insulsa pubblicità dei pannolini che lo ha mostrato alle famiglie come un idiota bonaccione e incontinente.
L'ippopotamo del fiume Sabaki si chiama Wilma e, giorno dopo giorno, ha creato una sorta di linguaggio per il quale non è impossibile decifrarne i pensieri.
L'ineffabile reporter italiano Adelchi Maria Frediani ha fatto suo questo linguaggio è riuscito a intervistare Wilma.
F - Buongiorno, Wilma
W - “Ha mica del sedano? Lo uso indifferentemente come contorno e come stuzzicadenti”
F – Perché il suo disprezzo per la razza umana?
W - “Si è guardato bene, prima di uscire, stamattina?”
F – Che c'entra, anche lei, rispetto alla grazia dei felini, all'eleganza della giraffa, alla statuarietà dell'elefante...
W - “Appunto, a voi fa schifo l'ippopotamo e a noi l'uomo. 1-1 palla al centro”
F – Sì, ma a noi non state antipatici, anzi con la vostra mole e i dentoni fate tenerezza!
W - “Invece voi con il vostro opportunismo, il non saper stare più nel branco, la vostra falsità, mi fate solo e semplicemente cagare”
F – La mettiamo in politica?
W - “La mettiamo che se la prossima volta non ti presenti con il sedano, mentre mi intervisti qui sulla riva del fiume e mi troverai insolitamente gioviale e affabile, ti arriva nel culo un coccodrillo che se va bene ti lascia fuori i coglioni e il cellulare, degna rappresentazione dell'uomo moderno”
F- Ci vediamo tra qualche giorno con parecchio sedano, Wilma! Arrivederci.
W – “Ciao, imbecille.”
Ogni mattina, alle 10.30, con puntualità disarmante, alla foce di un placido fiume africano che incontra il maestoso tumulto dell'Oceano Indiano, un ippopotamo dalle movenze lente e dallo sguardo penetrante, attende l'uomo per sfidarlo su un campo inusuale, la logica, convinto che ultimamente, com'era migliaia d'anni fa, ci sia partita anche da quel punto di vista.
giovedì 9 ottobre 2008
INIZIO DELLE TRASMISSIONI - ELOGIO DEL SOGNO
Non è un caso che questo blog apra oggi. Veleggio verso i quarantuno anni e quarantuno anni fa, proprio oggi, moriva in Bolivia Ernesto "Che" Guevara, un sognatore che non disprezzava la violenza. Il 9 ottobre di quell'anno, ne compiva 27 John Lennon, un sognatore che voleva la pace disprezzando ogni tipo di violenza. Trent'anni fa se ne andava anche Jacques Brel, un sognatore che amava la vita, il vino e la poesia fino alla morte. Se esistesse un uomo che potesse contenere questi tre cuori, queste tre anime, ebbene io vorrei essere lui. Intendiamoci, non sono mai stato comunista, anche se ho spesso pensato di esserlo, ma ho desiderato più volte un mondo senza sfruttati e sfruttatori. Non sono mai stato un mistico, un utopista, non mi sono mai piaciute le giapponesi. Ma ho sognato spesso canzoni e ho cercato di cantare sogni. E che dire di Jacques Brel, se non quel che disse Giorgio Gaber. "Un maestro, l'unico grazie al quale ho pensato di poter unire il teatro alla musica". Non ho rimpianti, scrivo da una terra che amo e dove, anche se mi è difficile la performance, registrare dischi, produrre spettacoli, riesco ancora a sognare. Hasta el sueno, siempre!
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